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El boligrafo boliviano 14

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di Silvio Mignano

13 ottobre 2007

Sono tornato a Copacabana.
La prima cosa che ho fatto è stato girare come niente fosse tra le bancarelle dei fiori e delle statue della Vergine, guardando di sottecchi oltre la cortina di oggetti e colori. No, la lettrice di Proust non c’era. Ho sperato che fosse a scuola, ma no, era sabato. Ho sperato che stesse a casa a riposarsi dopo aver passato con successo l’esame, o forse lo stava ancora preparando. Certo, le scuole finiscono tra un paio di mesi, deve essere immersa nei libri, ripetendo affannata le lezioni, immaginando le domande che le faranno come abbiamo fatto tutti prima di lei, decennio dopo decennio, a ogni latitudine. Chissà i suoi insegnanti come avranno accolto la sua scelta di Proust come esempio di innovatore dell’umanità. Perché non Isacco Newton, Galileo Galilei o Alessandro Volta, avranno pensato.

Siamo venuti qui per chall’are la nostra macchina. Il rito è complesso e non si può trascurare nessuno dei dettagli previsti dal protocollo. Mettiamo la grande Ford in coda; siamo arrivati presto e ci tocca quasi il posto in prima fila. Accanto a noi un furgoncino vecchio, con la vernice bianca che si stacca – si direbbe – sugli orli, accanto ai cardini delle portiere, intorno alla guarnizione di gomma nera, lungo la curva del parafango. Il proprietario gli dà una pacca sul dorso, come fosse un mulo antico ma ancora degno di affetto e attenzione, e lo premia con una doppia serie di corone di fiori.
Anche noi facciamo lo stesso. Chiedo alle donne delle bancarelle quali debbano essere gli ornamenti giusti, non sia mai la Ford si offendesse e decidesse di piantarci in asso sul più bello o sul più brutto, mentre percorriamo lo stretto cornicione di una strada che scende giù a valle, o scivoliamo come pattinatori sulle lastre a specchio di un deserto di sale. Compra queste, señor, mi dicono, e sciorinano ghirlande multicolori, corolle a campana con i pistilli eretti, petali sanguigni o delicati, quasi trasparenti, come ali di un lepidottero che si ha paura di tenere tra i polpastrelli. Si girano tutte verso di me, le venditrici, e io, smarrito, non faccio in tempo a dire di no, non faccio quei due passi indietro che preludono alla fuga – ma non è più tempo di fuggire, mi dico, e raccolgo bracciate floreali e festoni di carta come un sarchiatore nei vecchi manifesti delle campagne autarchiche.
Cominciamo a sistemarli torno torno il parabrezza, sul muso ancora caldo del motore, sulla calandra argentata. Non basta, naturalmente: ci vogliono i petardi, la famiglia che ci precede li sta facendo esplodere sul cofano di un minibus, i bambini saltano di qua e di là ridendo, uno si infila quasi sotto la nostra macchina, fingendo uno spavento che non può trovare cittadinanza nei suoi occhi spalancati, allagati di allegria liquida. Bene, torno alle bancarelle e le signore mi sorridono, hanno un modo tutto loro di avvolgerti nelle spire della vendita, non urlano, non ti sommergono di proposte e offerte, non ti tirano la manica della giacca né ti palpano le spalle, non ti spingono né ti strattonano. No, loro ti guardano fisse negli occhi, il sorriso, quel sorriso a labbra stirate, un po’ storte, una specie di burla affettuosa, vediamo un po’ adesso, joven, vediamo che cosa hai in mente, di che cosa hai bisogno perché la tua anima non sbandi né il tuo corpo si perda nell’altipiano alla mercé degli spazi desolati.
È così che i kallawalla, i curanderos miracolosi della tradizione quechua, addomesticano le malattie, ipnotizzano l’infermo convincendo le une a uscire dal corpo dell’altro, sollevandoti da terra e costringendoti a rimetterti in cammino. È così che partivano con la sacca in spalla, l’aguayo multicolore al collo, e risalivano le Ande fino a Panama e oltre, portando in giro le boccette di creta piene di unguenti, le foglie di piante amazzoniche, i ciottoli che sembrano ossa o gli ossi che rotolano come pietruzze, il suono del flauto e il sorriso delle venditrici, lo stesso che permette loro di riempirmi le mani di bastoncini ripieni di polvere pirica senza che io riesca a oppormi, né a dir loro che sono troppi, non ne ho mica bisogno di così tanti.
Va bene, adesso tocca procurarsi lo spumante, o la champaña, come qui la chiamano pomposamente. Un vinello leggero, quasi una gazzosa sbiadita, ma tanto che importa, serve solo a chall’ar, a benedire il bove meccanico – anzi, è l’ingrediente indispensabile. Per quello che costa, due euro a bottiglia, decidiamo di scialare e di comprarne un bel po’. Non può proprio lamentarsi, la nostra Ford.
E naturalmente il sacerdote. Andiamo a chiamare il parroco del Santuario della Vergine Morena di Copacabana, ma ci ha già pensato qualcuno dei tanti che adesso sono in fila dietro di noi, attorno a noi, camion giganteschi, pullman a due piani, microbus, fuoristrada, berline goffe e bitorzolute. Il prete ci sta già venendo incontro, arriva di corsa reggendosi il bordo della sottana con una mano, e a me ricorda un vecchio fotogramma di Fernandel.
I rito è un altro omaggio al sincretismo, dopo i tanti che ho visto a Cuba e in Africa: l’acqua benedetta segna una serie di croci sulla carrozzeria, mentre dai gruppi in attesa salgono novene andine ad accompagnarci. E subito dopo i colpi a ripetizione della nostra esagerata batteria di petardi. Il fumo avvolge la macchina come vapore denso, nascondendola per un attimo allo sguardo, finché riemerge il caleidoscopio di colori forti dei fiori e delle ghirlande di cartapesta. E lo spumante scorre copioso sul metallo e sui vetri, perché la cerimonia possa dirsi davvero conclusa: con l’epilogo dei bicchierini di carta e il poscritto dei pochi sorsi dai quali non possiamo esimerci. La cosa più bella è passarli ai vicini, a quelli che aspettano il loro turno o a chi sta semplicemente curiosando e accompagnandoci con il cuore. Decidiamo di comprare una cassa di birra e di farla girare tra i presenti, per siglare un muto patto di amicizia, tra gente che forse non si incontrerà mai più, pronta a mettere in moto e schizzare verso le piste dell’altopiano.

(Due giorni dopo sono a Roma e salgo sul taxi all’uscita dall’aeroporto. Man mano che ci avviciniamo a Prati l’autista si smarrisce, si ferma due o tre volte per controllare il navigatore, si volta verso di me e si scusa gentilmente: sa, sono nuovo, sono pochi giorni che faccio questo lavoro. Forse si rende conto del mio stupore, visto che l’uomo deve avere i suoi buoni sessant’anni, e allora aggiunge, a mo’ di giustificazione: ho appena cambiato, prima facevo il rappresentante di commercio, ma lei sa, la crisi, alla fine ho deciso di provare con quest’altro mestiere, ma è dura, è dura, alla mia età verrebbe voglia di piantare tutto, lo sa dov’è che vorrei andare? Lo sa quel lago, il più alto del mondo, quello che studiavamo a scuola, immagino anche ai suoi tempi? Come si chiama? Il Titicaca, già, bravo, il Titicaca. Io darei qualsiasi cosa per andare a vivere laggiù, o lassù, faccia lei).

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6 Commenti

  1. Bentornato! :-)
    quel biano luminoso induce una calma preziosa, di altri luoghi, quasi di sogno…

    che bello leggerti e viaggiare così seguendo la tua penna che sinuosa descrive, dispiega, accende, atmosfere festive e gioiose, d’altri tempi, perchè il tempo è come se laggiù si conservasse, nella sua sacralità così intoccabile, alta….e quei fiori, – corolle a campana con i pistilli eretti, petali sanguigni o delicati, quasi trasparenti, come ali di un lepidottero che si ha paura di tenere tra i polpastrelli –
    che descrizione meravigliosa…

    Lo sai dove vorrei andare io…?
    Sulla cima detta “l’isola del sole”…

    Grazie per le emozioni, visive e percettive…
    Chapuce

  2. Una volta si usava anche in Italia portare a benedire la macchina dal prete. Ma la cerimonia era molto più breve e noiosa, quasi un obbligo da sbrigare per mostrare di essere buoni cristiani.

  3. Bello! Ho apprezzato molto la lettura, al prossimo viaggio allora, magari ci porti su quel lago.
    Guido

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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