Anteprima Sud n°11- crocevia
foto di Emiliano Bartolucci
Siamo strade
di
Davide Vargas
Agli occhi umidi degli uccelli, occhi speciali che possiedono coni che più degli uomini sanno distinguere i colori, a quegli occhi larghi che sanno riconoscere persino tra i vapori che salgono dalla terra i colori dei sogni degli uomini che il sole ha seccato lasciando loro soltanto il respiro pesante, vapori che vanno a ingrossare le nuvole nel cielo lontanissime dalla terra, agli occhi di uccelli migratori che hanno preso il volo da piste inospitali per una navigazione verso sponde mai viste, a quegli occhi che seguono le nuvole gonfiarsi come una pasta appetitosa e poi si rivolgono verso i territori che stanno lasciando, a loro appaiono sottili spaccature nella terra tracciate con il filo a piombo.
A quegli occhi schierati in parata che inseguono il presagio di luoghi leggeri e caldi appaiono tra le fenditure di sotto i miraggi dei colori rosati della sabbia.
Invece siamo strade. Grigie strade.
Ci allunghiamo tra case, ci incrociamo ad angolo retto, ci ripetiamo in una scacchiera poggiata sulla campagna come una tovaglia da picnic.
Non siamo strade per il viaggio. Non andiamo da nessuna parte.
Tu ci vedi oggi in questa mattina di fine anno, con l’aria che il gelo ha scolorito calarsi tra i cornicioni e spinta da un vento di traverso avvolgere le nere impalcature degli alberi superstiti fino a spezzettarsi tra gli infiniti rami come pezzetti di carta. E poi bagnare la nostra pelle scabrosa.
Tu qui puoi solo girovagare.
Ma noi abbiamo visto crescere sui nostri fianchi le case. Una dopo l’altra come in una storia a puntate occupare i lotti quadrati immergendo nel suolo le punte cementizie delle proprie radici con la forza del tuono quando rompe il silenzio, e spazzare via i peschi viola fino a sollevarsi nel vuoto come un iceberg capovolto.
Abbiamo visto noi stesse avanzare metro dopo metro come una faina acquattata al suolo e divorare i colori dei cavoli e gli spruzzi dorati dei fiori di zucchine.
Il nostro dorso sassoso e inzaccherato si è ricoperto pezzo dopo pezzo di una pelle nera. Abbiamo sentito il raschio della tavola di legno che distendeva il pigmento fumante e il peso del rullo di ferro, tra la soddisfazione degli uomini fermi a guardare.
E poi quegli stessi uomini hanno tagliato la nostra pelle e ricucita.
Ci siamo avvicinati sempre più alla città schierata come una famiglia trepidante sull’uscio e rassegnata all’invasione. Incuranti siamo andate avanti. Come pezzi di ferro incandescenti ci siamo infine saldati.
Abbiamo visto lo spazio finire.
Tu pensi a una fondazione, un disegno, una sapienza, qualcosa che contenga una coerenza. Non è così. Roba da poveri. Altri tempi quando gli uomini smazzavano per costruire soltanto la casa e l’uomo incurvato con la falda del cappello piegata sulla fronte, la barba tante linee nere come parole su un foglio di giornale – hanno ammazzato il giovane presidente americano si leggeva sul giornale che avvolgeva il pane imbottito di peperoni succosi – l’uomo posava in terra la cardarella vuota e col dorso della mano sollevava di un’ombra il cappello per togliere via la crosta di sudore e polvere. Sui basoli della strada i cerchi ferrati dei carrettoni martellavano come su un incudine, la bestia tra le sponde di legno perdeva fieno. Nel vicolo davanti alla bottega del pane le mosche sbattevano impotenti sui fili di plastica della tendina di mille colori.
Roba da poveri, i due giovani, lui ha la testa ricciuta e lei due occhi grandi, seduti sotto il fico guardano soddisfatti la cucina dove mangeranno e il resto della casa. Lì mettiamo la televisione.
Decisamente roba da poveri. Intonaco e basta.
Vedi là il tempio. La sua irritante parodia. Le gru appostate proprio qui hanno posato sul fronte colonne cave e poi pompe gocciolanti hanno versato cemento. E sopra timpani improbabili.
Abbiamo visto piantare palme dal tronco di sfoglie dove una volta c’erano le nespole.
Tu sai che sotto la punta di un iceberg affondate nei freddi mari galleggiano nascoste masse di ghiaccio profonde centinaia di metri. Una specie di intimità nascosta. Come un uomo che custodisca le proprie riserve. La sua cantina inaccessibile. Lo sai che ci sono cose che gli uomini vogliono per forza tenere solo per sé e non spiattellarle davanti a tutti. Come fanno questi stucchi, colonnine, capitelli, losanghe di pietra e quant’altro ciarpame. E sono pure false. Come puttane in una città di mare. Il tempio. Non sanno cosa è il tempio, cosa custodisce come uno scrigno silenzioso. Senza insuperbirsi mai della sua grandezza. Qui la protervia della finzione esce allo scoperto come verità di una condizione. Che non c’è. Veramente non c’è se non nel riflesso della televisione. Credono questi uomini senza pensiero di personalizzare il viso della propria dimora, ignari di essere avvolti nella massa come in un mantello. Tenuti lì come in un barattolo.
Così diverse, sono tutte uguali queste case.
Tu non lo sai, ma si udivano tra i cantieri recintati dalle lamiere ricoperte di manifesti, avvisi alla città e offerte del supermercato, le voci di uomini col dorso brunito dal sole mentre piantavano picchetti, salivano su ponteggi malfermi, piegavano ferri e gettavano cemento.
E su esse altre voci più roche dare ordini e poi mostrare a mogli ruffiane e bambini distratti dallo squillo del cellulare la casa che avrebbero abitato.
E poi abbiamo visto questi uomini scolorirsi e ritirarsi nei propri recinti come si ritira la luce alla fine del giorno dai cavalcavia anneriti dalla sera, dalle fabbriche chiuse, dagli alberi spogli. Rimanere racchiusi in una bolla remota, un sacco colmo di cianfrusaglie, lasciando a noi strade lo spettro di un paesaggio deserto. E dopo uscire racchiusi in automobili dai vetri scuri come palombari.
Vedi anche tu che sul nostro dorso passano ora soltanto automobili. Altre sono ferme sui bordi. Non ci sono bambini che giocano, non ci sono giovani che tornano a piedi in casa. Vedi anche tu questa patina straniante che si stende intorno come un’irrealtà rarefatta. E vedi anche tu che quando una figura umana appare, quasi un’incongruenza nel disegno, porta sul viso il sorriso di un defunto. Lo vedi tu e nessun altro, dissimulato com’è tra gli abiti alla moda.
Vedo.
E mentre vado verso uno sbocco, oltre lo stop e oltre la strada grande che mi porterà fuori di qui, due uomini ravvolti in giubbe imbottite schizzate di cemento stanno legando pannelli di lamiera alla rete che richiude un altro grande pezzo di campagna dove rare foglie colore del miele resistono sfibrate al vento attaccate ai rami degli ultimi tigli.
Fanno un lavoro minuzioso piegati ad annodare il filo di ferro e a spezzare le cime con le tenaglie, hanno gomitoli di filo imprigionati in un nastro rosso e berretti di lana calati sulle orecchie.
Al centro un albero spoglio allunga il suo tronco divaricandosi una volta, e poi ancora in cento braccia. Le punte estreme ricadono sotto il peso dei mille rametti come braccia stanche. Ho la mia città già assediata alle spalle e davanti oltre la recinzione che si materializza, oltre la campagna, ancora il profilo delle prime case di un altro paesino, le parabole le canne fumarie i torrini delle scale.
Metto a fuoco e distinguo un’antica pietra miliare e proprio a partire da essa tra lembi di terra trascurata ormai dalle semine le orme dei vecchi tratturi che trattengono disperati la terra secca scrollata dai passi di tutti i contadini che li hanno attraversati prima di cedere battuti e condannati a ricoprirsi di una bava di asfalto.
Passerò di qui e troverò ogni cosa unita in un unico mortale amplesso.
Mentre invoco una moratoria, qualcosa che blocchi il manovratore, un pezzo di ferro maligno infilato nella rotella dell’ingranaggio, mentre immagino una delicata colata di bianco che ricopra ogni intemperanza, da un cancello esce a retromarcia veloce come un insetto una piccola macchina che mi crolla nel fianco.
Come uno schiaffo.
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Un testo poetico che crea immagine nella testa. Mi sembra che due testi diversi si uniscono in pieno cielo: il mondo degli ucelli e il mondo degli uomini. L’introduzione al volo migratorio è bello: negli occhi ucelli il mondo del cielo e della terra fanno nozze di colori e la magia della scrittura dà il suo volo.
Magnifico!
La foto in nero e bianco è ferita dal cartello, ma la sabbia nella sua fragilità lavora e fa sorgere la ferita segreta che l’uomo fa subire alla natura.
Perché non fare una presentazione di Sud in Francia? Cosi mi abbono direttamente e …. di preferenza un sabato o durante le vacanze: io so, sono difficile. Ma sembra un problema non essere parigina per ricevere la revue (formato è la spiegazione data).
Verò hai provato a chiamare lavieri?
guarda che sud viene spedita regolarmente all’estero
effeffe
Vorrei mandare valigia (mandat credo). Non so si è possibile all’estero.
Ho stampato il “formulaire” ( j’ai oublié le dictionnaire à la maison et je n’ai pas le mot) pour avoir toutes les références. Spero che basta per mandare la valigia. Tutto scritto in Italiano: sono sperduta.
Non ho l’abitudine di ordinare con internet.
Buona serata a te e buongiorno a Torino.