Paradise Lost
Una certa luce sulla storia
non può essere gettata,
ne sono persuaso, altro che
dalla creazione letteraria.
Victor Serge
Se esiste il paradiso
di
Andrea Bottalico
Sono parole infuocate. Parole che vanno masticate lentamente, come quando mastichi un fungo, impaurito eccitato. Devi gustare il sapore amaro, disgustoso, e devi farlo fino in fondo perchè l’effetto è un’allucinazione. E non permetterti di sputare; ingoia. Piuttosto pensa al luogo in cui sei stato, alla voragine in cui sei inciampato per colpa di quelle frasi infami, e chiediti se esiste l’inferno, perchè è proprio quello che viene descritto nel libro di Leshem. Zitlawi per incoraggiare gli altri lo ripeteva spesso: “I soldati non finiscono mai all’inferno”. Di certo Zitlawi non potrà dirlo mai più.
Ron Leshem non c’è mai stato in Libano. Non ha mai perso un amico durante quella guerra. Eppure racconta, descrive nel suo primo libro tredici soldati (Rizzoli), attraverso lo sguardo incattivito di Erez, la condizione dei soldati israeliani nell’ultimo avamposto rimasto sulle alture del Libano meridionale dopo l’occupazione del 1982: Il Beaufort. I soldati che Erez si trova a comandare sono poco più che ventenni. Costretti a condividere paure impossibili da esprimere, loro aspettano il ritiro imminente, assediati. Alcuni crepano sotto i colpi di mortaio di Hezbollah, che in silenzio ascolta il respiro di Tsahal, prepara l’attacco finale, costringe il nemico a starsene rintanato senza mettere il naso fuori dal bunker. Ai soldati non resta altro che sperare e sopportare il tremendo destino, contando i granelli di sabbia che scivolano giù da una clessidra di piombo.
La scrittura di Leshem non cerca nessuna elevazione. Piuttosto un continuo, costante inabissamento nei meandri della disperazione, una cinica constatazione della disfatta imbrigliata a momenti di sacra vitalità che frusta lo stomaco, prende alla gola, provoca e disarma il lettore. E’ metallo puro. Il ritmo incalza come le botte e le risposte al gioco della morra. Un mondo intero fatto di storie personali, sogni futuri, incubi, scherzi. Nel Beaufort regna la sincerità tra ragazzi che non sanno neanche il motivo assurdo di quella guerra, obbligati a diventare uomini, a mostrare i denti ad un ombra; sono bambini che continuamente si domandano il perché:
Beaufort è Oshri. Lui si rotola verso di me, mi si sdraia addosso, mi spacca le palle a furia di brontolare. E’ sempre così, un attimo prima che il buio svanisca e noi ci ritiriamo, gli viene un attacco. “Scusa, Erez, ma ho bisogno che mi spieghi come ho fatto a finire qui” mi chiede. “Che diavolo ci faccio travestito da cespuglio? Perché mi dipingo la faccia? Cos’è, sono un bambino? Cosa ci sto a fare in una roccaforte dei crociati, dimmelo, brutto stronzo. Cosa vivo, ai tempi della Bibbia? Sono un coglione, a pisciare in una bottiglia? Cosa cazzo ci sto a fare in mezzo alla neve, temperatura sotto lo zero, in attesa di seccare un arabo che ha avuto la brillante idea di uscirsene dal letto alle tre del mattino? Ti pare logico? E ritornare nel fetente secchio della spazzatura in cui dormo, su nell’avamposto, ti pare logico? Ma l’hai visto, dove dormo? Ci sto male qui, ci sto malissimo. E’ una follia, è troppo una follia. Apri gli occhi. Sono mille anni che la gente muore su questa montagna, non è arrivato il momento di piantarla? Giuro, non è mica ragionevole, non ha senso che esista, un posto del genere, ‘sto Beaufort. Dai retta a me, non esiste. Siamo rimasti tutti bloccati in un incubo, per sbaglio. Da tutto il mondo si può, in questo preciso momento, telefonare in tutto il resto del mondo; io sono l’unico che non ha speranza di fare una chiamata. A sei minuti di volo da qui –Dio evidentemente non esiste- in un centro commerciale, una figa con il tanga che le spunta fuori dai pantaloni se ne va in giro preoccupata solo di scegliere fra uno shampoo al mandarino, zenzero ed essenza di tè verde, e un sapone liquido al gelsomino, rose ed essenze di orchidea. Un dilemma pazzesco. Dio, ti prego, mandami un dilemma del genere. E tutti giù a scopare. In questo momento a Tel Aviv stanno allargando le gambe a una ragazza, in piedi, nel cesso di un club. Come faccio a resistere a questa tortura, con tutte le regole che s’inventano ogni giorno, sempre ordini, basta, mi tirano scemo, sto andando fuori di testa. Devo essere matto per accettare di restare qui, non c’è altra spiegazione. Perché non mi chiedo cosa ci sto a fare? Ci penso mai a quello che faccio? Non ho abbastanza rispetto verso me stesso da evitare l’atteggiamento da pirla che hai tu, fratello? Basta, te lo giuro è finita.”
Nelle parole incise trasuda il volto del soldato israeliano, il disprezzo, la sua umanità disumanizzata dalle costanti aberrazioni della guerra. La totale incomprensione, l’inutilità, il non senso. Un mondo di carnefici e vittime, abituati a vedere l’orrore e incapaci di dimenticarselo una volta tornati a casa. Come i marines inseguiti da quel folle di Michael Herr nel Vietnam pieno di giungle rasate a zero dalle bombe al napalm. Una capacità descrittiva simile, due guerre diverse, certo, ma una visione cinica e disillusa, contraddittoria conflittuale. Dita che affondano nelle piaghe, con una differenza: Michael Herr decise di andare in Vietnam ad inseguire i battaglioni di marines; è lui che racconta, è lui che vede quelle facce imbastardite. Sguardi increduli che magari un tempo sorridevano. Umiliati. Laggiù in fondo a tutto, negli abissi scavati da mani scaltre, in quell’oceano di anime destinate all’oblio, laggiù Michael Herr andò a vedere se era vero –“Verità cui neppur la dignità resiste”- La prima volta che si trovò nel Vietnam aveva ventiquattro anni, pochi in più rispetto ai soldati che perplessi gli continuavano a domandare cosa diavolo ci facesse lì. Scrutare le cicatrici della storia o semplice masochismo? Deve avere ancora quell’orrendo sapore di razioni C inchiodato sotto al palato. Il giovane corrispondente dell’esquire magazine decise di andare a guardare da vicino. Il motivo lo spiega in poche parole, nel figlio illegittimo partorito al ritorno dalla guerra, i suoi “dispacci”:
“Io ero là per guardare. Si parla di impersonare un’identità, di rinchiudersi in un ruolo, di ironia: andai lì per seguire la guerra e fu la guerra ad inseguire me; una vecchia storia, sempre che, naturalmente, tu non l’abbia mai sentita. Ci andai con la convinzione, grossolana ma seria, che si deve essere capaci di guardare qualsiasi cosa, seria perché agii di conseguenza e partii, grossolana perché non sapevo, ci volle la guerra per insegnarmelo, che eri responsabile di tutto ciò che vedevi come di tutto ciò che facevi”.
Ron Leshem invece muove da un delirio diverso, non essendo mai stato in Libano. Nella postfazione intitolata “fra realtà ed immaginazione” si intravede l’alchimia. Tutto ebbe inizio nella striscia di Gaza, dove nell’autunno del 2000 il giovane scrittore incontrò per puro caso Rotem Yair, un ufficiale della brigata Ghivati. E’grazie a questo incontro che conosce il Libano, raccontato da un uomo che ha vissuto lassù al Beaufort molte stagioni con il suo battaglione. Dai racconti del soldato e dopo altri incontri, Ron Leshem scopre un mondo a lui sconosciuto un attimo prima. Proprio lui, un tipico imboscato da ufficio di Tel Aviv, inesperto, decide di raccontarlo spinto da un impulso creativo eccezionale, ispirato dalle storie di Rotem, che il Libano deve averlo visto bene. Da quell’incontro la guerra ce l’ha in testa. Tutti i personaggi descritti nel libro sono frutto dell’immaginazione. Il riferimento agli ultimi anni dell’esercito israeliano in Libano è lo sfondo lugubre su cui spazia la creazione di un mondo ancora più afferrabile, dove non esistono né vincitori né vinti, dove l’odio nasconde i sorrisi e le amarezze. Non si tratta di un documento storico, è molto di più. E’ un’immagine paradossalmente reale, affogata all’interno della realtà stessa. E’ dolorosa e nello stesso tempo vera la voce di Erez, capace di penetrare nei gangli dell’immaginario e rapinare l’attenzione come un ladro di sogni. Ma la voce che sussurra all’orecchio non è la stessa di Rotem; è pura invenzione. Una sorta di superiorità della verità letteraria che sviscera, colma un vuoto indefinito, riuscendo addirittura a prevedere un “inevitabile” ritorno dell’esercito israeliano in Libano, come è avvenuto nel 2006.
Sono parole infuocate! Dopo l’ultima pagina un brivido irrompe lungo tutta la spina dorsale, la pelle inizia a contrarsi gli occhi diventano umidi. Avresti voglia di ridere. In fondo a tutto, domanda a te stesso se si può vivere senza pietà. Domandatelo. Forse l’inferno esiste davvero. Non sputare per terra. Piuttosto ingoia; e pensaci. Come la frase ricordata da qualcuno tempo fa, una specie di preghiera che i marines ripetono sempre:
“Dio non giudica i soldati!”
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Dio forse non giudica i soldati, ma gli uomini sì, o almeno chi dispone e muove i soldati sulla scacchiera del neo-militarismo di stampo americano. Luce sulla storia farà la creazione letteraria, ben detto, a dispetto dell’ipocrisia politically correct di chi ammanta la letteratura di un’aura sacrale e meta-storica. La violenza, l’aggressività, l’imperialismo sono caratteri della politica israeliana che la letteratura vede, denuncia, condanna. Perché altrettanto non dovrebbe essere permesso ai lettori, o ai non-lettori, di una fiera letteraria, o a chiunque? Perché le olimpiadi sono un’occasione per levare un monito collettivo contro la politica cinese, mentre non può esserlo il Salone del Libro per contestare le scelte militaristiche di Israele? C’è un unanimismo preoccupante intorno alla reazionaria tendenza verso una idealizzazione coatta della cultura e dell’arte, o dei luoghi ad esse deputati: dove sta scritto che contestare la politica di uno Stato equivale a rifiutarne la cultura, o a strumentalizzarne le espressioni artistiche? Dove sta scritto che il boicottaggio pubblico non corrisponda a una forma di dialogo? Proprio chi non dà spazio alla violenza deve dare tutto lo spazio alle idee.
Sì, luce sulla storia farà la creazione letteraria. E l’interpretazione degli scritti sarà influenzata dall’inclinazione della luce: alba, mezzogiorno o tramonto? La questione libanese, e mediorientale in genere sembra inglobata da tempo immemorabile in una fosca luce vespertina. Spesso catapultata in notti profonde ove si contano a migliaia i morti in un brulicare di fondamentalismi, fazioni a tenuta stagna e pesanti influenze esterne.
Il soldato del Beaufort si interroga sulle motivazioni che l’hanno portato a fare ciò che sta facendo è l’ennesimo uomo-soldato che non troverà mai una risposta. Non esistono motivi logici che obbligano ad imbracciare un fucile. Logistici, sì.
Illuminante, e priva di sbilanciamenti politici, una sinossi della giovane storia libanese in un articolo su carmilla qui:
http://www.carmillaonline.com/archives/2006/08/001875.html#001875