Tutti i colori del cielo

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di Giuseppe Rizzo

Qualcuno aveva una lampada ad olio. La spiaggia, non appena quello accese il lume, si riempì di ombre. Decine di fantasmi neri iniziarono a scontrarsi e maledirsi. Uno bestemmiava il cielo per tutto quel buio. Uno tirava pedate all’acqua del mare. Uno era inciampato e si era ricoperto di sabbia. La donna stava immobile con le gambe aperte. Il pancione brillava sotto la luce del lume. Fu al momento di rialzarsi che sentii per la prima volta la sua voce. Le tesi la mano, ma il gesto fu così goffo che attirammo l’attenzione di tutti. La donna all’in piedi era piccola e tonda. La pancia le si gonfiava da sotto le vesti e inchiodava lo sguardo di tutti alla sua rotondità. Qualcuno disse che non poteva venire con noi. «È pericoloso», mormorò, «per lei e per noi». È pericoloso, pensavo anch’io. Dopo che l’avevo aiutata ad alzarsi ero andato a raccogliere la mia roba e avevo sperato che si perdesse nella folla. Ma la folla aveva iniziato a rumoreggiare. «È pericoloso», dicevano. È pericoloso, dicevo anch’io. Lei stava zitta. Il mare rumoreggiava nella notte come un animale affamato.
Dovevamo aspettare ancora un’ora, ci avevano detto. Poi, saremmo partiti. La donna veniva con noi. Aveva pagato, e ne aveva il diritto. Io avevo sperato di non incrociarla più. Sentivo qualche voce lamentarsene ogni tanto. La donna trascinava con sé il codazzo delle voci contrarie alla sua partenza per ogni angolo della spiaggia in cui si spostava. Quando arrivò dalle mie parti, sentii qualcuno dire: «Non è un buon segno». Ma le voci che l’accompagnavano non la sfioravano neanche. Era arrivata da sola. Si spostava senza niente. Si muoveva senza pace, fino allo sfinimento.
A fatica, era arrivata accanto a me. Si era seduta, e dopo un paio di minuti in cui era sembrata addormentarsi, mi aveva domandato se per caso era arrivato qualcuno. Scossi la testa, ma non avevo voluto dire no, non è arrivato nessuno, avevo voluto dire no, non lo so. Si tranquillizzò comunque. Sembrò ricadere nel sonno. E forse fu nel sonno che mi parlò. Potevo andare su in strada a controllare che effettivamente nessuno stesse arrivando?
No, non potevo, che bisogno c’era? Non avevo voglia di muovermi. Avevo freddo, avevo paura e avevo fame. Non mi andava di lasciare quel posto sulla spiaggia o caricarmi la roba addosso e poi ritornare. Le prese lo sgomento. Iniziò a guardarsi attorno come se i nervi del collo le fossero impazziti. Cercava fra le ombre qualcosa che non riusciva a trovare. Mi decisi a fare quello che mi aveva chiesto per farla smettere. Feci un paio di volte il giro della spiaggia senza andare fin su alla strada. Decine di ombre nere si confondevano nella notte. Era la prima volta che vi facevo caso da quando avevo messo piede sulla sabbia: eravamo tantissimi e sconosciuti l’uno all’altro. Ognuno con la propria roba, seduto da solo oppure catturato da una febbre che gli impediva di stare fermo per due minuti nello stesso posto. In mezzo a quell’intrico di passi e pensieri, io avrei dovuto trovare qualcosa per conto di quella donna. Ma cosa avrei dovuto cercare? Non trovavo niente, però, tornai dicendole che non c’era nessuno.
Sul gommone avevo cercato uno spazio il più lontano possibile da lei. Ma dopo un po’ mi ritrovai a tenerle la testa tra le mani. Si era adagiata tra le mie gambe e aveva posato la testa sulle mie ginocchia. La situazione si era calmata. Gli altri sembravano averla dimenticata. Si erano zittiti, terrorizzati ora dal mare.
«Da dove vieni?», le chiesi.
«Da Adad», disse.
Non avevo mai sentito nominare quel posto. Io vengo da un villaggio vicino Baidoa, a un paio di giorni da Mogadiscio, e conosco solo questo villaggio. Quando mi avevano detto che era possibile partire, non conoscevo neanche il colore del mare. Chissà perché me l’ero immaginato del giallo del sole, e invece era nero e ghiacciato. Le chiesi se avesse freddo.
«No». Rispose con la testa.
In quel momento potei vederla in faccia perché era comparsa la luna. L’aveva rischiarata appena. Mostrava abbandono. Non aveva l’aria di una che stava bene. Ma nessuno di noi stava bene. Tutti avevamo freddo e paura. Avevamo fame. Il mare era nero e il gommone piccolo. Eravamo stipati l’uno accanto all’altro.
«Cosa facevi ad Adad», le chiesi.
«Badavo ai miei figli», disse.
E io l’immaginai madre di molti.
«Stavo a casa e badavo ai miei figli», ripeté. Come volendo dimostrare che era in pena per loro.
«Quanti ne hai?», le chiesi.
«Otto», disse, «due molto malate».
«Piccole?», domandai.
«Piccole», rispose.
Fui sorpreso, perché non pensavo che potesse avere tutti quei figli. Da quello che avevo potuto vedere, mi era sembrata molto giovane. Una bambina, quasi, lei stessa. Le cercai le mani per vedere se avevo ragione. Erano piccole mani tonde e lisce e morbide. Da bambina. Mi fermai ad accarezzarle. Anch’io avevo lasciato due bambine a casa. Sapevo che cosa voleva dire lasciare dei bambini a casa. Sapevo quanto valevano, i bambini e le case. Cercai di farglielo capire.
«Vedrai che se la caveranno», le dissi.
Ma stavo parlando con me stesso. Lei guardava oltre la mia spalla. Guardai anch’io il cielo. La luna se n’era andata un’altra volta e le stelle erano affogate nel buio. C’era solo il mare con noi, anche se tutti chiudevano gli occhi, cercando di dimenticarlo. Era il rumore del motore che ci ricordava di essere sopra un gommone.
«Hai paura del mare?», le chiesi.
«No», disse a bassa voce.
Io insistevo: «Di cosa hai paura allora?»
Era una domanda che avevo fatto a me stesso mille volte prima di partire. E me l’ero ripetuta sulla spiaggia, quando la donna mi aveva chiesto di controllare che non ci fosse nessuno che la stesse cercando, e io avevo incrociato lo sguardo dei fantasmi irrequieti in attesa di imbarcarsi.
«Di cosa hai paura, allora?», le chiesi un’altra volta.
«Di tutto», mi disse.
Cercai nell’acqua uno specchio per guardarmici, ma il mare era nero. Mi chiese se eravamo da soli in quel nero.
«Sì», dissi, ma era buio, non si vedeva niente.
«Sei sicuro?», chiese.
«No», risposi.
«Guarda di nuovo», disse.
Guardai e le dissi: «Non vedo niente».
Abbassò lo sguardo e sospirò: «Meno male».
«Perché?» dissi, «cosa ci dovrebbe essere, siamo soli, c’è il mare, non ti basta?»
Avevo perso la calma. Le stringevo le spalle. Pretendevo che mi dicesse da cosa stesse scappando.
« E perché?», chiedevo.
Ma non avevo risposte. Provai a dimenticarmi di lei e a chiudere gli occhi per un po’ di sonno. Mi svegliarono i suoi capelli lungo le mie braccia. Stava provando ad alzarsi ma qualcosa la inchiodò di nuovo al gommone. Cacciò un grido che quasi faceva cadere un paio di uomini in mare. Iniziò a urlare e a dimenarsi come un cane morso da uno scorpione. Le si erano rotte le acque. In quel preciso istante si mise a piovere. Una pioggia dapprima lenta e poi forte e poi infernale. Chi non aveva voluto che lei salisse sul gommone in quelle condizioni disse che era uno spirito maligno e che le cose sarebbero peggiorate se non avessimo fatto subito qualcosa. Due donne dissero che era meglio sbarazzarsi di lei, abbandonarla nel mare, buttarla giù dal gommone.
Intanto lei si era irrigidita e scalciava. Un lampo, che tagliò la notte in due come una lama, le illuminò metà della faccia piegata dal dolore. Con le mani aveva cercato due braccia a cui aggrapparsi. Io potevo sentirle le vene e i nervi del collo gonfiarsi fin quasi ad esplodere. Gli altri parlavano lingue che ora mi sembravano lontanissime, sconosciute. Capivo dai gesti che si stava decidendo di spingerla in acqua. I bambini, di cui non mi ero accorto fino a quel momento, iniziarono a piangere uno dopo l’altro. La pioggia impastava il loro strillare con le voci sempre più dure delle persone intenzionate a seppellire quell’incubo in mare. Un’ombra grave, che finora era rimasta in silenzio sulla punta del gommone, si alzò e si mosse verso la donna. Guardò me e poi lei e poi fece come per prenderla in braccio.
Ebbi paura. Ebbi paura che quell’ombra fosse stata mandata dal cielo per compiere il volere di tutti, anche il mio. C’è un detto che dice che ognuno di noi può svegliarsi anche all’alba, ma il destino lo precederà sempre e comunque di mezz’ora. Mezz’ora prima io avevo letto nel volto di quella donna il volto delle mie figlie, delle mie sorelle, di mia moglie, di mia madre, della madre di mia madre e di tutte le madri del mio villaggio. Perciò gridai a tutti di finirla. Mi alzai ed intimai all’uomo di allontanarsi.
Non so quanti minuti, o ore, o giorni, o mesi, o anni passarono fino a quando noi tutti sentimmo le urla del bambino che usciva dal ventre della donna. Fu come se si fosse compiuto un sacrificio benevolo, per cui tutti si calmarono. Una ragazza lo prese e lo avvolse in un panno pulito. Un uomo prese un po’ della sua acqua da bere, se la mise in bocca per riscaldarla e la versò sulla faccia del bambino per pulirlo dal sangue. Le grida della madre si quietarono quando un paio di forbici attaccate ad una mano sconosciuta tagliarono il cordone che la legava al figlio.
In tutto quel tempo mi ero dimenticato di avere la sua testa tra le mani. Era come se fossi sprofondato in un sonno pesante e senza sogni. Fu lei a svegliarmi. Mentre gli altri cercavano di coprire come meglio potevano il bambino, lei voltò la testa verso di me e disse:
«Promettimi che lo porti con te».
Sentii che lo scorpione che l’aveva tormentata fino a quel momento si era attaccato alla mia gola. Non sapevo cosa dirle.
«Perché?», le chiesi.
Non mi rispose. Non lo aveva mai fatto, eppure, a questo punto… Stava per chiudere gli occhi. Le strinsi una guancia, le afferrai il collo, le sollevai la testa, le chiesi:
«Da cosa scappi?»
E lei: «E tu?»
Furono le sue ultime parole. Poi chiuse gli occhi. Non volli dirlo subito agli altri. Ero convinto che se fossi riuscito a far passare la notte senza che se ne accorgessero, al mattino lei avrebbe riaperto le labbra e avrebbe respirato ancora. Ma quando si avvicinarono per darle in braccio il bambino se ne accorsero tutti. Ci fu di nuovo grande confusione: le madri iniziarono a tirarsi le vesti; i bambini cominciarono a gridare; gli uomini a chiedersi cosa fare. Questa volta però non c’era altro da fare. Ce l’avevano detto anche prima di partire. Se qualcuno non ce la fa, tiratelo giù, non potete arrivare in Sicilia con i morti appresso.
E così la girammo sul lato e la rotolammo fuori dal gommone. Scomparve lentamente, accompagnata dalle prime luci dell’alba. Il cielo si imperlò delle ultime gocce di pioggia e la luce del nuovo giorno vi disegnò un arco di colori incandescenti. A questo, e al fatto che una madre non dimentica mai il senso e i colori del cielo, il piccolo deve il suo nome: Jaha, che in Swahili significa Cielo, ma anche Paradiso.

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7 Commenti

  1. molto bello, ottima lettura per stamattina. (Gianni, mi sono permesso di correggere un refuso, Swhaili–>Swahili). A.

  2. In un blog ove si è criticata con nonchalance la prosa di Gadda e di Arbasino, si potrà sostenere che questo racconto è scialbo, noioso e mal scritto?

  3. Ot per niky: ma perchè, ad onta di e nonostante vita vissuta e saggetti postumi e un pochino autoreferenziali, s’insiste sempre nel metterli insieme, lo zio e il nipotino autoproclamantesi? lismo, un fulmine ti raggiunga!

  4. Al Mirabello di Reggio Emilia quando, prima della partita, si dava il nome dell’arbitro, chiunque egli fosse, si gridava: “che t’vegna un cancher!”, come benvenuto

  5. La crocifissione del nostro tempo
    Madre, perchè m’abbandoni alle carezze di questo sconosciuto padre putativo?
    Non lasciarmi!
    Donami l’ultimo tuo anelito di vita e una carezza, mi mancherai per sempre:vagherò per le strade dell’esistenza a cercare i tuoi occhi.
    Resisti madre, respira più forte.
    Le parole di Jaha suscitarono un fremito alle tempie della Madonna, una linea di sangue le trapassò il cervello, il cuore le s’inceppò dopo aver versato l’ultima lacrima di sua vita.
    Madre, perchè m’hai abbandonato?
    Perchè questi sconosciuti compagni di viaggio recidono il cordone che ci lega?
    Madre, io sono nato col destino segnato, sono nato all’alba, ma il destino m’ha preceduto d’una vita intera:un’altra vita, quella in cui io, tu, questi fantasmi disperati di fame e famelici di sogni avrebbero potuto scegliere.
    Ma noi….madre non abbiamo scelta.
    Tu sei madre e io tuo figlio crocifisso dal tempo, il tempo eterno, in cui gli uomini sono sempre andati per mare a scontare il peccato eterno:la sopravvivenza e la felicità.
    Non temere madre, non avrai più paura di tutto quando ci rincontreremo.
    Io mi chiamo cielo, ma anche paradiso, nel mio nome è scritto che, abbracciandoci, il giorno in cui nuoteremo nell’aria, sfioreremo tutti i colori del cielo: il mio nome è Jaha.
    Enzo Fragapane

  6. Non capisco cosa possa entrarci qui una discussione su Gadda e Arbassino. Si capisce che siamo su due mondi diversi, anzi su due sistemi solari diversi. A me, ad esempio non è mai piaciuto Arbassino, ma non lo metto stesso sullo stesso piano di chi fa una ricerca diversa: potrebbe mai paragonarsi con Carver? Arbassino non saprebbe mai scrivere una storia come questa qua; e se volete posso essere anche cattiva: Non la saprebbe scrivere perché sa parlare solo di pettegolezzi

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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