Diorama dell’est #9
La polvere arriva, in grandi nuvole grigie, dalle profondità dell’Est, quando il corso dei venti si confonde, gli ostacoli delle stagioni s’accasciano, sulle pianure, spalancano il cammino senza difese, alla pressione immensa delle correnti, alle onde argentate che s’infrangono, verso il tramonto, sull’arenile stupito dei nostri sobborghi, sulla roccia friabile di queste case disperse, che non provano ancora l’insidia del mare, non conoscono più la voce rabbiosa, il respiro, il sibilo fermo della cieca distanza. Questa non è la polvere segreta che minaccia, così chiara, lucente, sincera nell’assalto momentaneo, dominio trasparente al passare lesto dei giorni, al declinare volubile delle tramontane : conosciamo tra tutte le sue dita di cenere, la stretta materiale sulle cose in attesa, non potrebbe mai soffocarci d’entusiasmo, soltanto celare, forse, l’incomodo esteriore della vita, con il suo benevolo apparire, la stanca profusione, abbraccio senza pena, foce numerosa di fiumi già trascorsi.
Questa non è la polvere segreta che scava nella vita, d’improvviso, cresce nelle stanze, si sprigiona, irreparabile, da fuochi senza luce, scoppi senza nome, sa percorrere, miglia di spavento, boschi minerali, città disabitate, accende, nubi senza pioggia, tramonti, pallidi riverberi nel cielo : non si tocca, mai, la sua ferita graduale, il suo calore cieco, l’elica incessante, affiora, senza peso, alla frontiera degli oggetti, vela, senza volto, la sostanza sorda che riposa, nelle forme ignare, nelle piane superfici, dove cade la semplice mano dello sguardo.
Quando il vento ruota le sue voci e soffia, dai laghi neri che attendono la notte, allora sai che la stagione muta, il peso d’ogni evento si trasforma, la materia delle cose s’appuntisce, sino a stringere o ferire, il gesto l’indolenza, l’aria mite che si popola di lance, il polso lento della luce, la segreta oscillazione di fibrille : questo minimo lucore, che interrompe il respiro al ferroviere, affonda i binari nel timore, taglia i fili del presente, divide l’ora e le distanze, copre di silenzio i terminali, sigilla gli usci dell’attesa, dissipa le voci d’ogni viaggio, ci sospende, alla minaccia silenziosa l’avvenire, distilla nei minuti l’impazienza, pallido veleno senza fuga, ci abbandona, vivi, al vuoto, con la sorda sete del domani, l’arida fermezza la paura, la stupita illusione la speranza.
Dnepropetrovsk, stazione
A volte mi siedo nella piazza, in ombra, e guardo le nubi vagare sulla stazione, in silenzio : gigantesche, bianche, quasi certe di un approdo, una meta, dopo il cieco viaggiare ; ruotano, lentissime, sopra le torri grigie, sopra le grandi lettere candide, l’attesa infinita della piazza, che tace le sue direzioni, e non promette, neppure il domani, la sera, soltanto s’inclina, verso la nera schiena dell’eroe, sospeso in un gesto d’annuncio, ma già fermato dalle cose, prima del decidere fatale : ora, e per sempre, vacilla, non vede più il vivere inquieto, l’avanzare della stazione incontro al futuro, soltanto promette, senza fine, ad un incrocio, a colorate insegne, a binari del tram, ad un limbo vuoto che già non è piazza, e ancora non è viale, dove tutto è già in fuga, e non vede, e dimentica.
Il pomeriggio, deserto, m’assiste, già l’estate dispiega le sue corazzate di luce, mi raggiunge, nel respiro, con la sua lama d’incendio, mi dissolve la camicia sulla pelle, popola di polvere la gola, disperde i miei averi nella sete, semina il silenzio tra gli asfalti, confina per l’ombra gli ubriachi, le spazzine, gli eroi della guerra patriottica, i tassisti, l’intera legione dell’attesa, sospinta qui, come da un’onda, che agiti sul lido resti di bufere. Forse, le lancette del quadrante, sole, trascinano il tempo neghittoso, un alito serale s’affaccia malcerto dai binari, e già dirada la pattuglia del vuoto e della sete, migliori fortune potrà la solitudine, la notte, la quiete d’altre ore senza fondo.
Mi alzo, muovo impercettibili aliti di polvere, nel torrido cratere della piazza, inclino adagio i miei vestiti ad altro vuoto, e sento, un sottilissimo spezzarsi nella sera, un moto circolare delle cose intorno a me, un fuggire irreparabile del giorno fra gli istanti, come se l’attesa indomabile di tutto, la sosta misteriosa del tempo e del silenzio, cedessero di colpo, ad un segreto scatto, al transito invisibile, muovessero di nuovo gli ingranaggi della pena, lanciassero le ore il buio alla rincorsa, d’ogni attimo sospeso nel destino.
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mhm….
a dopo….
Bell’esempio di mimetismo linguistico (l’Armenia è vicina). Perché non linkate qui le puntate precedenti? e soprattutto, perché non togliete i commenti deficienti? v.s.
Perché cancellarlo, non sappiamo cosa si cela nelle profondità del mugugno.
Colleoni ha ragione.
Dovreste cancellare tutti i commenti di Chapuce (e la selva dei suoi eteronimi), così come quelli di Colleoni (e la selva dei suoi eteronimi) e avreste bonificato per sempre lo spazio commenti.
da questa prosa poetica emerge una vena malinconica, mi ricorda il pessimismo di Pessoa, reso leggero dal tocco di dita, da un transito invisibile…
ciao Giovanni
C.
@Pinto
non era un mugugno
bensì un mugolio estatico
@Stern
fans are fun
:-)
a fra pueco…
mi piace molto questo linguaggio.
ora non ho tempo, copincollo da db
Reister, in veste di gestore del lit-blog NI ha scritto nella bacheca di marzo: *i commentatori di NI sono 100, ci sono altri 200 lettori che leggono i commenti, e i restanti 5.000 lettori regolari ignorano semplicemente i commenti.* Ciò significa che i frequentatori dei commenti sono il 3% dei frequentatori di NI. Se poi si considera che la maggioranza dei commenti è del tenore di questi sopra, la domanda sorge spontanea: perché NI non si trasforma in sito (tipo Il Primo Amore), con uno scambio coi lettori più sano, i.e. via e-mail?
qualcuno ha qualcosa per i calli?
Ecco, appunto. Iniziate a cancellare queste replicle clonate, bonificate l’ambiente… l’aria sarà davvero più respirabile e leggere i commenti più piacevole.
Tra tanti commenti deficienti (di soggetto, verbo, predicato), l’unico compiuto, sensato e IT è finora il mio: *Bell’esempio di mimetismo linguistico (l’Armenia è vicina).*, dove il riferimento è al Viaggio di Mandel’stam (con complimento indiretto).
mi suonano come parole belle e spospese.
alè catelli.
con una sosta delle cose, intorno ad esso, l’illusione di un guasto nel tempo (…) [G. Bufalino]
sempre grandi città le tue…
ringrazio le gentili lettrici.
il titolo esatto del primo testo, forse scomparso, è Verso Chernobyl
“Meglio se le gazzarre degli uccelli si spengono inghiottite dall’azzurro: più chiaro si ascolta il susurro dei rari amici nell’aria che quasi non si muove, e i sensi di quest’odore che non sa staccarsi da terra e piove in petto una dolcezza inquieta.”
Grazie Giovanni.
“Meglio se le gazzarre degli uccelli si spengono inghiottite dall’azzurro: più chiaro si ascolta il suzzurro”, e non *susurro*: un po’ di rispetto per il compagno Pascoli, compagni!