Peter Tscherkassky: Istruzioni per una macchina ottico-sonora

di Rinaldo Censi

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Vienna, 1969. All’età di tredici anni Peter Tscherkassky assiste alla proiezione di C’era una volta il West. Egli ricorda questo incontro con il film di Leone come uno dei momenti topici che segneranno la sua carriera di film-maker, di artista. Trent’anni dopo Tscherkassky e Sergio Leone si rincontreranno: in un testa a testa forsennato, in una stanza-laboratorio. Il risultato ottenuto è visionabile a Bologna, dove il 5 e il 6 di maggio Peter Tscherkassky presenterà i suoi film. Due serate organizzate dal Dipartimento di Musica e Spettacolo (Centro la Soffitta) in collaborazione con la Cineteca di Bologna. Il film si intitola Instructions for a Light and Sound Machine (2005): ovvero come trasformare uno spaghetti-western in un dispositivo ottico-sonoro stratificato, epico, furioso. Nello splendore del formato CinemaScope.

Appena ventenne, Tscherkassky ha la fortuna di imbattersi in un altro avvenimento: a Vienna P. A. Sitney, uno dei più importanti studiosi di cinema d’avanguardia, tiene alcune conferenze, mostrando film di Stan Brakhage, Michael Snow, Peter Kubelka, Robert Breer. Un intero universo si schiude dinanzi ai suoi occhi. L’egemonia di una grammatica cinematografica, di un “modo di rappresentazione” lineare, narrativo, può dunque essere infranta. Un altro cinema è possibile, affrancato dall’obbligo di raccontare una storia. Anche se le storie, nei film di Tscherkassky, emergono, per chi ha voglia di trovarle: solo, somigliano a piccoli enigmi occultati, il cui senso trema, si sfarina, oppure si stratifica, come le frasi di un poema.

Che cosa emerge da questi incontri? Una passione per la macchina-cinema: ingranaggi, bielle, tempi di esposizione, velocità di scorrimento, formati ridotti (Super8). Una certezza: l’unità di misura su cui lavorare e applicarsi non è l’inquadratura, ma il fotogramma. Ogni fotogramma. Come insegna David Hemmings in Blow Up, è possibile rifotografare, analizzare, moltiplicare, gonfiare una foto (fino a fargli esplodere la grana). Se ne possono isolare dettagli. Prende piede una dimensione “metrica” del fare cinema, a cui non manca il gusto della modulazione musicale, di un fraseggio filmico fatto di loop, arresti e ripetizioni. Sono queste le vere potenzialità del cinema, gli strumenti con cui lavorare. Ne emergere un sapere, e un desiderio. È possibile lavorare su ogni metro di pellicola: magari quella trovata, di un amatore della domenica (Happy End, 1996), oppure quella di un film hollywoodiano (Outer Space, 1999). Si può riprendere anche pellicola filmata anni addietro: per ri-trovarla.

Forse si tende a semplificare la lezione benjaminiana applicata al cinema: la riproduzione di un film, con conseguente perdita di aura non implica solo un aspetto distributivo e di serialità. Non è solo questo. Piuttosto, un film (ogni fotogramma) può essere rifotografato a piacimento, disseminando il numero della sue stampe, delle sue generazioni, dei suoi negativi. Si possono unire per esempio due stampe di terza e quarta generazione (negativo e positivo), una sopra l’altra, proiettarle e insieme rifilmarle. Ma per realizzare un film. È forse questa la vera opera d’arte colta nell’era della riproducibilità tecnica? Il film che emerge da questa cucina fotogrammatica, da questa pratica culinaria dell’emulsione si intitola Urlaubsfilm (1983).

Si tratta di mettere a soqquadro ogni certezza legata alle immagini mobili. È questo ciò che sorprende nei film di Peter Tscherkassky: lo sguardo, i corpi e il loro scorrimento, le sovrimpressioni, la luce, la materia, lo splendore del flickering. Tutto vibra. Gliene siamo grati.

(questo articolo è apparso su “il manifesto” di lunedì scorso. ringrazio l’autore di avermelo inviato. a.r.)

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