La società turca tra esercito e partiti islamisti
di Niels Kadritze*
Dopo la spettacolare vittoria alle elezioni legislative dello scorso luglio, il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) ha intrapreso una profonda riforma della Costituzione. Ma il progetto si scontra con la volontà dell’esercito di mantenere la propria egemonia e con le divisioni della società in tema di definizione di nazionalismo e laicità. L’aggravarsi della crisi curda, alla fine del 2007, ha fornito ai militari l’occasione per riaffermare il loro potere di fronte al nuovo presidente Abdullah Gül. Tratto da Le Monde Diplomatique, gennaio 2008.
Ventinove ottobre, giorno della festa nazionale. In Turchia tutto sembra andare per il meglio. In piedi, uno accanto all’altro, il presidente della Repubblica, Abdullah Gül, e il capo di stato maggiore, Yasar Büyükanit, passano in rivista le truppe. Il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e la crisi da questo scatenata lungo la frontiera turco-irachena hanno riavvicinato le due anime, civile e militare, dell’esecutivo. Ma l’antagonismo cova sotto la cenere. Una foto, pubblicata in prima pagina da tutti i quotidiani appena un mese prima, lo testimonia con chiarezza: mostra l’accoglienza riservata al presidente Gül di ritorno dal suo primo viaggio ufficiale all’estero in compagnia della moglie. Nel comitato d’accoglienza, all’aeroporto, un generale gira le spalle ai civili; la signora Gül porta un foulard – oggetto del contenzioso. Per non «provocare», spesso non partecipa alle cerimonie ufficiali presenziate dal marito.
Il conflitto tra il governo di Recep Tayyip Erdogan, il cui Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) non rinnega le proprie radici musulmane, e l’esercito, che si considera la punta di diamante del campo kemalista risolutamente laico, si è evidenziato a più riprese dall’autunno 2007. La vittoria elettorale dell’Akp e l’elezione alla presidenza dell’ex ministro degli affari esteri di Erdogan, che i kemalisti volevano a tutti costi evitare, hanno cambiato i rapporti di forza tra le due fazioni. Per la prima volta, l’Akp controlla i due rami dell’esecutivo e dunque la presidenza, considerata il baluardo difensivo dell’eredità di Mustafa Kemal Atatürk. Il predecessore kemalista di Gül, Ahmet Necdet Sezer, un rigoroso giurista, aveva opposto il veto a molti progetti di legge e a diverse nomine del governo. Non stupisce quindi che i militari volessero impedire a Gül di succedergli.
Il 27 aprile, poco prima del voto di designazione al Parlamento, lo stato maggiore pubblicò su Internet un comunicato in cui si dichiarava che le forze armate, «irremovibili garanti della laicità», erano decise «a proteggere gli irrinunciabili valori della Repubblica».
L’«intervento militare elettronico» ottenne l’effetto desiderato: la Corte costituzionale annullò l’elezione di Gül, con una decisione che la maggior parte dei giuristi ritenne di semplice ubbidienza agli ordini (1).
Ma il tiro di sbarramento dello stato maggiore non ottenne l’effetto sperato: Erdogan reagì convocando, per il 22 luglio, elezioni legislative anticipate, e le stravinse. Con il 46,6% dei voti, l’Akp aumentava del 12,2% i voti del 2002. Ottenuto questo risultato, rimise in lizza il suo candidato: Gül fu eletto presidente della Repubblica il 28 agosto, al terzo turno di scrutinio.
Il ruolo determinante dell’economia
Lo stato maggiore, però, boicottò la cerimonia d’investitura del nuovo presidente. Solo l’aggravarsi della crisi curda permise di uscire dalla situazione di stallo (si legga l’articolo di Olivier Piot pagine 10 e 11). Con le sue incursioni transfrontaliere, il Pkk offrì ai militari l’opportunità di fare pressione sul governo e sull’Akp. La reazione emotiva della popolazione fu così forte, da non lasciare ad Erdogan alcuna possibilità di opporsi ai piani di mobilitazione dell’esercito e del suo capo di stato maggiore, Büyükanit. Per impedire che quest’ultimo occupasse da solo la scena, l’Akp fece votare al Parlamento una legge che autorizzava azioni militari nel nord dell’Iraq. La questione fondamentale su chi abbia il potere di decidere in tempo di crisi – il governo controlla o no la direzione dell’esercito? – resta irrisolta.
Ciònonostante, l’equilibrio del potere tra responsabili politici e militari è nettamente cambiato dall’estate del 2007. Analisti e commentatori politici divergono però quando si tratta di stabilire in che misura il memorandum Internet dello stato maggiore del 27 aprile abbia accelerato la vittoria dell’Akp. Lo storico Ayhan Aktar ritiene che a decidere siano stati i «voti frustrati»: «in Anatolia, la gente ha vissuto come un insulto le minacce contro Gül, che è originario di Kayseri».
Il più noto degli analisti elettorali, Tarhan Erdem, è di parere diverso. In tutte le inchieste effettuate dal suo istituto di sondaggi, l’Akp raggiungeva il 45-50% già dal febbraio 2007. Ritiene quindi che, anche se il 27 aprile ha provocato un sussulto di simpatia in suo favore, tuttavia la vittoria elettorale del 22 luglio è dovuta prima di tutto alla buona condizione economica della Turchia. Secondo Metin Münir, l’editorialista economico del quotidiano Milliyet che ha seguito la campagna elettorale a Gaziantep, il fattore economico è stato determinante anche nell’est del paese. La città, che conta un milione di persone ed è situata vicino alla frontiera siriana, gode di uno sviluppo che gli abitanti attribuiscono al governo. Ma l’Akp ha registrato un notevole incremento anche nella parte sottosviluppata dell’Anatolia: Münir racconta che, per la prima volta, gli abitanti hanno ricevuto libri scolastici per i figli e beneficiano di cure mediche gratuite (2). Tutto ciò ha fatto dell’Akp il primo partito nelle regioni curde. Tuttavia, il giornalista ritiene che anche l’esercito abbia contribuito alla vittoria di Erdogan: le minacce del 27 aprile avrebbero nuociuto al Partito repubblicano del popolo (Chp), kemalista, che si sarebbe presentato un po’ troppo come il «braccio civile dell’esercito».
Per Erdem, i risultati ottenuti indicano un significativo spostamento delle classi medie e superiori, di cui l’Akp ha totalmente assorbito il potenziale conservatore. E prevede che, se il partito riuscirà a mantenere questo vivaio di voti, resterà a lungo al potere. Dello stesso parere è anche Münir, che però aggiunge: «Solo se il Partito si muoverà con intelligenza». Dato che la vittoria elettorale ha definitivamente inserito l’Akp tra i partiti borghesi, si sono di conseguenza indeboliti i suoi legami con l’elettorato religioso.
Secondo Münir, il primo ministro sarebbe folle a spaventare la sua nuova base elettorale con iniziative a tinte «islamiste».
Ma il leader dell’Akp si comporterà in modo razionale? O non seguirà invece un’«agenda segreta», come sostengono i suoi avversari? I kemalisti ortodossi spargono la voce che lo scopo ultimo di Erdogan e Gül sarebbe quello di istaurare un sistema all’iraniana. Questa diffidenza spiega perché la «questione del foulard» domina il dibattito politico da quando il governo ha annunciato il progetto di una nuova Costituzione.
Il problema non riguarda tanto cosa indossa la moglie del presidente né il sacrosanto principio dello stato kemalista, la laicità. Il vero problema è il potere del blocco kemalista. Un blocco che non comprende solo l’apparato militare in senso stretto, ma ingloba tutto il complesso detto dello «stato profondo» (derin devlet), e dunque include anche i servizi segreti e l’apparato poliziesco, così come i bastioni del kemalismo nella giustizia, l’università e la burocrazia.
Questo «blocco di potere», estremamente complesso, rappresenta gli interessi di un’élite che ha a lungo dominato il paese. Aktar parla dei «turchi bianchi», che si sentono minacciati dai «negri anatolici», da sempre trattati come i «parenti poveri nella casa dei ricchi».
L’élite kemalista, ironizza, accetterà Erdogan solo quando «si raderà i baffi, manderà al diavolo la moglie e si farà fotografare al braccio di una modella». Ma, dietro le divergenze di ordine culturale e sociale, lo storico evidenzia puri conflitti d’interesse: la vecchia classe borghese vede i suoi privilegi minacciati dall’ascesa dell’Akp e della «giovane» borghesia anatolica.
È per questo che i kemalisti, sia militari che civili, fanno della riforma costituzionale un vero test. Tanto più che gli islamisti hanno annunciato di voler sopprimere la proibizione del türban (3) nelle università statali. A fine settembre, il capo dell’esercito, il generale Ilker Basbug, metteva in guardia contro l’«anarchia delle idee» e avvertiva: «La laicità è la pietra angolare di tutti i principi e di tutti i valori della Turchia e non può essere oggetto di alcuna discussione (4)».
Il problema è: di quale margine di manovra dispone l’esercito? La maggior parte degli osservatori è perplessa. Da una parte, ritiene che dall’esterno non sia possibile penetrare nei disegni nascosti dello stato maggiore e che le forze armate non abbandoneranno il potere senza combattere. D’altra parte, molti osservano che «l’intervento del popolo», cioè il suo voto, dovrebbe aver quanto meno ridotto in modo considerevole la forza dei militari, i quali, del resto, non hanno mai voluto esercitare direttamente il potere. Concepiscono idealmente il proprio ruolo come quello di un’istanza di tutela che interviene solo quando il popolo, immaturo, non agisce secondo il loro punto di vista.
Aktar, appassionato di basket, ritiene che «lo stato maggiore ha dovuto ripiegare su una difesa a zona», una scelta tattica che dovrebbe spingere l’avversario all’errore, cioè ad attaccare apertamente il secolarismo (laiklik). E siccome Erdogan e Gül ribadiscono quotidianamente la loro adesione alla laicità, i militari dichiarano che il solo cancellare la proibizione all’uso del foulard rappresenta già un attacco ai valori fondanti dello stato kemalista. Ma, in Turchia, proibire l’uso del foulard nelle università non è né legale né costituzionale. La svolta risale a una semplice sentenza della Corte costituzionale del 1989, che fa della laicità il «principio supremo della vita sociale e culturale». Diventato così questo principio superiore a tutti gli altri, nessuno può «valersi di una qualsiasi libertà, che non sia compatibile con il principio della laicità».
Santità di stato
Un secondo punto è altrettanto importante: la laicità dei kemalisti non ha a nulla a che vedere con quella dei francesi, tedeschi e inglesi.
Laiklik non vuol dire separazione fra chiesa e stato, ma controllo della religione da parte dello stato. È la ragione d’essere della direzione degli affari religiosi (Diyanet Isleri Baskanlõgõ, Dib), un’amministrazione che organizza e sorveglia l’islam sunnita hanafita.
Si vuole che sia all’altezza dell’ideale di una nazione omogenea nel senso della «sintesi turco-islamica», diventata ideologia di stato dopo il putsch militare del 1980, e propagandata fino ad oggi da tutti i libri scolastici. È con questo spirito che la Dib nomina gli imam e dispensa corsi di religione obbligatori nelle scuole pubbliche.
Il politologo Sahin Alpay descrive la Dib come lo strumento statale della politica identitaria sunnita. Poiché questa amministrazione è finanziata dalle tasse, tutti i turchi non sunniti, compresi i cittadini ebrei e cristiani, pagano per essere discriminati: considerati alla stregua di «stranieri», sono esclusi dalla funzione pubblica.
Anche gli alevi, che costituiscono la minoranza musulmana più numerosa, non sono riconosciuti come gruppo religioso autonomo.
La separazione tra chiesa e stato è dunque un principio altrettanto estraneo allo stato kemalista quanto il diritto di eguaglianza tra le religioni. La laicità non è che un’illusione, e serve solo a proteggere un’altra fede: in quasi tutte le aule universitarie sono appesi pii ritratti di Atatürk. Nella Turchia laica, la «religione kemalista» è onnipresente. In ogni villaggio c’è un busto del fondatore della Turchia moderna, la sua effigie si trova su tutte le banconote. A scuola, la vita di Atatürk è insegnata come quella di un santo. Chiunque metta in discussione questa leggenda rischia una querela per blasfemia, grazie all’articolo 301 del codice penale turco (5). E, naturalmente, il «santo di stato» ha anche un suo luogo di pellegrinaggio: il mausoleo di Atatürk nella capitale, Ankara.
Nella Costituzione, la prima frase del preambolo si richiama al «capo immortale e all’eroe ineguagliabile» Atatürk, le cui idee sarebbero tanto essenziali per lo stato e la nazione quanto le sue «riforme e principi ». Un modo di immobilizzare la storia per farne un principio costituzionale…
Nessuno storico negherà i meriti di Atatürk quando, sulle rovine dell’Impero ottomano e lottando contro l’invasore greco, creò, dopo la prima guerra mondiale, prima un esercito di liberazione, poi uno stato, e infine le basi di una nuova nazione. Ma i suoi metodi portano i segni di un’epoca in cui si sviluppavano in Europa idee nazionaliste ed autoritarie. E quindi, come ha scritto Mustafa Akyol, il nuovo nazionalismo turco aveva anche «caratteristiche fasciste», come, ad esempio, le «affabulazioni sulla superiorità della razza turca (6)».
Fin dall’inizio, il pilastro istituzionale della tradizione autoritaria è stato l’esercito. Si considera non solo il salvatore storico del paese, ma anche il garante di una mutazione sociale che, come dice l’ex capo di stato maggiore Hilmi àzkök, «per la Turchia è stata importante quanto il Rinascimento per l’Occidente (7)». I militari pensano che solo l’esercito può garantire la coesione di una società profondamente divisa. È per questo che il corpo degli ufficiali, grazie alla sua formazione nelle accademie militari, si ritiene immune dalle «ideologie esterne» che possono costituire una minaccia per l’omogeneità dell’esercito.
Un modello tanto autoritario può durare ad vitam aeternam. L’astuzia dei kemalisti sta nel denunciare qualsiasi contestazione come reazionaria, capace di riportare la Turchia al Medio evo.
Ma le cose sono più complesse. L’attuale dibattito costituzionale preoccupa molte donne, anche quando sono contrarie alla proibizione di indossare il foulard. Temono una «riturbantizzazione» rampante, la stessa che vede avanzare il sociologo Sherif Mardin: la «pressione sociale» rischia di diventare così forte, in un ambiente musulmano tradizionale, che anche studentesse non religiose si piegheranno.
Come ad esempio a Fener, un poverissimo quartiere di Istanbul sulla riva sud del Corno d’oro, feudo dei musulmani integralisti. Qui, una donna su due porte il carsaf, un foulard nero integrale che lascia fuori solo il volto, mentre le altre hanno i capelli nascosti dal türban. La maggior parte degli uomini porta lo zucchetto di maglia e la barba tipici dei musulmani osservanti. Davanti alla moschea Ismaïl Aga, si vendono videocassette e cd-rom di predicatori sauditi e combattenti afgani. L’imam della moschea è stato ucciso un anno fa, in circostanze non ancora chiarite. La polizia turca non ha la minima possibilità di penetrare tutti i misteri del quartiere. Se esiste a Istanbul un «Islamistan» autonomo, è questo. Ma vi si trovano anche posti dove non solo stranieri non musulmani, ma anche uomini turchi, possono mangiare durante il ramadan. Fener dà l’impressione di un quartiere autistico, ma non ostile. Luoghi come questo mostrano chiaramente due cose: da una parte, che la forza d’inerzia dell’«islam anatolico» non potrà essere spezzata dall’autoritarismo di stato; dall’altra, che la questione religiosa ha una dimensione sociale. La trasformazione dei comportamenti e del modo di pensare tradizionale costituisce un’evoluzione della società che nessuna repressione potrà fermare. Eppure, con le loro paure, i post-kemalisti di sinistra arrivano anche, inconsciamente, a condividere le fantasie autoritarie dei kemalisti, rispetto al possibile successo di un’accelerazione del «processo di modernizzazione».
Sono timori che distorcono la percezione della realtà. È quel che dimostra uno studio esteso a tutta la Turchia, finanziato dalla fondazione Tesev: nel maggio 2006, il 65% delle persone intervistate si diceva convinta che un numero sempre maggiore di donne portasse il foulard (8). Lo stesso studio ha verificato che, dal 1999 al 2006, il numero di donne «velate» è diminuito del 9%. Nel 1999, solo il 27,3% delle donne si mostrava in pubblico senza foulard o türban; nel 2007, erano il 36,5%.
L’«agenda nascosta» islamista non esiste
Il foulard può anche farsi più raro, ma quelle che lo portano sono sempre più visibili agli occhi dell’élite cittadina. Le ragioni vanno ricercate nell’esodo dalle campagne dell’Anatolia verso le grandi città, nell’ascesa sociale di molti imprenditori anatolici, nella presenza mediatica di politici dell’Akp che non nascondono le loro mogli. Non vi è alcun dubbio che alcune paure della sinistra siano giustificate: in un primo momento, la soppressione della proibizione farà aumentare il numero di studentesse con il foulard, in quanto le famiglie tradizionali accentueranno la pressione sulle figlie che studiano. Ma, che la sinistra e le femministe temano a tal punto la «pressione sociale», non è una forma di resa?
Se l’attuale dibattito costituzionale è così fortemente monopolizzato dalla questione del foulard e della laicità, la colpa non è solo dei kemalisti puri e duri, ma anche del governo. L’Akp non ha proposto alla pubblica opinione il nodo storico del dibattito. La società deve pronunciarsi sulle grandi linee di una Costituzione che superi finalmente il kemalismo fossilizzato e predemocratico, e deve rispondere a tre grandi domande: come sottoporre l’esercito al controllo civile?; come superare il rapporto autoritario tra stato e cittadini?; e, terza domanda, come può una Costituzione tener conto delle differenze etniche, culturali, religiose esistenti nella popolazione?
La Costituzione del 1982 proclama che lo scopo supremo dello stato è «l’esistenza perenne, la prosperità e il benessere materiale e spirituale della Repubblica di Turchia». Esalta la «supremazia assoluta della volontà della nazione», presupponendo che questa abbia un carattere omogeneo. I diritti fondamentali dei cittadini sono quindi una semplice funzione dello stato, emanano da questo, uno stato la cui sovranità sul popolo è garantita in ultima istanza dal ruolo tutelare dell’esercito.
La differenza con una Costituzione democratica è evidente. Secondo Mehmet Firat, vice presidente dell’Akp, «mentre la Costituzione attuale è stata proclamata per proteggere lo stato dal popolo, la nuova Costituzione ha lo scopo di proteggere l’individuo dallo stato». Non a caso Firat formula questa professione di fede davanti agli ambasciatori dei paesi dell’Unione europea (9). L’Akp può e vuole tradurre questo obbiettivo nei fatti? Gli osservatori sono scettici, per due motivi: il governo, sotto lo sguardo diffidente dei kemalisti, non si sentirebbe abbastanza forte da demilitarizzare e liberalizzare il sistema; lo stesso Akp non sarebbe immunizzato contro la «cultura politica nazionalista e autoritaria che lo ha visto crescere (10)».
Quali siano i progetti del governo, nessuno può saperli meglio di Ergen àzbudun. Professore di diritto costituzionale, egli è stato chiamato a presiedere la commissione incaricata di elaborare il nuovo progetto di Costituzione. àzbudun non è sospetto di inclinazioni islamiste: nel 2001, rappresentava il governo presso la Corte europea dei diritti dell’uomo per difendere l’interdizione del Partito islamista Refah, in cui Erdogan e Gül avevano fatto le loro prime esperienze.
Ma il professor àzbudun riconosce che tutti e due sono cambiati, e ritiene l’Akp un Partito conservatore che ha optato in maniera credibile per l’Unione europea e un sistema democratico. La famosa «agenda nascosta» islamista non è, per lui, che una pura invenzione dei kemalisti. Nella lettera e nello spirito, il progetto di Costituzione si basa sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e sulle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Questo vale in particolare per la definizione della libertà di pensiero e della libertà di espressione, così come per la priorità del diritto umanitario internazionale sulla Costituzione turca. Per àzbudun è altrettanto importante che le sentenze dei tribunali militari possano essere controllate in ultima istanza da tribunali civili. Si potrebbe infine, a suo parere, proporre una soluzione del problema curdo definendo la lingua turca come «lingua amministrativa», e aprendo così uno spazio per altre lingue «non ufficiali», come il curdo, nei media audiovisivi e nelle scuole.
Quanto ai corsi di religione, che i militari hanno introdotto nel 1982 come materia obbligatoria, sarebbero ora opzionali, e la Costituzione garantirebbe il diritto di qualsiasi cittadino a cambiare religione.
Per il giurista, la proibizione del foulard nasce da una «concezione distorta della laicità» che porterebbe a ledere i diritti della persona.
La commissione propone una soluzione elegante: dichiarare inammissibile qualsiasi «discriminazione legata al tipo di abbigliamento (…) finché ciò non contravviene ai principi e alle riforme di Atatürk».
Una tattica che testimonia con quante infinite precauzioni la commissione si muova nel negozio di porcellane della repubblica kemalista. Quanto poi a sapere quali idee della commissione àzbudun verranno riprese nel testo della Costituzione che il governo dell’Akp presenterà questo inverno in Parlamento, è un’altra questione. La versione definitiva deve essere votata dal Parlamento nella primavera 2008, poi approvata da un referendum.
È poco verosimile che alla fine la Costituzione risponda integralmente agli ideali laici del professor àzbudun. Il professor Ali Bardakoglu, il grande controllore della direzione degli affari religiosi, ha già richiesto con forza il mantenimento dei corsi di religione obbligatori.
Il motivo invocato è rivelatore: dei corsi facoltativi non farebbero che «rafforzare le differenze tra gli studenti (11)» – , come a dire che se cade il monopolio della dottrina maggioritaria sunnita, è l’omogeneità nel suo complesso ad essere minacciata. C’è poi una terza posizione, a ugual distanza da kemalisti e Akp, che si esprime, anche se con prudenza. Giuristi di sinistra, rappresentanti delle minoranze religiose e sostenitori di una «laicità democratica» esigono che sia formulato un quadro giuridico per il pluralismo religioso.
Si tratta insomma di mettere fine alle discriminazioni nei confronti di musulmani non sunniti e credenti di altre religioni.
In questo contesto, intellettuali che hanno difeso Erdogan e l’Akp contro la vecchia guardia kemalista si mostrano critici verso il governo. Il politologo Sahin Alpay, rispettato editorialista del giornale Today’s Zaman, vicino al governo, critica il comportamento dell’Akp nei confronti degli alevi, i quali, peraltro, a luglio avevano votato in maggioranza per il Chp kemalista in quanto vedevano in Erdogan il capo di un partito sunnita. Per Alpay, una «laicità democratica» può essere garantita solo se la nuova Costituzione prevede eguaglianza di diritti per gli alevi.
Il procuratore militare Ümit Kardas consiglia, invece, lo smantellamento totale della Costituzione del 1982. Il testo è per lui uno «strumento non emendabile» in quanto già il preambolo rinvia a un’epoca superata in cui l’esercito definiva la nazione a suo uso e consumo. La sua posizione si fonda sull’esperienza: in quanto giudice militare, dopo il putsch del 1980 ha vissuto da vicino la repressione contro la popolazione curda, fino a dare le dimissioni dalle sue funzioni.
Kardas sostiene il principio di una laicità sul modello di alcuni paesi europei. Vuole sopprimere completamente la direzione degli affari religiosi, la Dib, e con essa il controllo dello stato sulle religioni. Queste ultime non sarebbero più finanziate dalle tasse, ma solo da donazioni e fondazioni che dovrebbero poter esercitare le loro attività fuori dal controllo statale.
Gli ideali costituzionalisti di Kardas offrono una sorta d’impronta «in negativo» di una Legge fondamentale che si potrebbe definire «post kemalista». Una Costituzione in cui le libertà individuali e i diritti civili non sarebbero più limitati in riferimento a una definizione autoritaria dello stato. Con il diritto all’obiezione di coscienza e la creazione di un servizio civile sostitutivo, egli vuole anche attenuare l’influenza coercitiva dell’esercito sulla società civile. Arriva perfino a sognare un esercito e una polizia che, ripensando la propria formazione secondo principi democratici e rispettosi dei cittadini, non funzionino più come «i due cani mastini dello stato» la cui prima funzione sia quella di tenere sotto controllo la popolazione.
Kardas non pensa affatto che l’Akp riprenderà tali e quali idee così radicali. Si chiede anche se l’atteggiamento difensivo di questo partito non risponda ad una tattica prudenziale nei confronti del blocco kemalista, o a tendenze autoritarie che Erdogan ha già lasciato intravedere in vari momenti. Ad esempio, quando ha sporto querela per diffamazione contro dei caricaturisti che, prendendo a bersaglio le debolezze del primo ministro, avevano fatto solo il loro mestiere.
Se si chiede a democratici sinceri come Kardas quali siano le forze politiche che possono realizzare una Costituzione post-kemalista, si ha in risposta un’alzata di spalle rassegnata. Sì, certo, una sinistra indipendente, post-kemalista, è necessaria, ma non la si vede da nessuna parte. Nelle elezioni dell’estate 2007, si era sperato che alcuni candidati, che si presentavano come «indipendenti», conquistassero qualche seggio. Ma il candidato indipendente non è riuscito ad imporsi neppure nella liberale Istanbul.
I problemi sociali e i conflitti politici che di norma dovrebbero permettere ad un partito di sinistra di avere il vento in poppa, sono più esasperati che mai. L’Akp persevera con costanza in una politica economica neoliberista. Il divario tra ricchi e poveri aumenta.
I progressi di una politica sociale degna di questo nome sono sporadici.
La gente più povera è spesso pesantemente indebitata. E la stabilità economica alla quale Erdogan deve la vittoria elettorale si basa su un afflusso costante di capitali stranieri. Tuttavia, nessuno a sinistra si sentirebbe di augurare una crisi economica: con una popolazione fortemente eccitata dalla «crisi curda», solo il Partito d’azione nazionalista (Mhp), di estrema destra, ne uscirebbe avvantaggiato.
note:
* Giornalista, Berlino , inviato speciale di Le Monde Diplomatique.
Si legga Ignacio Ramonet, «Elezioni decisive», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 2007.
L’Akp ha ottenuto più del 50% dei voti in Anatolia e nella regione del mar Nero, mentrenell’est dell’Anatolia è arrivato anche al 56%.
Il termine turco türban indica il foulard stretto attorno alla testa e che copre tutta la capigliatura.
Turkish Daily News, Ankara, 25 settembre 2007.
Questo articolo punisce «l’offesa all’identità turca»; ma, per i procuratori kemalisti, «identità turca» e Atatürk sono una sola e unica cosa.
Turkish Daily News, 7 ottobre 2007.
Cfr. Ersel Atdinli, Nihat Ali àzcan e Dogan Akyaz, «The Turkish military’s march toward Europe», Foreign Affairs, Londra, gennaio-febbraio 2006.
Ali Carkoglu e Binnaz Toprak, Religion, Society and Politics in a Changing Turkey, Tesev Publications, Istanbul, 2007, p. 63.
Today’s Zaman, Istanbul, 20 settembre 2007.
Dogu Ergil, Today’s Zaman, 23 settembre 2007.
Turkish Daily News, 26 settembre 2007.
(Traduzione di G. P.)