La costruzione del razzismo
di Étienne BALIBAR
(il primo articolo di questa serie è uscito qui, a.i.)
1.Il razzismo tra storia e avvenire
Perché classifichiamo una serie di comportamenti sotto la comune categoria di «razzismo»? Per quale motivo un insieme di discorsi, estremamente diversi tra loro, che tendono a isolare, a stigmatizzare, a minacciare, a discriminare dei gruppi umani o sociali, sono considerati come razzisti? Perché qualifichiamo come «razziste» pratiche differenti — alcune spontanee, altre istituzionali — che hanno in comune il fatto di generare l’oppressione, l’ostilità, la sfiducia reciproche, che possono sfociare nella violenza estrema e che sono comuni a tutte le società, a quelle contemporanee come a quelle sviluppatesi nel corso della storia? Con mia grande sorpresa, la copiosa letteratura che oggi si consacra allo studio del «razzismo» discute del carattere antico o moderno del «fenomeno razzista», delle sue variazioni quantitative e qualitative, ecc., ma non si pone quasi mai questa domanda. Essa tende a considerare la risposta come acquisita, facendo della categoria di «razzismo» uno strumento il cui utilizzo nell’analisi sociologica e politica non pone alcun problema. Si passa direttamente alla discussione delle differenti definizioni, delle teorie concorrenti e dei loro limiti di validità. Alla base di questo atteggiamento è la convinzione che vi sia un fatto incontestabile: da un tempo più o meno lungo, esiste un fenomeno cui è dato il nome di razzismo; le sue manifestazioni sono molteplici; esso si trasforma con il passare del tempo senza tuttavia coincidere con ogni forma di violenza, né con ogni manifestazione di odio collettivo. Ma non sarebbe forse il caso di domandarsi da cosa deriva quest’evidenza?
È opportuno che ci poniamo questa domanda, anche perché, nella maggior parte delle società contemporanee, il razzismo è oggetto di un divieto che produce conseguenze giuridiche, benché queste siano differenziate e si discuta della loro legittimazione, delle loro modalità d’applicazione e dei loro limiti. Si può dire, nel corso di una campagna elettorale, che ci sono «troppi immigrati» o «troppi immigrati extracomunitari», o troppi «neri», o troppi «arabi», o troppi «musulmani», o troppi «ebrei»? O affermare che essi sono «non assimilabili» ai modelli culturali e alle istituzioni di «casa nostra»? O ancora affermare che, sotto questo o quell’aspetto, la loro «cultura» è «inferiore»? Sono problemi che si pongono quotidianamente, in termini non soltanto morali e politici, ma anche giuridici. Il fatto che il razzismo in quanto tale sia ormai vietato limita molto i dibattiti sulle sue origini, sulla sua natura e sui suoi effetti. C’impedisce di considerare che il significato del termine «razzismo» è una questione di pura convenzione e che ciascuno potrebbe definirlo in base ai propri preconcetti o ai propri postulati di ricerca.
La necessità di porsi il problema delle origini e del significato della categoria «razzismo» è resa più stringente dal fatto che veniamo sollecitati da valutazioni contraddittorie del ruolo del «razzismo» nelle società contemporanee. Questo problema non è soltanto formale e comporta conseguenze politiche e istituzionali. Alcuni analisti e saggisti vedono nel razzismo un fenomeno del passato, sempre più marginale, che tenderebbe naturalmente ad affievolirsi se non fosse «artificialmente» rinvigorito da strategie controproducenti e dagli «effetti perversi» di definizioni e interventi istituzionali quali l’affirmative action praticata negli Stati Uniti e le misure più o meno equivalenti di lotta contro le discriminazioni adottate in altri paesi.
Non sono solamente i conservatori o i neoconservatori, come il sociologo statunitense Dinesh D’Souza, autore di un libro-manifesto sulla «fine del razzismo» pubblicato nel 1995, che credono di poter fare uso del concetto di «razza» o di «differenza razziale», affermando al contempo che le società moderne stanno superando i pregiudizi e le discriminazioni (2). Anche alcuni intellettuali di sinistra non esitano ad affermare che le differenze professionali, o le differenze di generazione o di sesso, tendono oggi ad assumere, all’interno della conflittualità sociale, il ruolo che ieri era proprio delle differenze razziali, in particolare nei paesi segnati dal colonialismo e dalla schiavitù. Essi si presentano come i difensori di un universalismo repubblicano che teme che la difesa delle minoranze e dei gruppi oppressi degeneri in rivendicazioni «comunitariste», oppure cercano di elaborare una politica di emancipazione «post-coloniale» e «post-moderna» che permetta di passare dal discorso della razza e del razzismo a quello delle identità multiple «nomadi» o «diasporiche», che sovvertono le tradizionali concezioni eurocentriche della comunità (3).
Un’ampia gamma di discorsi sembra suggerire che, per ragioni differenti, la problematica del razzismo non può avere, oggi, che una portata storica e retrospettiva. Ma altri discorsi suggeriscono il contrario, in modo altrettanto insistente: non soltanto diverse tipologie di razzismo sono più vivaci e letali che mai, ma hanno davanti – non dobbiamo avere paura di dirlo – un brillante avvenire, che nulla avrà da invidiare al loro passato. Può darsi che oggi, a causa delle forme assunte dalla globalizzazione e dell’indebolirsi delle forze politiche che in tempi recenti ne hanno garantito la sconfitta, il razzismo divenga dominante nelle nostre società, al Nord come al Sud e all’Est come all’Ovest.
Questa prospettiva inquietante, tuttavia, può realizzarsi in modi differenti. Essi confermano il carattere conflittuale della semantica del razzismo. Molti ricercatori insistono sul fatto che gli sviluppi contemporanei si basano su uno spostamento dei bersagli, delle intenzioni, dei discorsi, benché tutto resti all’interno dei limiti generali di un paradigma di esclusione dell’altro, sia sociale sia simbolico (4). Questa constatazione porta alcuni autori a sviluppare la tematica detta del «razzismo culturale», del «razzismo differenziale» – o «differenzialista» – e persino, per sottolineare il paradosso, del «razzismo senza razze». In Francia studiosi come Pierre-André Taguieff – prima di passare a un altro tipo di discorso, più militante, a proposito della nuova «giudeofobia» (5)– hanno attirato l’attenzione sugli effetti perversi delle politiche e dei discorsi «antirazzisti» che trascurano o eufemizzano le forme «non biologiche» o «non gerarchiche» del discorso razzista, fondate sull’essenzializzazione della differenza culturale.
Ciononostante, man mano che dei conflitti a carattere etnico-religioso situati nel Nord come nel Sud – quando non traducono la interpenetrazione fra queste due dimensioni geografiche – generano genocidi e politiche di sterminio, come nella ex-Yugoslavia e in Africa orientale e centrale, o proiettano nel mondo intero i fantasmi della cospirazione e dello scontro di civiltà – come nel caso del conflitto israelo-palestinese – si diffonde l’idea che il razzismo in quanto tale è un fenomeno permanente, il cui ritorno periodico tradurrebbe l’incapacità delle società di «progredire» nella civiltà o la loro insuperabile dipendenza dalle strutture arcaiche della mentalità collettiva. Si può allora pensare che i dibattiti attuali attorno all’uso e alle applicazioni della categoria «razzismo» non soltanto comportano tensioni estreme, ma rischiano di generare confusione. Una confusione che non ha solo risvolti epistemologici, poiché il razzismo è, prima di tutto, un oggetto politico e gli aspetti della teoria e della lotta sono indissolubilmente legati. Ogni modalità di utilizzazione pubblica della nozione di razzismo produce immediatamente effetti a catena. È sufficiente ricordare che cosa ha scatenato la conferenza organizzata a Durban nel 2001 sotto i comuni auspici dell’UNESCO e della Commissione dell’ONU per i Diritti dell’Uomo. Si trattava, con la partecipazione delle delegazioni ufficiali di tutti i paesi, ma anche di numerose organizzazioni non governative – e in un luogo altamente simbolico della lotta contro le peggiori discriminazioni ereditate dalla colonizzazione – di dare un nuovo slancio alla lotta contro i pregiudizi razziali che costituiscono la maggiore preoccupazione della politica dei diritti umani (6). La conferenza, tuttavia, invece di giungere a una piattaforma d’azione comune, o perlomeno a una delimitazione dei problemi principali, non poté che lacerarsi di fronte a una serie di problemi. C’erano delegazioni che reclamavano l’inclusione del sionismo all’interno delle ideologie razziste, mentre altre difendevano l’idea che l’anti-sionismo è la forma moderna dell’antisemitismo. Alcune delegazioni sostenevano che le conseguenze economiche e culturali della schiavitù e della tratta dei neri dovevano dar luogo agli stessi «indennizzi» previsti per il genocidio e soprattutto per lo sterminio degli ebrei d’Europa, mentre altre rifiutavano questa idea. Alcune delegazioni volevano che le discriminazioni di casta nei paesi dell’Asia Sud-orientale – India in primis – fossero incluse tra le manifestazioni di razzismo, mentre altri vi si opponevano. E così via. Le conseguenze di questo fallimento sono disastrose. Non si tratta di un episodio politico tra tanti altri nella storia delle organizzazioni internazionali. È il segno di come sia urgente ripensare che cosa intendiamo con il termine «razzismo», come articoliamo questo fenomeno in rapporto agli altri che, storicamente, lo intersecano, come il nazionalismo, l’imperialismo, l’intolleranza religiosa. E per prima cosa occorre esaminare criticamente la storia intellettuale che ha prodotto questa categoria.
Come introduzione preliminare, vorrei interessarmi non a quella che è stata chiamata da certi autori «l’invenzione del razzismo», in quanto fenomeno moderno o, al contrario, antico – posizione che dà per acquisita la categoria generale, soprattutto quando si assume che la realtà precede le parole (7)– ma all’elaborazione della categoria stessa. Questa ha coinciso, infatti, con il cambiamento dell’idea stessa d’umanità, dove l’accento era ufficialmente posto sull’uguale dignità degli esseri e sull’indivisibilità della specie umana. Le conseguenze epistemologiche di questo gesto politico sono inseparabili da un mutamento dell’antropologia stessa. Si tratterà di descriverne il senso, sempre sottolineando l’importanza delle resistenze che questo mutamento ha innescato e che testimoniano che esistono altri modi per teorizzare i fenomeni in questione. Potremo così darci, almeno in teoria, gli strumenti per comprendere meglio le tensioni interne al paradigma antropologico, dalle quali alla fine deriva la sua disintegrazione, in particolare con l’emergere dell’idea di «razzismo differenziale» e di una nuova problematica dell’inclusione interna.
2. La «preistoria» della categoria storico-politica del razzismo
Occorre prima di tutto ricordare, in maniera schematica, come è apparso il termine «razzismo». La maggior parte degli storici richiama l’attenzione sulla derivazione di «razzismo» da «razza», termine la cui etimologia è a sua volta controversa. I primi usi critici del termine «razza», durante gli anni Trenta del Novecento, provengono da autori tedeschi – in fuga dalle persecuzioni naziste – che scrivono o sono tradotti in inglese. In Race and Civilisation, pubblicato nel 1928, Friedrich Hertz utilizza ancora il termine «odio razziale», ma già nel suo libro del 1933-34, tradotto e pubblicato nel 1938, con il titolo di Racism, Magnus Hirschfeld utilizza il termine distinguendolo da «xenofobia» (8). Se rapportato al fenomeno oggettivo in quanto tale, l’uso del termine «razzismo» resta, sia chiaro, tardivo. Esso «naturalizza» l’espressione di Rassenlehre di cui si servivano i nazisti per fondare le loro categorizzazioni ereditarie e le loro persecuzioni. Da un punto di vista filologico, la tappa seguente sarebbe rappresentata dal dibattito proposto alla comunità scientifica da intellettuali come Julian Huxley – che sarebbe poi diventato il primo direttore generale dell’UNESCO –per stabilire se i nazisti hanno «deviato» dal suo legittimo uso il concetto biologico di «razza», che tuttavia deve considerarsi valido, o se al contrario, quella di razza è una pseudo-nozione scientifica: una costruzione «mitica» o una «superstizione» priva di valore esplicativo, ma capace di proiettare nella vita quotidiana differenze che sono essenzialmente culturali e linguistiche (Ariani e Semiti ecc.) (9).
Infine, in un terzo momento, il dibattito si sposterebbe sul terreno dell’etnologia e dell’antropologia, trovatesi a far fronte alle vicende della colonizzazione e al carattere sempre più problematico della distinzione tra civiltà e barbarie. Un tipico esempio di questa generalizzazione – un esempio notevole per il perdurare della sua influenza – è l’opera di Ruth Benedict, Race and Racism, pubblicata nel 1942 (10).
A partire da qui basterebbe fare un piccolo passo in avanti per giungere alle definizioni contenute nelle critiche «scientifiche» ufficializzate dalle dichiarazioni dell’UNESCO del 1950 e del 1951 sulla questione razziale, sulle quali si sono poi costituiti e basati tutta una serie di usi educativi e politici, che alcuni autori hanno descritto come un movimento di «inflazione permanente» del loro senso (11).
Altri studi obbligano, tuttavia, a complicare un poco questa presentazione fin troppo lineare, utilizzando soprattutto fonti francesi (12). Il termine «razzismo», in un’accezione positiva, era già in uso tra la fine del diciannovesimo secolo e gli albori del ventesimo, presso quegli ideologi nazionalisti che volevano affermare la superiorità della «razza francese» rispetto ai nemici interni ed esterni, presentati come «corpi estranei» alla nazione, che ne avrebbero minacciato la decadenza. Questo utilizzo autoreferenziale fu abbandonato solo nel corso degli anni Trenta del Novecento, nel momento in cui sorse il bisogno di marcare la differenza con la Germania nazista: si parlò allora di «nazionalismo» per designare un insieme di valori politici, supposti come tipicamente «latini», in opposizione al «razzismo» presentato come «germanico». Taguieff sottolinea l’importanza di questo cambiamento per illustrare l’ambivalenza della nozione, oscillante tra un’identificazione autoreferenziale e un uso estrinseco e polemico, che tende a riprodurre come in uno specchio la logica di stigmatizzazione, al contempo presentata come il suo aspetto centrale – da questo punto di vista, diventa allora possibile caratterizzare in maniera essenzialista alcuni popoli, alcune nazioni, o alcuni individui, come intrinsecamente «razzisti», o come più naturalmente «razzisti» che altri.
Personalmente ritengo che questi usi facciano parte di una fase preparatoria, di una «preistoria» della categoria storico-politica del razzismo. Il cambiamento decisivo mi sembra costituito dalla definizione di un «mito» o di un «pregiudizio» che, in quanto tale, coinvolgerebbe l’umanità intera nel corso della storia, e che sarebbe necessario eliminare o sradicare grazie a una politica dei «diritti dell’uomo», il cui cuore sia costituito dalla confutazione, con argomenti scientifici, dell’idea secondo la quale le disuguaglianze rimandano a differenze di razze interne all’umanità. Da qui il progetto di un’educazione universale, da svilupparsi grazie allo sforzo congiunto degli Stati democratici e delle istituzioni nazionali così come di quelle internazionali, contro il pregiudizio razziale e le discriminazioni fondate sulla «razza». Tutto questo non è mai esistito prima delle due dichiarazioni del 1950 e del 1951, redatte da un gruppo di famosi intellettuali – biologi, antropologi, sociologi e psicologi – riuniti grazie all’UNESCO su richiesta del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite. Queste furono seguite dalla pubblicazione nel 1956 di una serie di opuscoli esplicativi ideati dagli stessi autori – Juan Comas, Kenneth Dittele, Harry Shapiro, Michel Leiris, Claude Lévi-Strauss, L.C. Dunn, Otto Klineberg, ecc. – raccolti poi in una pubblicazione in francese, Le racisme devant la science, 1960 (13). Si tratta di una vera e propria «rottura epistemologica», destinata ad aprire un nuovo paradigma intellettuale, le cui importanti caratteristiche richiedono un esame più accurato.
3. Il paradigma antropologico
Questo «evento» si produce all’interno di un campo di «potere-sapere», inteso à la Foucault. Certo lo statuto storico di istituzioni quali l’ONU o l’UNESCO è complesso e non privo d’ambiguità. La loro autorità deriva da una delega di potere da parte degli Stati-nazione ma non è puramente politica, senza per questo essere scientifica. Potremmo affermare che essa trae la propria legittimità dal potere disciplinare delle scienze – biologia, sociologia, antropologia, ecc. – ma allo stesso tempo ne rimette in causa i presupposti e le spinge a riformarsi per poter giocare un ruolo attivo nel processo di sviluppo politico dei diritti umani. Potere e sapere si rinforzano dunque reciprocamente e gli usi presenti o futuri della categoria «razzismo» sono interessati da questo processo circolare.
È opportuno riflettere anche sul legame tra questo evento epistemologico, che è la «costruzione» o «l’invenzione» del razzismo, e una determinata congiuntura storica: quella che segue immediatamente la fine della Seconda guerra mondiale e vede il sorgere dei movimenti di liberazione dei popoli colonizzati e dei movimenti per i diritti civili nelle società sottoposte a segregazione razziale, come gli Stati Uniti d’America. Non dimentichiamoci che la creazione dell’UNESCO avviene all’indomani della definizione del nuovo crimine di «genocidio» fatta dal Tribunale di Norimberga e ripresa dalle Nazioni Unite nel 1948 (14).
La nozione di «razzismo» costruita riunisce sotto un solo nome tre tipologie di situazioni, che appariranno di conseguenza come altrettante forme specifiche di «razzismo»: l’antisemitismo, di cui il nazismo tedesco costituisce lo sviluppo estremo; il razzismo coloniale, che implica la divisione dell’umanità in razze «superiori» e «inferiori», «civilizzate» e «barbare» – le subject races del colonialismo britannico –; e, infine, il pregiudizio del colore, legato alla segregazione e all’istituzione dell’apartheid nelle società post-coloniali che assegnano uno statuto inferiore ai discendenti degli schiavi. Sottolineiamo come questa ripartizione permetta di mettere in luce delle analogie di ordine sociale e ideologico. Essa ci porta a interrogarci sul legame esistente tra l’istituzione della disuguaglianza – institution de l’inégalité – e il fenomeno della violenza estrema, sia sotto la forma del lavoro forzato, sia sotto quella dello sterminio. Ma essa rappresenta anche una scelta presa in una congiuntura storica data: traduce una percezione e una selezione all’interno della molteplicità delle esperienze collettive costitutive della costruzione della nuova categoria di «razzismo».
Da qui deriva un terzo aspetto dell’«evento»: si assume che le forme incluse sotto lo stesso nome – «razzismo» – derivino dall’applicazione di una stessa «teoria» – spesso designata come «mito» (15)– quella della biologia delle razze umane. Si tratta, più precisamente, di una combinazione tra l’idea che il motore dell’evoluzione sia la «lotta per l’esistenza», quella che le disposizioni culturali e le capacità intellettive abbiano un carattere «ereditario» e quella che sia necessario difendere, attraverso una politica eugenetica, la superiorità delle «popolazioni» dominanti dal pericolo della decadenza. È questa combinazione pseudo-scientifica che avrebbe prodotto o legittimato, dapprima, la tesi della disuguaglianza delle razze che compongono la popolazione umana e, in particolare, quella della superiorità della razza «bianca» sulle razze di «colore»; quindi il terrore del meticciato; e, infine, l’immaginario della lotta tra gli «Ariani» e i «Semiti» per la dominazione del mondo. Al contrario, la critica di questa posizione implica il riconoscimento di un principio filosofico d’indivisibile unità della specie umana, che possiamo anche chiamare fondamento umanista dell’universalismo, in opposizione ai suoi fondamenti religiosi o scientifici. Esso si enuncia principalmente in forma negativa, divenendo così l’equivalente di un imperativo categorico: ogni divisione della specie umana in gruppi distinti, essenzialmente differenti, da un punto di vista culturale o da un punto di vista biologico, è allo stesso tempo impossibile e inaccettabile.
Un’affermazione del genere, non nascondiamocelo, non ha nulla d’incontestabile. Occorre qui difendersi dall’illusione retrospettiva. Essa non soltanto si scontra con ataviche credenze, apparentemente inseparabili dalla stessa categoria di «civiltà», ma rappresenta un equilibrio instabile tra la negazione pura e semplice delle differenze interne alla specie umana e la loro interpretazione in termini essenzialisti e gerarchici. Le scienze positive tenteranno senza sosta di dimostrare che un tale equilibrio può assumere un contenuto preciso, ma il compito si rivelerà interminabile.
Tuttavia si deve anche notare che la formulazione di questo paradigma, allo stesso tempo politico, filosofico e scientifico, portava con sé sin dall’inizio un conflitto latente che ne avrebbe indotto la modifica e la riformulazione, pur presentandole come un semplice «aggiornamento» scientifico. È ciò aveva mostrato subito lo stupefacente fatto che l’UNESCO non si era potuta accontentare di un’unica dichiarazione sulla «razza» e sul «razzismo», ma dovette pubblicarne due in successione (1950, 1951). Più di un organismo accademico – in particolare la British Royal Academy – aveva sollevato obiezioni contro la prima dichiarazione, sostenendo che essa andava «troppo oltre» nella confutazione dell’esistenza di determinanti biologiche della trasmissione dei caratteri fisici e intellettivi degli individui e che procedeva a un ribaltamento dell’idea individualista della «lotta per l’esistenza» in favore di un principio di «solidarietà» interno alla specie completamente privo di fondamento scientifico. In questa divergenza iniziale, resa manifesta dalla giustapposizione dei due testi, possiamo rintracciare il prototipo dei conflitti e delle riscritture che, fino ai nostri giorni, hanno fatto della critica del razzismo un processo inesauribile, all’interno del quale una molteplicità di discorsi «universalisti» si confrontano per modificare le politiche educative e le legislazioni «antirazziste».
Per quanto marginali possano sembrare di fronte ai dibattiti attuali, queste considerazioni sono indispensabili per articolare tra loro tre tipologie di conseguenze di cui siamo gli eredi. Prima di tutto le conseguenze epistemologiche che riguardano la stessa organizzazione del sapere contemporaneo «sull’uomo»; quindi il sorgere di resistenze al paradigma dominante, che possiamo chiamare «umanista»; e, infine, la sua progressiva trasformazione in un paradigma diverso, quello del «razzismo senza razze» o «razzismo culturale» (razzismo «differenzialista»).
Le conseguenze epistemologiche non solamente sono sorprendenti per la loro influenza sull’organizzazione delle scienze umane, ma soprattutto per la problematica del razzismo, interpretato filosoficamente come proiezione ideologica o mitica delle differenze naturali interne alla specie umana a discapito della sua essenziale indivisibilità, che viene così a trovarsi al cuore dei presupposti dell’antropologia, e non a derivare solamente da applicazioni specifiche. Parlerei allora di una rivoluzione copernicana nella storia dell’antropologia, che la fa passare da uno sguardo «oggettivista» a uno sguardo «soggettivista» nell’uso del concetto di razza. L’antropologia, in effetti, si distacca dallo studio delle differenze tra le razze e della loro disuguaglianza, considerate come fenomeni oggettivi di cui occorre rintracciare le conseguenze nel campo della politica e della cultura, per passare allo studio del «razzismo», ovvero di quella credenza soggettiva in una disuguaglianza fra le razze, che proietta una griglia d’interpretazione «razziale» sull’insieme della storia o riduce l’insieme delle differenze umane a un modello immaginario di supposte differenze originarie ed ereditarie.
Un tale cambiamento di prospettiva modifica l’intera metodologia delle scienze umane, anche se non in maniera univoca. Il primato del determinismo biologico, e soprattutto del determinismo evoluzionista darwinista o pseudo-darwinista, è messo in discussione, ma non necessariamente la possibilità di includere alcune condizioni biologiche o la rappresentazione delle razze come concetto derivato, ossia come fenomeno di «popolazione», in programmi di ricerca in psicologia cognitiva e affettiva. Soprattutto esso non impone una direzione particolare nella quale ricercare le «radici» dei pregiudizi razziali: queste possono risiedere nelle strutture socio-economiche, in senso marxista – la divisione gerarchica del lavoro, più o meno funzionale, delle società capitaliste (16) – o nelle strutture simboliche e nei sistemi di rappresentazione proiettati nell’immaginario, secondo l’orientamento prediletto dai cultural studies, che non a caso si costituiscono a partire da una interpretazione del razzismo e più generalmente delle figure dell’alterità nelle società post-coloniali (17).
Non dubito che questo cambiamento marchi un nuovo inizio nella storia della disciplina antropologica. Ma occorre domandarsi se non ci sia un elemento di continuità soggiacente al ribaltamento dell’oggettivismo in soggettivismo, benché le conseguenze pratiche siano opposte. L’antropologia è sempre un progetto di conoscenza e di riconoscimento di sé da parte dell’umanità o d’identificazione dell’umano nell’uomo. Essa cerca di rispondere al problema dell’identità e delle differenze interne al «mondo umano» come mondo storico, geografico, culturale. Chi siamo e dove siamo gli uni in rapporto agli altri? A questa domanda, dal diciottesimo secolo e fino alla metà del ventesimo, in un mondo dominato da una filosofia della storia euro-centrica, hanno preteso di fornire una risposta la storia naturale, la biologia e la psicologia delle razze. Dopo la Seconda guerra mondiale, nonostante alcuni presagi della rivoluzione copernicana nella critica del determinismo biologico da parte del culturalismo – sarebbe utile qui concentrarsi particolarmente sugli Stati Uniti d’America, sulle opere simmetriche di W.E.B. Du Bois e di Franz Boas – la prospettiva diviene bruscamente quella dello studio del «razzismo» e della sua teorizzazione. L’umanità in quanto tale non è più quindi una specie il cui sviluppo è guidato dalle differenze di razza, ma una specie composta di individui e di gruppi capaci di sviluppare il razzismo, forse addirittura inevitabilmente condotti a costruire dei miti razzisti – e più generalmente delle illusioni «xenofobe», «eterofobe» – sotto l’effetto di una sorta di illusione trascendentale, o come conseguenza della propria organizzazione in culture, società e comunità separate da rapporti di dominazione oggettivi. È quello che potremmo chiamare «teorema di Sartre», pensando al modo in cui, nello stesso periodo, nelle sue Réflexions sur la question juive (1946), questi sosteneva che «l’Ebreo non esiste», ma che «è l’antisemitismo che fa l’Ebreo».
Tuttavia, vediamo bene che, in entrambi i casi, si suppone che la «scienza» o la «conoscenza scientifica» ci diano la risposta definitiva. Formulare quest’osservazione, sia ben chiaro, significa non squalificare l’idea e la possibilità di una conoscenza scientifica, ma suggerire come la critica epistemologica applicata alle «teorie razziali» potrebbe rivolgersi anche contro i propri eredi, ossia contro le teorie del «razzismo storico». Significa soprattutto mettere in discussione il «doppio empirico-trascendentale» – ancora Foucault – che qui riguarda non l’individuo, ma il «genere umano» (Gattungswesen), partendo da un principio morale e filosofico dell’unità dell’umanità e assegnando alle discipline antropologiche il compito di spiegare il sorgere dei pregiudizi razziali, ovvero dei soggetti o delle soggettività «razziste». È chiaro che questa funzione è segnata da un’ambiguità alla quale è forse impossibile sfuggire. Conformemente a quello che era il programma iniziale delle istituzioni internazionali, essa s’iscrive in una prospettiva di progressiva abolizione del razzismo da parte della scienza e della volgarizzazione scientifica, della pedagogia e della legislazione, che riproduce l’ideale, derivato dall’Illuminismo, di auto-educazione dell’umanità. D’altra parte tuttavia, all’interno di società che potrebbero essere caratterizzate come «Stati razziali» – nel senso dato al termine da David Goldberg (18) essa s’iscrive in un programma di regolazione delle race relations, e dunque dei conflitti e delle rappresentazioni razziste. In questo senso tutti gli Stati contemporanei – anche se il razzismo non è istituzionalizzato come fondamento ideologico della cittadinanza – sono degli «Stati razziali», poiché comportano delle disuguaglianze e dei conflitti sociali rappresentabili in termini di differenza razziale o di suoi equivalenti – la differenza etnica, la condizione migratoria –, e, al contempo, sono impegnati in una lotta politica e giuridica di riaffermazione dell’uguaglianza, perlomeno formale. Si consacrano così al compito di «combattere il razzismo», di «estirparlo» dallo spazio pubblico e dalle istituzioni della comunità politica. Tutto ciò ha importanti conseguenze pratiche; basti pensare allo sviluppo di una giurisprudenza dedicata alle forme di discriminazione razziale e alle modalità del razzismo. Si potrebbe sostenere che questo è l’altro versante – quello istituzionale – della rivoluzione epistemologica prima illustrata.
4. Esempi di «resistenze» all’estensione universale del paradigma antropologico
Per questo è importante, in conclusione, tentare di identificare questa rivoluzione epistemologica, che fa dello studio del «razzismo» in quanto fenomeno ideologico, il cuore della disciplina antropologica e allo stesso tempo assume che esso, nelle sue cause, nelle sue varianti e nelle sue trasformazioni storiche, deriva da una spiegazione antropologica – da modelli universali di strutture sociali e simboliche – dalle resistenze che suscita e dalle eccezioni che comporta. Queste sono tanto antiche quanto il modello antropologico stesso, di cui mettono in dubbio la validità e la legittimità istituzionale conferitagli dagli organismi culturali e politici (19). Esse propongono dei modelli alternativi per la comprensione dei comportamenti e delle rappresentazioni razziste e si interrogano sulla validità stessa della categoria di «razzismo» come categoria universalizzante.
Avendo suggerito che il paradigma antropologico era legato a un «imperativo categorico» di carattere umanista, da cui deriva una rappresentazione della politica come «politica dei diritti dell’uomo», potremmo giustamente chiederci se le resistenze al paradigma antropologico e le critiche implicite alla sua validità, corrispondano in filosofia a una visione anti-umanista. Non penso tuttavia che le cose siano così semplici. Vorrei qui solamente suggerire che tali critiche devono, inevitabilmente, mettere in discussione la coerenza dei principi umanisti in filosofia e nel campo politico, a meno che non conducano, al contrario, a estremizzarli, il che significa che essi appaiono non più come delle «evidenze», come delle «verità indiscutibili» (self-evident truths), ma come dei postulati o delle ipotesi da verificare. Spendiamo qualche parola su quelle che sono apparse durante il periodo stesso di costruzione del paradigma dell’UNESCO, immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale. Vengono in mente molti casi, la cui differenza stessa è significativa.
Pensiamo a scrittori come Robert Antelme in Francia – il suo L’espèce humaine, scritto nel 1947 fu pubblicato solamente nel 1957 (20)– o come Primo Levi in Italia, il cui Se questo è un uomo venne pubblicato anch’esso nel 1947 a Torino. Durante la loro ricerca di un’espressione «letteraria» dell’esperienza del sistema e dei campi di concentramento, capace di rendere percettibile, andando oltre le possibilità di una spiegazione causale, la loro disumanità, questi autori possono o meno fare uso della categoria del «razzismo» – è il caso di Levi, ma non di Antelme – ma in ogni caso – il titolo di Antelme non deve indurci in errore – il problema che pongono non ha nulla a che vedere con la problematica della divisione gerarchica della specie umana: esso riguarda la possibilità contraddittoria di negare a degli esseri umani la propria qualità di uomini o di «espellerli» dalla condizione umana, non solamente attraverso il discorso, ma anche attraverso la pratica. Si tratta di pensare un’esperienza-limite – quella della distruzione del legame d’umanità – che occorre invocare per riaffermare l’indivisibilità della specie umana in maniera problematica, forse disperata, quasi nei termini della scommessa di Pascal. L’opposizione al paradigma antropologico mi pare stia qui, nella constatazione che occorrerebbe ripartire da queste esperienze-limite per poter interpretare le potenzialità di sterminio legate alle culture o alle strutture razziste, mentre il paradigma antropologico, in un certo senso, si sforza di fare il contrario, ovvero di spiegare strutturalmente lo sviluppo del razzismo per ricercarne la «causa» e descrivere, a partire da questo, le condizioni di una trasgressione radicale dell’imperativo umano.
Si potrebbe, poi, pensare all’esempio di Frantz Fanon ponendo particolare attenzione al suo primo libro, Peau noire, masques blanches, pubblicato nel 1952, nel periodo in cui l’autore, medico e scrittore francese nato in Martinica, veniva a insediarsi come primario presso l’ospedale psichiatrico di Blida, prima di unirsi alla lotta di liberazione del FNL algerino, per il quale avrebbe in seguito scritto il celebre saggio Les damnés de la terre (1961), pubblicato con una prefazione di Jean-Paul Sartre (21). Sotto molti aspetti l’opera di Fanon sembra apparire in maniera precoce come quel ribaltamento del ribaltamento che aveva fatto passare dall’analisi scientifica della «razza» a quella del «razzismo». Si tratta, evidentemente, non di ristabilire una definizione oggettiva della «razza», ma di sviluppare un uso che possiamo definire come «performativo» dei nomi della razza, quale per esempio quello di «negro» – già messo in atto dal discorso sulla «negritudine», che tuttavia è un termine molto più ambiguo, interno a un paradigma culturalista – in maniera tale da muovere la sfida al cuore stesso del discorso discriminatorio – che per il nero non è mai esterno, ma introiettato, costitutivo della propria «personalità» – e far sentire non solamente un «punto di vista», ma il tremare della voce (22). Nello stesso modo, contro le rappresentazioni asettiche della «società democratica» che trionfarono all’indomani della vittoria sul nazismo tendendo a oscurare la realtà persistente del colonialismo, Fanon insiste non soltanto sul fatto che il razzismo è una struttura sociale – e che gli individui sono «razzisti» perché le società stesse sono costruite sulla distinzione assoluta tra «padrone» e «schiavo» – ma anche sull’ambivalenza degli effetti psicologici di questo razzismo strutturale, che deve essere descritto fenomenologicamente. Quella che egli chiama alienazione è valida, lo sappiamo bene, sia per il colonizzato sia per il colonizzatore, anche se non nella stessa maniera: essa è imperniata sul fenomeno della coscienza condivisa e sulla perversione dei rapporti e dei fantasmi sessuali sfocianti a tratti nella psicosi, che impregnano le rappresentazioni reciproche del dominatore e del dominato e l’identificazione feticista con il proprio «colore» (23).
È negli stessi anni, infine, che Hannah Arendt pubblica Le origini del totalitarismo (1951), nel quale è possibile ravvisare l’illustrazione di un punto di vista filosofico politico – nonostante le reticenze di Arendt a usare il termine filosofia politica nel senso accademico – di fronte al punto di vista antropologico (24). Arendt non s’interessa a una struttura, ma a una storia particolare dell’Europa nella quale «l’antisemitismo» s’incontra con il colonialismo e l’imperialismo, sviluppatisi in maniera indipendente, elaborando in tal modo una genesi empirica dello «Stato razziale» nella sua forma di stato d’eccezione. Questo la spinge a operare un’inversione del rapporto tradizionale tra «diritti dell’uomo» e «diritti del cittadino» o diritti politici: quello che potremmo chiamare «teorema di Arendt», da cui ha origine il suo soffermarsi sulla questione degli «apolidi», ovvero sugli individui e sui gruppi che vengono privati dei loro diritti fondamentali ed esclusi, in pratica, dalla condizione umana, dopo essere stati spogliati del loro status di persone giuridiche e trasformati in apolidi. Da qui il criterio del «diritto ad avere diritti», che resterà il cuore della sua concezione della comunità politica. Il razzismo – qui di nuovo visto in funzione delle sue norme di «sterminio» – affonda le radici nella storia imperiale e coloniale ed è da qui, e non dalle forme classiche dell’antisemitismo, che provengono i suoi modelli e le sue tecniche di massa, ulteriormente perfezionate e generalizzate poi dal nazismo. È un fenomeno istituzionale, riguardante la costruzione delle «comunità politiche», il che non è esattamente la stessa cosa che parlare di «società», anche se il riunirsi politicamente richiede delle basi e produce effetti sociali (25).
La differenza tra queste «resistenze» all’estensione universale del paradigma antropologico – del quale esse non sono pure e semplici negazioni, permettendo piuttosto di pensarne i limiti – è evidente e mostra che sarebbe impossibile unirle per farne un paradigma alternativo coerente. Colpisce, tuttavia, che tutte pongano il problema della comunità umana, invece che quello della specie o del genere umano: una comunità paradossale, allo stesso tempo reale e, in qualche modo, impossibile in quanto tale, intendendola come «totalità» senza esclusioni o frontiere, situazioni che si manifestano precisamente nei casi limite, dove essa si trova confrontata alla minaccia della propria distruzione reale o immaginaria. Appare allora chiaramente come l’affermazione del principio umanista d’indivisibilità della specie non basti a determinare le condizioni grazie alle quali può esistere qualcosa come una comunità umana o universale. Questo principio non riflette che l’aspetto trascendentale: pone l’elemento «comune» a tutti gli esseri umani dal punto di vista dell’origine e della destinazione finale, senza farlo, con ogni evidenza, da quello delle strutture politiche o sociali reali. Inoltre, riflette solo la necessità d’immaginare un elemento comune, una comunità ideale, come un fine morale che sottende la costruzione delle comunità particolari chiuse su se stesse e che si escludono reciprocamente.
Il limite di questo principio potrebbe derivare dal fatto che i principi che sottendono la definizione ufficiale del razzismo sono stati enunciati da un’istituzione che rappresenta degli Stati-nazione, portati dalle circostanze a tentare di sottomettere in modo più vincolante le proprie relazioni al diritto internazionale. È proprio questo modello, che associa una comunità umana privata di potenza istituzionale a delle comunità storico-empiriche – le nazioni –e destinata a elevare idealmente la rappresentazione politica al di sopra delle differenze antropologiche, delle «divisioni» dell’umanità – per quanto le si voglia pensare soggettive, ideologiche, immaginarie – che perde il suo senso negli «stati d’eccezione», quando gli Stati coloniali, i regimi d’apartheid, le politiche di sterminio prendono il sopravvento sulla forma dello «Stato di diritto».
5. Conclusioni provvisorie. Il criterio dell’esclusione
Non si trattava certamente, in questa sede, di svolgere una presentazione completa del paradigma antropologico, dei problemi che esso pone o delle trasformazioni che subisce nel momento in cui la definizione del «razzismo» si trova di fronte a nuove situazioni storiche. Si trattava solamente di indicarne la necessità. Il problema che si pone è quello di sapere se la stessa categoria di razzismo non è oggi giunta a un punto di decomposizione e di decostruzione. I problemi epistemologici che si pongono sono due e occorre porli simultaneamente. Da un lato, all’interno dello stesso paradigma antropologico, la comprensione del razzismo evolve in direzione di un concetto di «razzismo culturale» o di «razzismo differenziale». In un certo senso, questo rappresenta la logica conclusione della frattura che aveva condotto ad abbandonare la visione naturalista in favore di quella storica e di analisi delle rappresentazioni collettive caratteristiche del paradigma antropologico. Tuttavia diventa improvvisamente problematico assegnare dei limiti alla categoria, limiti dai quali pure dipende il suo uso scientifico, il suo valore analitico: ogni fenomeno di discriminazione, ogni violenza simbolica sembrano esservi compresi. La reversibilità stessa del razzismo e del sessismo sembra perdersi nella loro equiparazione. D’altra parte nuovi «casi», nuovi «esempi» sembrano sostituirsi, almeno in parte, al sistema ternario che sottendeva la definizione iniziale: antisemitismo, colonialismo, apartheid.
Allo stesso tempo la problematica delle discriminazioni istituzionali legate alla destabilizzazione delle comunità politiche – a partire dalle nazioni – si fa sempre più insistente nelle società post-coloniali e negli insiemi transnazionali o post-nazionali, lasciando in secondo piano il criterio della divisione «naturale» della specie umana, o delle credenze, dei miti che l’invocano. Altri criteri di definizione delle strutture, dei discorsi e dei comportamenti razzisti, quali il criterio di esclusione – o meglio dell’esclusione interiore – emergono in primo piano. Questi non hanno, almeno in apparenza, bisogno di riferirsi alle «razze». Occorrerebbe quindi esaminarne la costituzione e il funzionamento nelle ricerche contemporanee, ampliando l’analisi qui cominciata (26).
1) Riguardo al rapporto tra il modello statunitense e quello francese della politica di «discriminazione positiva», cfr. V. De Rudder, C. Poiret, F. Vourc’h, L’inégalité raciste. L’universalité républicaine à l’épreuve, PUF, Paris 2000.
2) D. D’Souza, The End of Racism. Principles for a Multiracial Society, The Free Press, New York 1995.
3) Penso in particolare ai lavori di Paul Gilroy, del quale si veda a titolo esemplificativo Against Race: Imagining Political Culture beyond the Colour Line, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2002.
4) Cfr. il mio saggio: Difference, Otherness, Exclusion, in «Parallax», 2005, XI (2005), n. 1, 19-34.
5) Cfr. il mio saggio: «Un nouvel antisémitisme?», in Antisémitisme: l’intolérable chantage. Israël-Palestine, une affaire française?, Editions La Découverte, Paris 2003, pp. 89-96.
6) Cfr. il volume ufficiale: United to Combat Racism, Dedicated to the World Conference against Racism, Racial Discrimination, Xenophobia and Related Intolerance, Durban, South Africa, 31 August-7 September 2001, prefazione di Koïchiro Matsuura e Mary Robinson, UNESCO, Paris 2001. Per una lettura critica fatta da uno dei protagonisti, discutibile, ma chiarificatrice, cfr. M. Banton, The International Politics of Race, Polity Press, Cambridge 2002.
7)Come mostra, ad esempio, la posizione di Christian Delacampagne ne L’invention du racisme. Antiquité et Moyen Age, Fayard, Paris 1983.
8) I riferimenti qui presentati sono tratti da R. Miles, Racism, Routledge, London 1989.
9) Tale concezione critica della nozione di razza come derivata da una «falsa scienza» porta, soprattutto da parte di alcuni studiosi, a chiederne il non utilizzo, anche in maniera negativa, all’interno di testi giuridici e politici, che contribuirebbero ad accreditarne l’illusione: in riferimento a questo si possono vedere gli interessanti interventi del convegno organizzato nel 1992 presso l’Università di Paris XII: «Sans distinction de…race», Le mot race est-il de trop dans la Constitution française?, in «Mots – Les langages du politique», (1992), n. 33.
10) R. Benedict, Race and Racism [1942], con una prefazione di John Rex, Routledge & Kegan Paul, London 1983.
11) Cfr. R. Miles, op. cit.
12) Cfr. P.A. Taguieff, La force du préjugé. Essai sur le racisme et ses doubles, Editions La Découverte, Paris 1988, pp. 122-151.
13) Le Dichiarazioni del 1950 e 1951 compaiono dapprima all’interno dell’opuscolo The race concept, UNESCO, Paris 1952; sono in seguito riprese nelle due edizioni successive – del 1964 e 1967 – del volume francese Le racisme devant la science, UNESCO/Gallimard, Paris 1960 – occorre notare come il contenuto vari sensibilmente tra le ristampe succedutesi, l’ultima delle quali è del 1975 – e in Four statements on the race question, UNESCO, Paris 1969.
14) Cfr.Y.Ternon, L’innocence des victimes. Regard sur les génocides du XXème siècle, Desclée de Brouwer, Paris 2001.
15) Cfr. Il titolo dello studio di Léon Poliakov, Le mythe aryen. Essai sur les sources du racisme et du nationalisme, Calmann Lévy, Paris 1971, che si riferisce a uno dei tre «miti razziali» identificati da Juan Comas all’inizio della pubblicazione dell’UNESCO, ma funge anche da eco al Mito del ventesimo secolo del teorico nazista Alfred Rosenberg. L’antropologo spagnolo Juan Comas (1900-1979), divenuto cittadino messicano nel 1940, ha giocato un ruolo determinante nel fenomeno di cristallizzazione di queste formulazioni.
16) L’opera di Immanuel Wallerstein – cfr. Race, nation, classe. Les identités ambiguës, in collaborazione con É. Balibar, Editions La Découverte, Paris 1988 – ne è una buona illustrazione, così come quella di Robert Miles: Capitalism and Unfree Labour, Routledge, London-New York 1987; Racism after ‘Race relations’, Routledge, London-New York 1993.
17) Vedi soprattutto l’opera di Stuart Hall. Rinvio in particolare al suo articolo Race, Articulation, and Societies Structured in Dominance, in Sociological Theories: Race and Colonialism, UNESCO, Paris 1980, pp. 305-345. Anche Lévi-Strauss, cercando di distinguere razzismo e xenofobia, si è mosso in questa direzione.
18) D. Goldberg, The Racial State, Blackwell, London 2002.
19) Cfr. quelli che, nel caso dell’UNESCO, possiamo senza esagerazioni chiamare «organismi filosofici» (P. Vermeren, La philosophie saisie par l’Unesco, UNESCO, Paris 2003).
(20) Edizione rivista e corretta, Gallimard, Paris 1994.
(21) F. Fanon, Peau noire, masques blanches, Seuil, Paris 1971. Vedi la recente biografia di Alice Cherki, Frantz Fanon, portrait, 1952.
(22) Questa problematica è sviluppata oggi da parte di autori come Fred Moten, che ispira la decostruzione, in The Break: The Aesthetics of the Black Radical Tradition, Minnesota 2003.
(23) La teorizzazione di Fanon, che attende ancora una valida disamina filosofica, va allo stesso tempo alla radice della fenomenologia hegeliana del «padrone» e dello «schiavo», attraverso la sua rilettura di Kojève, Sartre e Simone de Beauvoir – con riferimento a Le Deuxième sexe, 1949 – e della psicologia della «double consciousness» presente nell’opera di W.E.B. Du Bois – The Souls of Black Folk, 1903; Dusk of Dawn, 1940 – reinterpretata secondo la chiave psicanalitica della «scissione del sé».
(24) È stato necessario aspettare il 2002 per la pubblicazione di una traduzione francese completa e affidabile di The Origins of Totalitarianism, a cura di P. Bouretz, Quarto-Gallimard. Tuttavia il suo saggio di «antropologia filosofica», The Human Condition (1958), era stato tradotto già nel 1961 con il titolo di Condition de l’homme moderne: consacrato per larga parte alla critica della filosofia marxista nel nome di un concetto neoclassico di praxis, non riguarda direttamente la problematica del razzismo e dunque non me ne occupo in questa sede.
(25) Cfr. M.-C. Caloz-Tschopp, Les sans-Etat dans la philosophie de Hannah Arendt, Payot, Lausanne 2000.
(26)Su questo tema si rinvia alle interessanti formulazioni fatte da Wulf D. Hund: Exclusion and Inclusion: Dimensions of Racism, in Max Sebastian Hering Torres e Wolfgang Schmale (a cura di), Rassismus (numero speciale della «Wiener Zeitschrift zur Geschichte der Neuzeit», III (2003), n. 1, pp. 6-19.
(Foto: da sinistra a destra, Balibar e Fanon.)
Costruzione
La strada si perde nel bosco
Abbiamo ragionato sul mondo
Liberato le parole da una gabbia
Non è poi molto.
Almeno, avremo ancora qualcosa di cui parlare
Del tempo che peggiora, del tempo che più non ritorna
Di un discorso interrotto,di una lapide dimenticata.
Ho creduto in me fin dall’alba
Hai vissuto pur avendo paura
Abbiamo proseguito, contrabbandato lettere in forma di versi
Dolori, rassegnazioni e qualcosa che aveva le sembianze di una speranza.
Hai ascoltato i rumori ad occhi chiusi
Ho guardato oltre l’orizzonte
Ci siamo ingannati, avvinghiati , emesso verdetti
E non ultimo,inflitto punizioni.
Ci è capitato quel che ci doveva accadere, non era giusto saperlo per tempo.
Ci saranno sconosciute tante cose,la dittatura degli elementi,lo sfarzo di un prato.
Il fango avvolge la vergogna.
Il fumo si dirada.
Avanza il grigio di un lago bellissimo e spaventoso
Uomini e animali vengono da dipinti illustri e portici immaginari,dal centro di una stradina.
Sogniamo già di tornare, eppure l’ora del commiato probabilmente è ancora lontana.
Restiamo noi stessi mentre inferni devastati strappano mani via dal sole.
Una sferzante luce ci sorprende.
Come fossimo su una terza riva.
A chi è triste,insanguinato,con le ginocchia in fosse rosse
Diciamo che pur sempre resta la salvezza
In forma di prosa, poesia, notte e mattino
In una goccia di miele o una goccia di sangue
Il bosco diventa incantato, senza pudore
Appartiene a noi ,come il dolore.
Cambia la forma e tutto ci fa male
Come una tigre e una gazzella
Il fuoco si accende e siamo a metà cammino
Come soldati a cavallo
Verso una frontiera sempre più vicina, sempre più lontana
Qualcuno entra senza bussare
Il fumo è scomparso
Il dolore rimane come un amore
La strada continua nel bosco
La mia primavera è già passata
Oltretutto senza un segnale
il tuo inverno è già passato
il tuo inverno deve ancora arrivare
[…] puntata qui, seconda puntata qui. A. […]