Delle spietate purezze
La materia del dire
su Spietate purezze di Cesare Cuscianna (commentario)
di
Lucio Saviani
ma la vera materia duole
e non sa dire
Quello che chiamano realtà
altro non è che il pallore dei fatti,
la loro patina insapore
solo quando la luce tace
viene il mostrarsi delle cose
tiepido effondersi tra le vite
contro l’azoto e i metalli del giorno
Esiste un versante notturno della parola; la regione buia, silenziosa, dai bordi vacillanti, incerti come il debole appartenersi della piccola fiamma e del suo cuore, oscuro e intangibile.
Questo versante nell’opera poetica è – nel suo senso più profondo – inquieto. E’ all’opera, scorre, pulsa, emerge, sprofonda e, lasciando emergere la parola, la pronuncia e passa sotto silenzio.
Il profilo notturno della parola appartiene all’ordine diurno dei significati, delle cose visibili e certe, ma alla luce dii quest’ordine non si epone. La ‘notte’ della parola è toccata dai bagliori di senso, dalle visioni oscure del sogno, più che dal calmo accondiscendere della memoria a quanto accaduto alla luce del sole.
Proprio come la fiamma inquieta intorno al profilo indistinto del suo centro opaco ma intangibile – pena la luce e la vita stessa della fiamma – intorno al cuore notturno della parola si addensano la chiarezza dei significati, dei nomi, e l’abbagliante prova dei fatti – la realtà delle cose
Inoltrarsi a passo incerto, tentando di penetrare con lo sguardo le tenebre di questa notte è come cercare di attingere a quel silenzio intorno al quale ogni discorso si rischiara e si dispone.
Talora la parola poetica scopre questo silenzio ma, a custodirlo, lo avvicina e lo lascia emergere proprio sprofondando in esso: “la solemnité de la nuit, comme un fleuve”, come confessa Baudelaire.
Da questo silenzio la parola poetica è circoscritta e attraversata. Essa tende verso il silenzio da cui sorge; un silenzio doppio, di origine e destino, di annuncio e di ritorno.
Proprio in questo suo sottrarsi, il versante notturno della parola si inscrive nel linguaggio e, lasciando il suo segno, riesce a dire in profondità.
Nei suoi Saggi eretici, usciti clandestini a Praga, Jan Patocka scorgeva gli sciagurati tratti di decadenza del mondo moderno nell’abbagliante volontà di dominio di un “pensiero diurno”: volontà di dare nomi, calcolare, prevedere e chiarire fatti, separando con folle metodo l’abbaglio delle certezze dalle profondità del buio.
Cesare Cuscianna condivide e accoglie l’invito di Patocka ad allungare lo sguardo, quasi chiudendo gli occhi, fino alle soglie di quell’oscurità, a scorgere l’appartenere della luce alla tenebra.
Nelle parole di Patocka, la Notte è “l’apertura verso ciò che fa vacillare” il suo invito è ad aprirsi all’esperienza della perdita del senso, al lampo di tenebra di un vuoto che si apre e in cui precipita il pieno del senso; l’ oscura “fonte dei nomi”, diceva Heidegger: “il complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buo insieme all’io, che porta all’estremo lembo della propria terra”.
Luce e oscurità, silenzio e parola, vuoto e pieno. Quando la parola poetica lascia avvicinare la propria ‘notte’, fa intravedere le cose e il destino che le stringe ai loro nomi, in un senso che fa vacillare e che, di nuovo, ritorna a passare sotto silenzio.
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Rubavamo il furore votato altrimenti
noi eravamo concordanze cupe
ed altere
ma eravamo noi,
spietate purezze.
Dal nostro apprendere fuggiasco di brividi
mentre tutto diventa parola
ed epigrafe
il ricordo è svanito.
Un tempo la “pietanza” era il nome del cibo che veniva offerto ai poveri. La parola, così come il gesto, prendeva origine dalla pietà.
La pietà, come parola e come gesto, è un nome proprio del sentire, prima che un atto del pensiero. E’ soffrire la sofferenza e l’infelicità dell’altro, insieme all’altro
Pensare la pietà è pensare, senza scampo, all’essere insieme, tra le cose e con gli altri, nel mondo. E’ pensare l’ineludibilità di un rapporto con se stessi e con gli altri.
Proprio in forza di questo suo ineludibile senso, la pietà è anche il nome di un sentimento di rispetto, di un senso dell’appartenenza E dell’appartenenersi. Nella teologia morale, la pietà è un versante della giustizia: il rispetto che si deve ai congiunti per sangue o per matrimonio.
Un rispetto verso la famiglia, le consuetudini, le leggi, i doveri propri; la cura per le tracce di chi ci ha preceduto, laciato, amato.
La “pietas” dei latini era l’atteggiamento delle persone pie, rispettose – prima ancora che degli dei – dei vincoli di parentela – prima di tutti, tra genitori e figli. Questo vincolo era sentito come relazione originaria. Fondata su tale vincolo, la pietas era vissuta come religio naturale, senso di appartenenza al mondo.
L’idea stessa di mondo è pensata in una relazione, a sua volta originaria, con l’idea di purezza. Il “mundus” è il purificato. Esso nasce da un’idea di riduzione, di semplificazione e purificazione da anomalie e da disordine. Per i pitagorici, che della purificazione non indicarono il solo pensiero, il mondo era già stato “kosmos”, universo ordinato e armonico.
La purezza, così come è pensata nel mondo dei significati quotidiani (e diurni) è di ciò che non è unito ad altro che ne possa alterare la qualità – come per l’acqua, da cui tutto viene – oppure di ciò che è libero da impurità – come per l’aria che respiriamo Così, se non subisce alcuna contaminazione, è considerato puro anche uno stle, o una lingua. La poesia stessa è detta pura quando si pensa svincolata da ogni aderenza al reale; anche qui, un’idea di riduzione: ‘unicamente’ e ‘solamente’ poesia. E’ quanto, a sua volta, la filosofia pensa dii una sostanza pura: ciò che non contiene in sé nulla di estraneo alla propria natura. Così accade talora alla verità stessa, di essere pura e ancor più evidente se anche “semplice”.
Semplice come chi è considerato innocente, onesto e leale, o dal cuore puro; dunque fedele, in cui si può confidare, aver fiducia.
Intanto, sappiamo che si può rendere semplice una persona purificandola, rendendola pura, con atti rituali; in modo da renderla degna di entrare in contatto con ciò che è sacro. Nei riti di purificazione l’idea di impurità viene oggettivata in tanti modi; ma nel rito della confessione l’oggettivazione della memoria avviene mediante la parola che nomina il peccato: la parola pronunciata è come eliminata dalla persona che la pronuncia, e con la parola sono eliminati l’impurità e il peccato designato dal nome.
“La poesia nomina ciò che è innominabile, dà nome a ciò che altrimenti resterebbe senza nome. Ma quel nome non è il vero nome. La verità dei poeti è una verità ambigua, una verità che vorrebbe essere sempre qualche altra cosa”.
Cesare Cuscianna ama ricordare la “Nominazione” di Mario Luzi e l'”Ospitalità” di MIlosz:
Non detto. Non detto
e non dicibile. Giocava
esso a nascondersi
dai nomi. Andava
e veniva tra le nubi
della nostra conoscenza,
indenne
sgusciava dalle reti
calate dagli scribi…
Non era
lui fedele alla sostanza
nè alla sua trasformazione
e forse per questo era lo spirito
– questo, di questa nostra epoca
o l’unico? – comunque era lo spirito
non raggiunto dalla parola,
non fucilato dal vocabolo.
Nei versi di Cesare Cuscianna i nomi di due esperienze, colte insieme nel loro lacerante rapporto e nella loro ineludibile, originaria familiarità con la poesia, riescono a farci scorgere, grazie alla parola poetica, il loro versante notturno. Da questa loro ‘notte’ emerge un senso dell’identità, per alcuni versi, ospitalità e accoglienza dell’altro e, per altri versi, come percorso, via, viaggio verso se stesso in cui non c’è cammino, dove il percorso è tracciato dai propri passi. Non c’è intercessione.
E’ un cammino dove non c’è più modo di inter-cedere, di fare un passo ‘tra’ due realtà, verso una purezza o mossi dalla sofferenza. Si tratta piuttosto, di nuovo, di una “apertura vero ciò che fa vacillare”. Ma tale apertura è anche l’inaggirabile versante notturno della poesia stessa. E’ lo spazio aperto dall’orizzonte del senso che, ad ogni passo, porta all'”estremo lembo della propria terra”.
Grazie a questi passi, infine, riesce ogni tanto a risuonare, sotto la “propria terra” la cavità oscura del mondo nascosto della scrittura che commente, del “commentario” che, nella lingua dei ipoeti compagni di strada di Cuscianna della “nuit” di Baudelaire, dell'”étran-je” di Jabès e della “recerche” di Proust suona “come tacere”.
I commenti a questo post sono chiusi
Bellissimo il libro di Cuscianna, altrettanto bella e profonda la lettura critica di Saviani.
fm
La notte, nel suo nocciolo ebano, è questo spazio di creazione.
La solitudine è anche la piccola fiamma divorante che tiene sveglio.
Immagino la fiamma che si perde nella notte per raggiungere altra fiamma, di un altro che non duerme.
Immagino la piccola stella che va di un pensiero a un altro pensiero.
Penso nella notte ai bambini che dormono nel sonno chiuso, alle coppie che dormono e condividono o no il giardino notturno, mano nella mano.
Penso al bebè che nasce nella notte e apre gli occhi nella luce artificiale, aspettanto la prima mattina,
Penso all’uomo che aspetta l’alba nella solitudine, come Marcel Proust cercando la respirazione.
Nella scrittura è il versante notturno del cuore, il tuo, il mio;
la risacca scura dell’anima.