VILLA(VIVE!)
Tentativo serenamente fallimentare di descrivere la mostra di Reggio Emilia
di Fabio Pedone
Come chiamarle se non ‘scritture’? Esse si impongono in quanto tali. Nella chiesa di San Giorgio ci sono i resti (bruciati, brucianti) di un’esplosione di segni, i relitti di un big bang irrimediabile, una magmatica costellazione. A un primo colpo d’occhio la navata appare occupata da quattro file di teche, con fogli, testi, opere-operazioni, riviste e manifesti, oggetti. Impressione di potenza e di fragilità. Ci sono manoscritti inediti, fogli e foglietti, carte e cartulae, taccuini, quaderni a quadretti, lettere, fotografie, bozze e prove di stampa, edizioni con correzioni autografe, testi scritti su vetro, cartone, lastre di zinco; le Idrologie escogitate con Cegna e Craia; i numeri di «Appia Antica», della brasiliana «Habitat», di «Arti visive» burrascosamente condiretta con Colla, le cinque uscite di «Ex» preparate con Mario Diacono e altri, «Tauma» e le altre riviste che ospitavano la smisurata operatività villiana. Ci sono i dattiloscritti, con aggiunte autografe, della traduzione della Bibbia. Ci sono edizioni antiche di Athanasius Kircher, per la cui eclettica polimathia Villa nutriva ammirazione. Quasi tutto il materiale manoscritto (spesso su labili supporti) e le traduzioni bibliche vengono dal fondo della Panizzi, diverse opere verbovisive (molte delle quali esposte proprio davanti alla chiesa, dentro la biblioteca) dall’Archivio di Nuova Scrittura di Bolzano. Molti i prestatori di edizioni introvabili e opere d’arte. Un cartello esplicativo con un testo non firmato (ma di Nanni Cagnone) evidenzia in Villa «la speranza di ottenere un silenzio originario a furia di dire», la ostinata tensione verso l’elusione della storia, raccordando origine e futuro, scavalcando arcaicità e avanguardia; l’importanza della figura del labirinto manieristicamente intesa, il foedus significante-significato rotto e calpestato, gettato in una segreta circolazione fra copertura e rivelazione, in una sfida sbilenca, sberleffo e implorazione, con la Sibylla: «una lingua sconosciuta, esagerata, insieme beffarda e sacrale».
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Nelle sei cappelle laterali, nel transetto e sull’altare maggiore, invece delle pale d’altare sono esposte opere dell’arte del novecento di cui Villa fu suscitatore insonne e compagno di strada: l’informale, l’astrazione asimbolica, la materia decomposta. A vedere i tagli di Fontana issati su un altare barocco a intarsi marmorei o un tormentato Burri esposto tra gli sbuffi celestini e le cornici di zucchero filato di una cappella settecentesca vien da pensare che, proprio perché fuori posto per il gusto sistematico, queste opere siano effettivamente al loro posto. E pazienza per chi inveirà contro la museificazione dell’avanguardia: non avrà capito niente. La chiesa, sconsacrata mi pare, è in restauro, il verdepallido delle volte è sconciato da macchie di umidità, quasi ci avessero pisciato sopra i puttini di stucco. Sui muri della navata sinistra una mano anonima ha tracciato decine di invocazioni e voti ingenui.
Accanto alle opere degli artisti (anche Rothko, Capogrossi, Colla, Lo Savio, Matta, Manzoni, Wols, Twombly…) sono gigantografati i testi che Villa ha composto per loro (malgrado loro, oltre loro) e poi raccolto in Attributi dell’arte odierna. Un discorso che non ha il dovere di essere ‘commento’ né ‘spiegazione’, né tantomeno ‘ricreazione’, che non riporta l’opera a una griglia di sensi logici ma vi crea attorno una trama di pensiero e suono che ricostituisce e chiarifica i motivi del suo evento. Un francese terremotato e in ostaggio della mutazione fonica, un latino sapienziale e invenitivo che arriva da prima di ogni tempo, una rutilante operazione di appropriazione dell’atto, dell’altro. In basso, nelle teche sono stati raccolti i documenti originali di quella frequentazione: mi fermo di fronte a una cartolina inviata a Villa da Duchamp nel ’63, contenente il «vrai nom» di Villadrome, quello del «parabaptème» che il nostro ricorderà cinque anni più tardi: «sur l’Aethne éructant» (raffigurato nella cartolina). Accanto, la Bôite-en-valise duchampiana con le sue opere miniaturizzate e una versione di Why not sneeze Rrose Selavy? – senza termometro.
In catalogo ricompare un testo da «Ex», n. 2: Theophorie phonoponte, che celebra
les deuxdyeuxdés du Grand Champ le DuChamp DuEl
le dyeudémnom de mon monnom monde mon de deyeux les
du MON NOM révolutionnez les flammes, verticales, les horin
zontalisérer!
La dismisura villiana è germinale e assoluta: è esposta una copia di ‘Adolescenza’, la prima raccolta di liriche (a vent’anni) ancora in atmosfera Gatto-Ungaretti-Quasimodo: «È già ora di aprirmi, acquei/ specchi di pupille…/ Ritornano sugli alberi le vite/ che basta un’ombra solo per fiorire.» (Prima alba). Ma sul frontespizio sono annunciate opere dell’autore ‘in corso di stampa’, o prossime venture: fra le altre una Nuova metafisica, un’Antologia della lirica semitica antica e Linguae phoeniciae gramatica, cum chrestomathia et glossario.
Subito dopo viene ‘Oramai’, è una copia senza copertina della Panizzi, con correzioni autografe di Villa (scritte quando? dalla penna sembra piuttosto tardi) – Qualsiasi Lombardia fitta di aggiunte, e una mai vista versione di E lascia che vada, ecco l’incipit: «Me pader, mechanicus/ subtilis, ardente/ pratico, pulito, un braccio/ indurito ma perfetto».
Comincia a farsi febbrile l’attività di Villa, la collaborazione con gli artisti da lui istigati e la tensione sfigurativa del suo linguaggio: c’è il grande formato di E ma dopo del 1950, con tavole di Mirko, poi il liturgioco di Heurarium, del ’61, in cui si afferma il babelico plurilinguismo di Villa e che fu oggetto di facile sarcasmo da parte di Montale sul «Corriere della Sera».
et j’aime les Asphaltbettes fructifiantes dans
les Jardins des Souffles
Un appunto suona come un’autoapologia: «Guarda che siamo di Eleusi. Torniamo a Eleusi; sotto, sotto, sotto. Qui il più severo e il più inventore sono io, che ho inventato la poesia distrutta, data in pasto sacrificale alla Dispersione, all’Annichilimento: sono il solo che ha buttato via il meglio che ha fatto; quello che s’è consumato nella tasca di dietro dei calzoni scappando di qua e di là, quello scritto sui sassi buttati a Tevere, quello stampato da un tipografo che non c’è più, quello lasciato in una camera di via della croce. Solo così si poteva andare oltre la pagina bianca: con la pagina annientata».
Gli anni sessanta segnano un più deciso accanimento sperimentale: Brunt H. Options, le Idrologie e il loro manifesto… Segue una grande stampa con la torre di Babele da un libro di Kircher, che è l’immagine-logo della mostra. In artaudiana ecolalia, il nomen si interseca perfidamente al numen in Cheoe…, manoscritto della Panizzi:
écou roucoucou écourou le cou
écoute donc le conteau pendu
fino a degenerare, a delirare:
ehn, cock cock, Ungenerated Member,
Cockremembercock, wheeling cock
e così per un po’, al di là del suono e del senso.
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Gli anni settanta sono quelli dell’esperienza con la Nuova Foglio di Pollenza: c’è l’edizione di Green e il catalogo di Lapsus – collana diretta da Emilio Villa, le bozze joyciane di L’Homme qui descend quelque e La Rage oblique/La rage oublie, le Phrenodiae quinque de coitu mirabili per Corrado Costa, un taccuino-bestiario in cui si augura agli uomini l’autentico delirio (rimanere «con un pugno di voli di mosche in mano»), i foglietti pieghettati di velina colorata che vanno a formare Traitée de pederasthie céleste edito da Colonnese a Napoli. Sempre Napoli, dove la dissipazione delle scritture prolifera in forme ormai incontrollabili: Hisse toi re d’amour da mou rire, The Flippant Ball-Feel… Ma poi, con l’interferenza di benefici ‘alleati sostanziali’, la rivista «Tam Tam» fatta al Mulino di Bazzano, i cinque numeri di «Ex» della Nuova Foglio usciti nei sessanta (il secondo ha copertine alternative create da De Bernardi, il quarto è un rotolo in una scatola nera oblunga, il quinto un unico grande foglio ripiegato). Là escono scritture pseudoalchemiche in francese, Anotomie, Lilber Mutus, Tabula Absphinxoria. Una bustina di plastica trasparente contiene gli appunti a biro blu per un progettato Inno a Aldo Braibanti del 1968. Poi il dattiloscritto e l’edizione di Exercitations de tire en 10cibles per Nuvolo, giocando fino a dissolverle sulle rime più dogmatiche di un francese ormai assunto a lingua principe:
tirez tirez mesdames messieurs tirez titirez
qu’il faut percer deux ombres sombres
percer les ombres des ombres des ombres sombres.
Di seguito, prezioso omaggio manoscritto in unica copia per Corrado Costa, ‘scegliendo Pel da Pelo, cristomazia lirico-Retrospettiva-inedita 1944-1970’, con eterogenei materiali goliardicamente spillati insieme. Sul terzo numero di ‘Tauma’ (1977) esce Alphabetum coeleste, i cui appunti sono esposti: «Mettere al centro un/ onfalos avvolto da un serpente […] buttare per terra […] lettere e parole/ sporcate imbrattate bruciate». Ora è il latino: la lingua prodigiosa in cui si gioca, e insieme si confonde, tutta la fiducia di Villa nelle possibilità apotropaiche e rigenerative della parola. Siamo alle soglie dei Verboracula che grazie a Tagliaferri e Cecilia Bello si possono leggere in Zodiaco. I manoscritti di Aevoracula, Ne operietur, Saltafossum accostati alle tavole di Giulio Camillo stampate a Venezia nel 1560 (Gorgo, o figura dell’artificio), a quelle dell’Ars brevis di Raimondo Lullo, delle Etymologiae isidoriane. Scritture, oggetti scritti: e come pensarli altrimenti? Con le 12 Sibyllae stampate nel ’95 da Lombardelli a Castelvetro Piacentino, per le cure di Aldo Tagliaferri, i tremolanti grafemi villiani diventano lamine orfiche trasposte su lastre di zinco (come nell’altra pubblicazione CBille CBelle): origine e futuro si intersecano, viene in primo piano l’oracolo, l’enigma, il labirinto che l’uomo architetta intorno a se stesso divenendone vittima, l’abisso che Villa bambino divinava in fondo al labirinto biologico, all’orecchio dei gatti, degli uomini. Per Tagliaferri è qui che si situa «la più coerente realizzazione» di quella sintesi aniconica fra parola e segno che Villa insegue fin dagli anni del seminario, e che si fa più precisa nella sua oltranza dopo il biennio trascorso in Brasile. «Villa – scrive Tagliaferri – riscopre ed esalta la tendenza della parola oracolare a ritorcersi contro ogni concatenazione lineare dei significati, a sconfessare il ‘patto’ tra significante e significato, e, in sostanza, a opacizzarsi, rinunciando a ogni sicuro rinvio ad altro fuori di sé». È la gloria deperita della pura immanenza, in cui gli incidenti di percorso della graphé (un groviglio di scrittura, il gesto lento o furioso della mano sul foglio, le cancellazioni) mimano il destino della pittura che nella sua materialità irrimediabile si sbarazza della metafisica del significante. Questo segmento di mostra si chiude con un’incisione dell’Arca Glottotactica dalla Polygraphia nova di Kircher, mentre una litania inedita manoscritta sulla virga viene accostata al Libro di un solo verso (1617) di Bernhard Bauhus.
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Nella terza fila di teche nella navata sono esposte due scatole di cartone contenenti schede manoscritte di un progettato dizionario etimologico-mitologico, in cui Villa ha sicuramente riversato la propria provocatoria capacità di scoprire etimi inediti dietro le parole autorizzate dei testi classici per rivitalizzarne il senso in direzione di un’origine tanto più attiva quanto più nascosta (e si vede nell’Odissea, nella bibbia che lui scriverà sempre in minuscolo). Dal catalogo: «Questo lessico (…) recherebbe la più vasta possibile, ma veramente essenziale, descrizione di ogni voce, opportunamente delineata: in modo da cogliere ogni entità verbale, ogni parola cioè, nei suoi punti di realizzazione, i punti in cui consistono il suo processo, le sue fluttuazioni, le sue funzioni, le sue relazioni, le sue operazioni. (…) Per la prima volta verrebbe effettuata una incursione totale (nei limiti del possibile) nelle aree arcaiche della Mesopotamia, delle coste Siro-palestinesi, del Mediterraneo preistorico e proto storico, per il recupero di voci sempre più profonde. E nello stesso tempo, per la prima volta verrebbero inserite tutte le voci della complessa cultura moderna» (testo datato 15 marzo 1973).
Proseguiamo: Geometria Reformata stampata con Claudio Parmiggiani, l’edizione feltrinelliana degli Attributi uscita nel ’70 su «intimazione» (sic) di Tagliaferri e Balestrini, Ridente Sillaba con Bonalumi, un testo degli anni cinquanta non privo di ironia, in cui la vena sperimentale comincia a diventare rimedio alla inanitas verborum, la panglossia si orienta verso la dimensione mitica di un caos originario che «contrasta con crescente determinazione quella, classica e non meno mitica, di un’armonia supposta cosmica e universale» (Tagliaferri). Le scritture villiane si configurano come labirinto in espansione, proliferazione di nuove catene di significanti, agglomerazioni sonore e concettuali laboriosamente manipolate. Nella prima versione del testo si legge una frase significativa che poi verrà cassata forse perché troppo esplicita: «Epoca senza esercizio d’oracolo e senza presenza di dèi». Si va avanti con le edizioni degli anni novanta, Conferenza, Letania per Carmelo Bene, Il fuori e il dentro del segno (omaggio a Fontana), poi un recupero degli anni ottanta, Geolatrica, testo sulla grande madre-argilla elaborato in concomitanza con le Sibyllae e i trous, segnato dalla meditazione sulla morte secondo quella «oscillazione tra memoria e oblio, traccia e copertura» caratteristica del Villa ultimo. La collaborazione con Burri è segnalata dall’edizione anni ’50 delle 17 variazioni per una pura ideologia fonetica e dalle traduzioni da Saffo.
Da una lettera a Bonalumi: «Dunque, ricominciamo. Non dire mai “attività critica”. Ma entusiasmo, occhio, poesia. I critici sono la merda. Col vostro aiuto conto di poter far bene. State attenti a tutto. Bisogna aprire, aprire».
C’è ancora molto altro: il greco antico di Le mûra di t;éb;è, la traduzione del Dies Irae, lettere a Betocchi, Brandi, Macrì («io rifiuto tutto oramai, il bene e il male, la cultura e la fantasia, l’immagine e lo schema, la scienza e la poesia. Mi metto in terra.»), un progetto di manifesto manoscritto («Libertà da tutto»), schizzi a pennarello, bigliettini quasi evanescenti. «La mente umana, nella sua parte più coraggiosa, non ha mancato mai il grande tentativo di liberarsi dalla ostinata presunzione socratica e umanistica: quella secondo cui tutto che attraversa l’apparatus razionale diventi, sic e per questo, ragione, razionalità, ragionevolezza; così venendo a togliere alla mente le sue facoltà diafaniche, la sua grandiosa trasparenza. Come la ragione, così anche l’arte tenta di liberarsi dalla presunzione analoga: che cioè tutto quanto passa per l’apparatus figurativo diventi, subito e naturalmente, figurazione, mimesi; quella figurazione per cui essa tende a ricostruire il mondo oggettivo come un teatro finto» (da un testo su Colla poi in Attributi, p. 52). E ancora: «Colpe? Non ci sono colpe. Nella mischia angosciosa e confusionaria di sensazioni e appetiti che le forme stesse di questo vivere precipitoso e violento hanno tramutato in fatto compiuto, non ci sono colpe da cercare. Anche la bellezza, anche l’anima umana, figlia del suo stesso dolore, deve, secondo una legge il cui senso ultimo ci sfugge, ma che è inesorabile, pagare il suo tributo a un tempo di corruccio, di sangue, iroso».
Si legge invece nelle 9 litographies de Giulio Turcato et 9 méditations courtes par Emilio Villa (1974): «c’est toujours pour souligner une faiblesse qu’on trace une ligne: ou, peut-etre, pour nourrir l’omnifaiblesse, la faiblesse de la nuit, de l’ennuie, du monde».
Scritto in curve a pennarello rosso su un foglio da disegno debitamente sporcato:
lingula mea
non est hoc tempus dicendi
id quod nequit esse dicendum
ex facie / faciei facta sit
faex est
fax fecunda
faecula
faecis
Un ritratto a penna e pennarello, le parole oscillano tra numen expertum e numen repertum, per arrivare a nomen excerptum. Giochi di verità. Tra le operazioni verbovisive raccolte nelle sale della biblioteca Panizzi, sono colpito da una semplice tavoletta di legno, dipinta di bianco, con due righe a biro che corrono, minute, lungo la base: l’invito a non aderire ad alcuna superficie, visto che ogni superficie è un insieme infinito di punti e dunque una superficie separata non è possibile che esista («essa è demoniaca»); mi sembra il viatico che parla di più all’apertura dei pensieri e degli occhi.
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Se sull’altar maggiore troneggia Dioscuri di Ettore Colla, nella zona antistante sono in esposizione i materiali delle traduzioni bibliche cui Villa si dedicò fin dagli anni Cinquanta e che non smise mai di rivedere. Intanto c’è il ponderoso glossario sumerico-accadico del Pontificio Istituto Biblico (1934) fittamente annotato a penna. Un articolo degli anni Trenta sul Poema di Danel che era dato per disperso. Poi Antico teatro ebraico. Giobbe. Cantico dei cantici (Il Poligono, Milano 1947). Un volume illustrato sulla Bibbia di John Huston di cui Villa fu consulente storico: e spese il compenso per un memorabile viaggio in Egitto da cui riportò, ricorda Cagnone, una mitologica marmellata di petali di rosa. In fascicoli separati, si vedono le rispettive introduzioni e le versioni dattiloscritte dai libri del Pentateuco, poi i Salmi denominati grecamente Inni, e Isaia, e Geremia; sull’incipit della Genesi una nota fra parentesi quadre («300 a.C.?»), l’inizio è siglato Prima cosmogonia e legge così: «Quando Elohim cominciò a formare / i cieli e la terra, / la terra era Desolazione e Vuoto, / e Tenebra sopra la faccia dell’ [acqua] Primordiale, / mentre il [Vento di] Elohim volteggiava / sulla superficie delle Acque.»
Sopra i fascicoli dell’Esodo mi fermo con tale insistenza che a un certo punto uno dei custodi della mostra vola apprensivo verso di me dall’entrata della chiesa. Lo guardo ma temo di non essere stato rassicurante. In effetti stavo compiendo un atto pericoloso. Leggevo un foglietto aggiunto, scritto a mano, in cui Villa contesta il ‘decalogo’ come «tavola sinottica del volere divino», illustrando come si tratti di dieci locuzioni di valore magico-rituale – assolutamente non interiore e morale – elaborate da una casta di sacerdoti-giuristi su analoghe formulazioni assire e egizie. Insomma non sono direttive etiche, piuttosto scongiuri ed esorcismi («Non desiderare…»). Basta questo a dare un saggio della spaventosa novità dell’impresa villiana, incurante ma conscia di migliaia di anni di commento infinito, e a motivare il silenzio cui fu condannata dal dogmatismo di ogni ordine e grado.
Pure una mano tremebonda e incerta (Villa dopo l’ictus del 1986) non ha mai finito di scrivere, titolare, cassare su quelle pagine, non si è mai davvero rassegnata al silenzio.
Lungi dall’essere manifestazione monolitica di una rivelazione divina, che Villa non trova mai nelle sue pagine, la bibbia è piuttosto una autorivelazione dell’umanità a se stessa: un’epica del popolo ebraico alla confusa ricerca di una liberazione, in un’attesa immensa; un rattoppo, zeppo di vuoti e cruces, di antichissime frasi operato da loschi redattori-revisori, che cela uno splendore offuscato di etimi mesopotamici o egizi, culti ctonii, racconti epici e personaggi romanzeschi (‘Abramo il bandito’). Provocatoriamente, ostinatamente, questo è la bibbia aconfessionale, adogmatica di Emilio Villa.
Ma quando verrà la ‘nuova gente’ libera in grado di leggerla?
Scritture. Come chiamarle. Dietro l’altare, nella zona del coro, sono esposti altri fogli manoscritti inediti in cui la scrittura interseca il tema biblico, grappoli di radici ed etimologie mesopotamiche che si generano l’una dall’altra; taccuini, micrografie in cui prolifera la litania ossessiva e sempre mutabile della scrittura; i manoscritti dei Tarocchi di cui Villa parlava nella Didascalia degli Attributi dell’arte odierna. Ultimo ‘pezzo’, su un taccuino a quadretti:
Prima o poi, poi o prima
le parole dette, le parole scritte,
presto o tardi tutte le parole
sono destinate a sparire
spariscono.
Le parole sulla carta, le parole
sulle pietre, le parole sui rami
spariranno tutte.
Se queste parole e non parole
sono scritte su materie
che presto si decompongono, che
durano poco più di un
attimo o poco più di un millennio
che cosa esse sono.
Dentro l’altare, nel retro, nella nicchia dove si conservava il Sacramento, una sfera di perspex, un’idrografia sorella di quella sulla copertina della biografia di Tagliaferri: difficile notarla se non si sa già che è là; un angelo nascosto, un clandestino nel luogo più sacro.
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«La critica (…) è un’attivazione tarda». E tardi arriva. Così, ricostituendo una sintassi perduta che Villa perdé senza nostalgie – anzi con anarchica indifferenza se non allegria – logica, storia, filologia, accademia, mettono fameliche le mani sul ferito, sull’eslege. Sul caos scritto che è il riflesso di quel ‘fare’ a cui sempre si richiamò.
Di fronte a questo oceano disordinato (mai distratto) di materiali non avviene il faccia-a-faccia, come sapeva Zanzotto (Come sta Villa?, «il verri», novembre 1998). Guardiamo ancora nel mistero di uno specchio, mundiloquio sempre rinato, nel brusio babelante di un’opera di dimensioni indeterminabili. Possiamo catalogare, possiamo organizzare in griglie tassonomiche. Ma è sempre là e non è mai là. Esorbitante, eccessiva, esacerbata. E spettrale, ostica. Un’eccedenza che ha giurato di inoltrarsi, di sottrarsi al di là di ogni temporaneo raggiungimento. Una furia sfuggente, l’incontinenza di un’opera latitante, reticente, ma con un nucleo incandescente: appello a una liberazione dal tempo, che si sprigiona dal puro territorio del segno.
Tentazione, pronta a non incarnarsi mai in tentativo, di redigere un glossario villiano: Tempo, Parola, Azione; Mito; Origine. E Segno, e Sacrificio. Non si tradurrà in effetto, non foss’altro per la vergogna implicita nel dover rivaleggiare con le risorse inimmaginabili di un tale rivale del Creatore.
Uno dei pochi momenti in cui mi sembra ben accetta la disperazione.
Eppure ci deve essere un trauma radicale, una ferita prima. La guerra, si dice, la prigionia in Olanda e Germania. Gli studi in seminario che lo segnarono in maniera assoluta, lui figlio di un «muratore / ardente, pratico, pulito». Io penso anche a una serie di motivi su cui Villa mantenne sempre una reticenza, e quando la depose fu per mostrare una fragilità insospettata: i rapporti con gli ermetici fiorentini, le lettere a Betocchi in cui insiste sull’importanza dei suoi giovanili sogni di sacerdozio, a Macrì che fu l’unico a restargli accanto anche dopo la guerra; Villa, che all’inizio si voleva più di tutto poeta, si trova impigliato nella trama di una accettazione-legittimazione che lotta contro una tenace vocazione a sfuggire al giudizio, al potere di un gruppo organizzato. E alla fine preferisce perdersi e disperdersi.
Il conflitto dolorosissimo e penoso si riverbera anche nel rapporto con Contini, misteriosamente così fecondo nelle premesse e fallito negli esiti (vedi il saggio di Ugo Fracassa in Segnare un secolo, DeriveApprodi 2007). Di fronte al philologus totus Villa si comporta come un bambino che ha la cameretta in disordine.
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Il catalogo. 520 pagine. Immagini delle opere e degli oggetti in mostra, testi inediti, altri ripubblicati, il centro occupato dalle opere degli artisti e dai testi loro dedicati negli Attributi. Di Villa ci sono tre poesie giovanili inedite, quattro da Adolescenza, una buona selezione da Oramai, E ma dopo, Comizio millenovecentocinquanta3, Heurarium, ‘Theophorie phonophante’ dalla rivista «Ex», e fra gli inediti assoluti, ripescati dal fondo della Panizzi, quattro pezzi sulle stagioni, il ‘Progetto di una comunità di artisti dedita alla creazione e al recupero di una diaconia dell’immaginario’, ‘Un fossile rigenerato’ e il ‘Progetto per un nuovo Dizionario etimologico’.
Aldo Tagliaferri, l’amico, il compagno di strada, il critico più intenso e il biografo di Villa, ne connette l’impostazione stilistica alla passione per Daniello Bartoli (già per il Leopardi della Crestomazia «il Dante della prosa italiana»), per Kircher e per il manierismo in letteratura studiato nel classico libro di Hocke, ne avvicina la tensione a un illimitato fuori dal tempo (a una liberazione dal tempo) a quella simile nei motivi e diversa negli esiti di Ferdinando Tartaglia, segnala l’atmosfera esplicitamente gnostica delle esperienze di Villa e la sua sintonia con Bataille (anche prima di Lascaux).
L’origine cui tende Villa non è un punctum scientificamente determinabile (che la scienza dà per irrecuperabile). È una condizione inimmaginabile, prima di ogni prima, e che tende a un dopo assoluto. Lui la sentiva nelle opere di Burri.
Per Villa ogni segno è ferita e liberazione: sempre a Bataille, dopo una lunga e informatissima discussione sulla nozione di ‘informale’ (che Villa non usa mai) e sulle coeve polemiche sanguinetiane, ritorna Cortellessa, forse troppo preoccupato, nell’indagare il progresso dei procedimenti, di rispettare diritti di primazia: che ce ne frega a questo punto che le ‘diavolerie fonetiche’ di Villa escano in contemporanea con l’elaborazione di Laborintus del da Villa odiatissimo Sanguineti e precedano Zanzotto e le sue IX Ecloghe?
Il confronto con Zanzotto è anche nello scritto di Niva Lorenzini: se a Villa lo accomunano istinti «talmente decisivi da radicarsi nella sostanza genetica profonda della sua stessa scrittura» (slittamenti e dislocazioni di senso, l’oltranza associata all’oltraggio), a separarli sarebbe «la volontà che persiste in Zanzotto di praticare, nonostante tutto, la verbalizzazione del mondo, pur nell'”esperienza del terrore”, nel rischio di afasia».
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Voci per un ritratto frammentario, ‘succosi aneddoti’ che serviranno a condire la storia ogni volta che verrà raccontata.
«Con la stessa gioiosa eloquenza con cui parlava, cucinava cose selvatiche, sature di sapore; mangiare e bere gli procuravano un tale godimento da far impallidire subito qualsiasi letteratura. […] Parlava con impeto, o rallentando-dissimulando un suo mite sarcasmo. Credo che non gli sia mai importato molto del resto del mondo, se si eccettuano le donne, gli alberi improvvisi, le pietre parlanti, i bucatini fetenti, la coda alla vaccinara. […] Elusivo com’era, non mi ha insegnato niente: non ha voluto. Niente di definito, per lo meno. Ma non potrò dimenticare l’aria, la luce, suscitate da lui nel dire del tempio di Poseidone, a Paestum, subito prima di abbandonarlo per intervenuta commozione, al ricordo di un ristorante di pesce nella vicina Agropoli. La cosa più impressionante di Emilio per me, che tra i poeti ho conosciuto solo anime stentate – era l’entusiasmo. Non ho conosciuto nessun altro che avesse quella simpatia per l’esistenza, quella magnifica propensione per qualunque cosa, nessuno che potesse meravigliosamente rimescolare tutto, essendo ugualmente felice per Delfi e Honolulu, che traducesse la Bibbia e tenesse una corripondenza con Burroughs e Duchamp, che apprezzasse i modi beceri delle osterie e l’elegante stravaganza di Raymond Roussel.» (Nanni Cagnone)
«Lo ricordo una sera in ginocchio davanti a un oste nell’atto di ricevere la comunione mentre scaldava col fiato una fetta di salame che teneva protetta nel palmo delle mani giunte e salmodiava in latino versi che ricordavano i Carmina Burana. Passava con improvviso trasporto alla poesia più toccante. Da lui ho appreso il senso di un pensiero solitario, aristocratico, non servile. Siamo stati insieme più volte in macchina a Ferrara ed erano viaggi di esaltazione dionisiaca. Voleva sempre arrivarci passando da Casumaro perché diceva che si sentiva profumo di figa nell’aria e lo diceva in latino. Questi episodi erano vissuti con la stessa grandezza di un Folengo, di un Rabelais. Mi ha sempre chiamato affettuosamente Ninì, come un figlio». (Claudio Parmiggiani).
«La sua fama critica non era basata sull’esercizio di un potere notarile o gestionale; al contrario, la sua autorevolezza si fondava sull’esercizio acrobatico di una lingua unica, anch’essa assente da ogni manuale di storia dell’arte, di storia della critica e della letteratura. Preceduto da un alone d’incertezza e di incomunicabilità, non si sapeva né come né dove incontrarlo, se non attraverso la frequentazione degli studi di alcuni artisti, nei quali si sapeva che, di tanto in tanto, egli s’affacciava. […] Il primo incontro con Villa avvenne a “La Villetta”, una trattoria nei pressi di Porta S. Paolo a Roma dove, alla vasta tavola di Cagli, con altri amici e artisti, le conversazioni cui venni introdotto erano una lingua per iniziati che traguardava millenni ma anche l’attualità». (Bruno Corà)
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Non so chiudere, non so come, e forse non è nemmeno necessario. Di fronte alla formulazione inesausta di una dinamica accanita, e ai reperti di tante esperienze qui raccolti e ordinati, non so. Villa cosa avrebbe detto? Un filo cui appendermi mi arriva da Linguistica (in E ma dopo):
E non per questo celebro coscientemente il germe
sepolto, al di là,
e celebro l’etimo corroso delle iridi foniche
ma una spinta, parimenti, molto villiana è il consiglio, l’argomento decisivo di Ultimatum à la corrrrée –
et, mais bref
andé devialcu tuti
(l’immagine, un’opera del 1964, è tratta da questo interessantissimo sito ungherese.)
Grazie.
ottimo
Ci sono stato anch’io all’inaugurazione della mostra. E trovo il resoconto di Pedone fedele, cioè libero come libera era l’energia che veniva da quella chiesa sconsacrata e riconsacrata dai resti dell’attività più ‘libera’ del ‘900.
Per i più giovani questo lavoro è un dono prezioso, insegna il metodo, il modo di stare e fare, un senso concretissimo e alto dell’attività letteraria e artistica.
Che non c’entra nulla con i salamelecchi dell’itaglia dei gerarchetti…E di questi tempi non è poco…
Ringrazio di cuore Fabio Pedone – che ora mi piacerebbe proprio incontrare di persona davanti ad un bicchiere- e l’amico Andrea Raos per aver combinato questa cosa che ad Emilio sarebbe piaciuta.
Biagio Cepollaro
Concordo con Cepollaro, per chi conosce poco o per niente Emilio Villa, magari per ragioni di età, l’artioolo è un’introduzione preziosa.
sono d’accordissimo con biagio per villa come grande maestro di “metodo” in senso generale, al di là dell’affinità che si possa provare o meno per la sua produzione.
segnalo un testo di villa a cui si accenna tra le righe nel pezzo di pedone e che mi sembra davvero importantissimo per tutti, oggi: “l’arte dell’uomo primordiale”, uscito per abscondita nel 2005, in cui si illustra l’inscindibile nucleo etico-estetico della significazione.
la questione (che già impoverisco usando quel dittico “etico-estetico”) mi sembra una della chiavi di villa e sicuramente una di quelle che ci si deve porre in questo periodo (anche post-elettorale).
grande, grandioso, grazie
No, grazie a tutti voi che avete letto. Il pezzo era all’inizio una testimonianza ‘di servizio’ per Andrea Raos, che specialmente ringrazio, ma sono felice che sia stato condiviso con tutti e proprio su NI. E’ vero, come scrive Biagio Cepollaro, che Villa è un esempio di metodo: guardare alla sua libertà e al suo entusiasmo allarga il respiro, e l’avvicinamento a quel ‘fare’ genera benefiche forme di contagio. Anche capricciose e ibride. Del resto gli avvicinamenti a personalità così immense non finiscono mai. Concordo poi con Bortolotti nel rinvio all’ ‘Arte dell’uomo primordiale’, inestimabile recupero che si deve ancora una volta a Tagliaferri: è una strada privilegiata per entrare nel vivo del pensiero di Villa tramite la questione dell’origine e del segno. Ma voglio ricordare (perché nel pezzo non è stato fatto) un’altra pubblicazione benemerita: la recente ristampa, con nutrita ‘coda’ di cose inedite o disperse, degli ‘Attributi dell’arte odierna’ nella collana Fuori Formato dell’editore Le Lettere.
Spero infine che nel prossimo futuro si arricchisca la nostra conoscenza del Villa poeta. Per quel che può valere la mia opinione, ho sempre considerato il volume delle ‘Opere poetiche’ stampato da Coliseum uno dei grandi libri del novecento (o del duemila? Be’, per dirla con Villa, ‘contemporaneo a chi?’ )
la parola “inesausto”.
[…] da leggere infine Villa(Vive!), la bella recensione della mostra di Reggio che Fabio Pedone ha scritto per Nazione indiana. Una […]
[…] da leggere infine Villa(Vive!), la bella recensione della mostra di Reggio che Fabio Pedone ha scritto per Nazione indiana. Una […]