Flaubert Dry
di Omar Viel
L’éducation sentimentale era un pre-dinner a base di bourbon e Martini servito in un’ampolla chiusa a forma di mammella. Qualcuno lo ordinava solo per l’ampolla. Era un contenitore grosso come la tetta di una vacca olandese, molto leggero, e si maneggiava usando una sottile impugnatura simile a quella dei boccali da birra. Tra i riflessi del cristallo il liquido fluttuava e schiumava, uscendo a spruzzi da un bel capezzolo rosso vivo. L’éducation si beveva in una luce da tramonto tropicale, mentre le onde sonore delle chitarre acustiche si propagavano dagli altoparlanti attraverso le sale aperte, rimbalzando sui banconi di legno laccato, gli sgabelli da vertigine, le chaise-longue leopardate, i quadri astratti del genere color-field painting. Al centro del tramonto c’erano le cameriere. Immaginatele come entità corporee inaccessibili, ispiratrici di desideri che loro stesse non avrebbero potuto soddisfare. Donne dai seni turgidi, in minigonne di canapa e lingerie Wolford, con il logo del locale tatuato sulle guance (tre graffi cicatrizzati che ricordavano un’artigliata).
Il Flaubert Dry era un perfetto esempio di spazio mutevole. Il design incitava alla violenza. Tutto era affilato ma carezzevole, come le scarpe di quel centinaio di clienti che ogni sera raschiavano il parquet con i sassolini attaccati al cuoio delle suole. Un posto dove fama voleva dire desiderio: un desiderio di elevazione, di significato e di azione caratteristico dell’individuo sano. Qualcosa di così onesto da sembrare osceno, come una vergine nuda che entrasse da Marks & Spencer a rifarsi il guardaroba. E infatti i frequentatori del Flaubert Dry inseguivano il successo nello stesso modo in cui, da adolescenti, scrutavano lo specchio in cerca di qualità estetiche – senza trovarle, naturalmente, perché la bellezza non si nasconde, per non parlare del fatto che male sopporta repliche e riflessioni.
Mi ero attaccata alla mammella già un paio di volte e cominciava a girarmi la testa. Johnny aveva comprato tre o quattro spinelli da un pusher con l’aspetto di un demone in perizoma (il corpo palestrato, la faccia butterata, il cranio con due escrescenze all’altezza dell’osso parietale – insomma, il genere di adulto da cui ogni adolescente vorrebbe essere stuprata). Uno spinello grosso come un dito, un lungo bozzolo di cartine Drum farcito con il fiore della resina di canapa. Educatamente me lo fece accendere. I Led Zeppelin cantavano Babe, I’m gonna leave you a volume critico, indebolendo le mie difese emozionali. Sugli scaffali retroilluminati c’erano almeno seicento bottiglie di liquori policromi. I ventilatori ronzavano, spargendo una brezza variabile e fradicia. Altri due sorsi e mi misi a singhiozzare.
In quei momenti capivo solo ciò che provavo, come un animaletto ferito. Non sentivo dolore, eppure avevo inarcato il busto, reggendomi lo stomaco quasi che l’alcool lo stesse per sciogliere.
Johnny s’incuriosì. Me lo dimostrò appoggiando la guancia sul piano dove tenevo la mammella. Mi fissò in modo analitico, comprensivo.
– Tutto bene? – chiese.
– Adesso passa.
– Devo chiamare qualcuno? Se vuoi lo faccio.
Gli risposi con un deciso no della testa. Ma Johnny non era abituato a prendere sul serio quello che la gente gli diceva e saltò giù dallo sgabello. Dopo un minuto era di nuovo al suo posto. Questa volta aveva compagnia.
– Ciao bambina, – mi salutò la ragazza che lo aveva seguito.
– Ciao Remedios.
– Che cos’hai, bambina? No, non dirmelo, prima ti asciugo le lacrime.
– Posso farlo da sola.
– Non mi costa niente aiutarti. Vieni qui, fatti guardare.
Conoscevo Remedios da tutta la vita. Il nostro rapporto era fatto di similitudini. Eravamo nate lo stesso giorno alla clinica Zuckmayer. Avevamo frequentato il liceo a Coira (la stessa classe), e ai tempi dell’agenzia dividevamo un flat in Edgware Road, a due passi da Marble Arch, nel centro di Londra. Quel posto ci serviva da base operativa, perché l’aria di Milano mi procurava dei pruriti alla pelle che i medici non riuscivano a spiegare. Ci assomigliavamo, eravamo alte uguali. Avevamo lo stesso peso, la stessa taglia. Confesserò una cosa. Avevo voglia di abbracciarla. E per farlo mi sarei sbarazzata volentieri di Johnny Deep.
Remedios era calore. Aveva un viso ovale con treccine bionde da bambola. Quando mi trovavo nel suo campo gravitazionale provavo una precisa fiducia nel significato delle cose, o la certezza che ne avessero uno. Lo sentivo anche in quel momento, mentre vedevo passare dietro le sue spalle un centauro dadaista – il corpo di zebra, il viso da efebo, i movimenti svagati, l’aria un po’ ottusa.
Remedios. Stava cercando un segno rivelatore nella mia espressione. Il senso del disagio, l’argomento della crisi. Glielo leggevo negli occhi. Voleva introdursi nella mia coscienza attraverso le sue manifestazioni facciali. Mi pulì le guance con un fazzoletto. La stoffa tamponò la pelle quasi senza sfregarla. Remedios emanava un odore di professionismo, l’aroma inconfondibile che sprigiona dal corpo delle conversatrici.
Sì, conversare, parlare per mestiere. Avere a che fare con il desiderio di felicità della gente, mentre le leggi della natura complottano per tradirlo. Trovare argomenti di conversazione che si adattino a un Victorine o a un Madame Arnoux, strutturati long drink da meditazione. E i clienti fissi, i clienti nuovi, uomini soli, donne sole, a interpretarli, ad accoppiarli. Per quel lavoro ci voleva l’energia di un giaguaro, ma a Remedios non solo piaceva, si divertiva anche a trovare le forze per farlo. Il che, dovete ammetterlo, è il solo presupposto della passione.
– Devo dirti una cosa, Remedios.
– Che cosa, bambina?
– Ti voglio bene.
Remedios allargò il fazzoletto e me lo ripassò sulle guance. Poi fissò attentamente la pelle per apprezzare il risultato. Sembrava assorta.
– È qualcosa che non avresti dovuto dirmi, Vera. Non qui. Non alle otto di sera.
– Non dovevo, Remedios?
– Non lo avresti detto se non ci fosse un problema.
– No, non lo avrei detto.
– Lo avresti pensato, ma non lo avresti detto.
Abbassò il fazzoletto, valutò la sua distanza da Johnny e mi parlò all’orecchio. Chiudere gli occhi e ascoltarla era una delle mie forme preferite di oblio.
Poi, non soddisfatta, si voltò verso Johnny e disse: – Scusa, puoi lasciarci sole un momento?
– Perché? – si stupì JD. – A Vera piace se vi sto a sentire.
– È vero, bambina?
– Credo di sì, Remedios.
Lei mi studiò in apparenza senza sforzo. – Vi conoscete da molto?
– Da un paio d’ore soltanto, – ammisi. – Però in questo momento ho l’impressione che la presenza di Johnny possa valorizzare quello che dico.
– A beneficio di chi?
– Tuo, immagino.
– Io non ho bisogno che Johnny ti valorizzi.
– Non stiamo parlando dei tuoi bisogni, – intervenne JD, spegnendo lo spinello e assumendo la posizione adatta a reggersi il mento.
– Di che cosa stiamo parlando, allora?
– Del fatto che la gente non l’ascolta.
Remedios sorrise in modo neutro, con una comprensione senza ironia.
– Johnny ha ragione, – dissi.
– Ma stai parlando con me, Vera. E io non sono la gente.
– Immagina di non conoscermi. Immagina di non avere mai visto la mia faccia. Sono un’estranea, Remedios, e a prima vista nemmeno troppo simpatica. Perché dovresti ascoltarmi?
– Ti vedo continuamente, Vera. Passiamo insieme almeno trenta ore la settimana.
– Sì, ma supponi di perdere la memoria. Non ti ricordi chi sei, dove abiti, se Parigi è in Francia o sulla luna. Perché dovresti ascoltarmi?
– Perché?
– Be’, Johnny lo conosci, non è così? Se lui mi ascolta lo faresti anche tu.
– Ma se non mi ricordo di Parigi, perché dovrei ricordarmi di Johnny?
Le sorrisi. – Johnny lo vedi dappertutto, Remedios! Ti guardi attorno e lui è appeso ai muri. È uno di famiglia. Di lui ti fidi.
– È questa la tua idea?
– È così che funziona.
Lei spostò una ciocca di capelli scivolata davanti ai miei occhi. Era così fin da bambina. Non materna, ma stregata dalla tessitura delle cose.
– È questo che mi spaventa, – riconobbi. – Ho bisogno di Johnny perché la gente mi ascolti. JD mi è indispensabile come il suo sound mediterraneo.
Remedios accavallò le gambe e raddrizzò la testa, una successione di movimenti che mi spiegai come il segno di una decisa volontà interpretativa. La fissavo, aspettando che dicesse qualcosa. Le sostanze commestibili che avevo assimilato nel corso della giornata, quasi tutte letali in modo non significativo, mi stavano procurando una euforia convincente, al punto da crederla un dato ambientale.
– Non pensavo che ti interessasse, – disse Remedios.
– Che cosa?
– Parlare alla gente.
– Oh, per me quello che conta è lasciare aperta ogni possibilità espressiva. C’è ancora da bere?
Johnny agitò la mammella per farmi capire che era quasi vuota.
– Vi ordino qualcosa, – disse Remedios.
– Tu che cosa prendi?
– Una Tentazione di Sant’Antonio.
– Che cos’è, un long drink?
– In un certo senso. Soda con l’aggiunta di rosso Congo, un colorante insapore. Ai clienti con cui parlo dico che è Campari.
– E loro ti credono?
Scoppiammo a ridere simultaneamente, lasciando andare la testa l’una sulla spalla dell’altra.
– Vorrei un’altra mammella, – disse Johnny sbadigliando. – Ma questa volta con dentro una ciliegia al maraschino.
– Come? – esclamò Remedios. – Come, come? È una tetta, Johnny. La ciliegina non passa dal capezzolo.
Scoppiai a ridere più forte, producendo un suono vibrato, uno sbuffo d’aria sotto pressione. Il petto di Remedios sussultava, la mia fronte appoggiata alla sua si muoveva da una parte e dall’altra, come se il pavimento fosse sul punto di sprofondare. Per non cadere, lei si aggrappò ai miei fianchi. Forse anche Johnny si divertiva. Forse la risposta di Remedios gli era servita da introduzione al senso del ridicolo, un genere d’incontro che poteva chiarirgli la sua distanza dal divino. Piegai la testa da un lato, decisa a vedere l’espressione della sua faccia. Ed eccolo il testimonial di una nota bibita energizzante che si sta fissando l’unghia di una mano. Quell’unghia lo interessava sul serio. Muoveva il dito circolarmente, pazientemente. Lo studiava da prospettive diverse, la mente sgombra da inquietudini conoscitive, come se il suo scopo fosse solo quello di tenere occupata la vista. Decisamente, lo spettacolo non valeva la fatica della torsione alla quale mi costringeva.
Mi voltai e alle spalle di Remedios vidi qualcosa di più interessante. Al centro della sala erano comparsi tre uomini. Li notavo perché sembravano i soli a non capire dove si trovassero. Contai tre teste, sei gambe e cinque braccia, associando la mutilazione di uno di loro alle guerre di logoramento. In realtà l’uomo senza braccio aveva l’aria del coordinatore qualificato ed era senza dubbio un apprezzato leader per anzianità. Teneva in mano una sigaretta spenta e parlava quasi senza muovere le labbra, come se la lingua in cui si esprimeva avesse una prevalenza di consonanti. Se quei tre fossero stati vestiti con giacche scure, spiegazzate, e camicie bianche, ormai molli per la completa perdita di amido, forse avrei capito subito il loro mestiere. Invece indossavano jeans pre-usurati e un giubbotto in Cordura multitasche, come la maggior parte dei clienti. Mi incuriosiva il modo in cui si guardavano attorno, l’apparente indifferenza dei loro sguardi dalla occulta propensione analitica. Senza dare nell’occhio valutavano funzione, dimensione e distanza delle cose. Tracciavano linee di demarcazione tra aree di influenza, esaminavano ingressi, vani, vie di fuga, sommando e sottraendo da un valore critico metri e metri cubi di aria condizionata. Tutto questo in relazione alla posizione dei clienti e ai loro modi di agire, che valutavano molto prima delle loro facce.
La svolta arrivò inaspettata. L’uomo senza braccio mormorò qualcosa, indicando il bancone del bar. Il gesto generò un movimento coordinato. Il più grasso del gruppo rifilò una pacca sulla natica del centauro, dando allo stesso tempo una strizzata d’occhio alla telecamera di vigilanza – un documento da cineteca sui temi della determinazione violenta e dell’indifferenza verso la sfera privata. La musica si fermò. Non esisteva una ragione precisa perché questo succedesse. Però successe. Il mio senso della vista cominciò a operare su un livello di energia autonomo. Sentivo l’urgenza di capire le ragioni di quel cambiamento, non per curiosità ma per istinto di sopravvivenza. Lo dimostrava il fatto che l’uomo verso cui si incamminavano quei tre continuava a bere con indolenza il suo mescal. Perché? Risposta: era il solo che già conoscesse l’esatta natura del pericolo.
– Ho una cosa per te, Gabriel, – gli disse il grasso, appoggiandosi pesantemente al banco.
Gabriel era un ragazzo alto e nero di capelli, il naso spezzato da boxer. Aveva un pizzetto tagliente, quasi cesellato, e la carnagione olivastra. Indossava abiti da uomo d’affari e si tastava la cravatta a nodo largo come se la consistenza del tessuto gli desse sicurezza. Il grasso sfilò una mano dalla tasca. Gabriel ne seguì il movimento. La mano si fermò a mezz’aria, lasciando cadere sopra il bancone qualcosa di viscido. Gabriel sorrise e scosse la testa. Sembrava trovare l’iniziativa del grasso una mancanza di stile. Sopra il piano umido luccicava una pallina giallastra, una specie di uovo di quaglia con dei filamenti a un’estremità.
Capii che si trattava di un bulbo oculare quando gli altri due uomini ci appoggiarono accanto un lobo di fegato e un piccolo rene. In quel momento mi accorsi che esisteva altra vita cerebrale oltre la mia. Ero in mezzo alla gente, e la gente gridava, arretrava, si ammassava. La sala piombò nel buio. Le sole fonti di luce risparmiate dal collasso nervoso del locale furono una lampada da tavolo alle spalle di Gabriel e lo scaffale fluorescente dei liquori.
– Che roba è? – domandò Gabriel, voltandosi verso l’uomo senza braccio. – Che roba sarebbe?
– Prove, – disse l’uomo senza braccio.
– Prove? Che genere di prove? Ehi, ehi… ragazzi. Ragazzi, io mi occupo di frattaglie. Compro e vendo fottutissime interiora. Avete presente il fantastico mondo dei visceri? Andiamo, la gente va pazza per queste cose.
– Zitto, – gli intimò il grasso. – Zitto, coglione.
Vicino a me qualcuno piangeva. Una voce chiese: – Chi siete? Chi sarebbe questo Gabriel?
L’uomo senza braccio si voltò. L’oscurità aveva maglie così strette che lui probabilmente non poteva vedere oltre la linea dei primi tavoli.
– Gabriel è un trafficante di organi, – rispose in tono mite l’uomo senza braccio. – E queste sul tavolo sono le prove che abbiamo raccolto.
– Cristo, – esclamò la stessa voce nel buio, – come diavolo fate a portarvi in tasca certe porcherie?
Il grasso si voltò di scatto e fissò l’oscurità. Anche il terzo uomo fece un passo in avanti per capire da dove provenisse la voce.
– Adesso ce ne andiamo, – annunciò l’uomo senza braccio. – È tutto finito, gente.
Ma mentre quei tre erano voltati, il pubblico assisteva a una scena raccapricciante. Il trafficante d’organi ingoiò le prove e si sciacquò la bocca con un sorso di mescal. Quando il grasso se ne accorse, Gabriel lo inchiodò ai fatti con un rutto cupo e prolungato.
– È tutto a posto, – disse l’uomo senza braccio.
– Oh no, no… – gridò il grasso. – Santissima Madre di Dio, no… – e afferrò Gabriel per il collo, schiacciandolo contro il bancone.
Gabriel rise fino quasi a piangere. Dalla gola gli usciva un suono di aria strozzata. Rideva e si dimenava, cercando con le dita gli occhi del grasso. Riuscì quasi subito a divincolarsi. Era agile e si dileguò nel buio.
– Non muovetevi, gente, – gridò l’uomo senza braccio e fece segno al grasso di inseguire Gabriel.
La luce si riaccese di colpo. La canzone ricominciò da dove era stata interrotta. Il locale prese l’aspetto di una camera da letto illuminata nel cuore della notte. I clienti erano spettri, sonnambuli, lemuri. Avevano facce scioccate, espressioni da stato di narcosi. Sugli zigomi scendevano le lacrime. E di Gabriel, del grasso e del terzo uomo nessuna traccia.
– È tutto a posto, – ripeté l’uomo senza braccio, che non si era mosso dal banco. – La cosa è risolta. Permettete, gente, che vi offra da bere.
Chi si trovava in piedi cercò il sostegno delle pareti o di un tavolo, di qualsiasi oggetto a portata di mano, purché fosse stabile e sufficientemente strutturato. Non solo per il bisogno di appoggiarsi a qualcosa, ma per una esigenza di contatto. Per ognuno era importante constatare di essere ancora una entità corporea, con un volume rispettabile, un peso adeguato, una consistenza di corpo vivo. La mancanza di certezze faceva dare di stomaco una cameriera a due passi dalla porta dei bagni.
– Da bere per tutti, – gridò l’uomo senza braccio. – Coraggio, gente, fatevi sotto.
Il barman passò una spugna sul banco e si mise al lavoro. Ammucchiò bicchieri e ghiaccio tritato, mescolò gin a succo d’arancia, riempì di fragole i frullatori.
– Mio Dio, Remedios, – piagnucolai.
– Ssst… – fece lei. – Non agitarti, bambina.
– È orribile, non è vero? – sentii dire alle mie spalle, ma più che una voce era un suono spaventoso. – Be’, Johnny, come te la passi?
Il presente frammento è tratto dal romanzo di Omar Viel, Fetish, Lampi di stampa, Milano 2005
conosco un fantastico posto (pub-osteria: chiamiamolo come si vuole) in trentino dove servono punch alterato altamente alcolico, in boccali, per lui a forma di tetta, per lei a forma di fallo. In più lei ha la possibilità di scegliere il fallo a riposo o il fallo operativo! Naturalmente si beve da mammella e glande! Tra l’altro è nella graduatoria dei 100 locali più carettaristici della nazione.