Un requiem per Misia
Misia, μισέω, miserere. Così suona nella mia mente un requiem per la donna che fu Misia Sert. Nacque Godebska il 30 marzo del 1872 mentre sua madre moriva nel darla alla luce. In questo evento Misia fonda il suo destino: nata dal dolore di sua madre che, malgrado il ventre gravato oltre l’ottavo mese, viaggiò un intero viaggio dalla Francia alla Russia, perché non poteva credere alle parole di un’anonima e rozza scrittura che le annunciava l’infedeltà dell’amato consorte, grave e altrettanto gravida di umane conseguenze; usata e umiliata dalle molte matrigne amate dal padre, ribelle alla paura e ai soprusi e perennemente in fuga; innamorata e venduta dal suo primo al suo secondo marito, amò solo il terzo e lo lasciò libero di andar via quando questi s’innamorò a sua volta di un’altra donna, che Misia accolse come una figlia. Rispetto chiese sempre per sé e per chi amava, rivendicando ogni ora la libertà di scegliere la propria via. Nelle sue vene scorreva sangue polacco e belga e russo e francese. Artista figlia di artisti, fu il cuore dei salotti d’avanguardia parigini. Scrisse con la leggerezza di una farfalla tutte le note bianche fra quelle nere della sua vita. Leggetene il ritratto a carattere che ne fece Jean Cocteau e ammiratene tutta la forza che non è più.
Sul ricordo di Misia oggi io canto un requiem per il cerimoniale dell’otto marzo e per tutte le donne che non hanno più fame di libertà e di rispetto.
«Bisognerebbe lodare un po’ quelle donne ardenti e profonde che vivono all’ombra degli uomini di un’epoca e che, ai margini del lavoro degli artisti, per il semplice fatto di sprigionare onde più belle di preziose collane perseguono un’opera occulta. È impossibile immaginare l’oro dei soffitti di J. M. Sert, l’universo soleggiato di Renoir, di Bonnard, di Vuillard, di Roussel, di Debussy, di Ravel, i proiettori profetici di Lautrec, il prisma di Mallarmé, perfino gli ultimi giochi di sole al tramonto di Verlaine e l’alba radiosa di Stravinsky, senza veder spuntare la sagoma di giovane tigre infiocchettata, il viso dolce e crudele di gatta rosa che vedemmo in Misia la sera in cui la conoscemmo sotto l’aigrette della Schéhérazade, troneggiante al centro del palco reale del Balletto russo, mentre popolava del suo fluido le scene del teatro e le danze violente, come un tempo i giardini impressionisti, cosparsi di pagliuzze di sole. Sì, nel sacco di pelliccia e di seta in cui Paul Poiret e Paul Iribe imbacuccavano le loro sultane, madrina della lieve compagnia di Serge Diaghilev, conoscemmo la nostra amica. Sul suo ventaglio c’era la celebre quartina di Mallarmé, e credo proprio che di tutti i suoi contratti di matrimonio, di tutti i suoi permessi di soggiorno quello fosse l’unico documento d’identità che questa polacca ha salvato da un mirabile disordine in cui sono sparite delle fortune, dei madrigali di P. J. Toulet e di Paul Verlaine.
«Tra brevi soste in appartamenti che lei adorna e lascia come posatoi, Madame Sert abita all’ultimo piano dell’Hôtel Meurice. Quando divenni suo amico aveva appena lasciato l’albergo per una specie di abbaino in quai Voltaire. Il salotto era illuminato a nord – in verde – dalla Senna, a sud – in arancione – da alcuni pannelli di Bonnard. Questi pannelli Misia li aveva ritagliati a modo suo perché si adattassero esattamente alla curva delle pareti. Gridate pure allo scandalo! Abbiamo dogaresse e grandi sacerdotesse, abbiamo muse, ne abbiamo da vendere! Ma quanto più rare e indispensabili alle arti, che rischiano di metter su pancia, sono quelle donne così donne da portare nel tempio uno spirito di saccheggio, uno spirito di forbici e vestiti. “Gli angeli volano” scrive Chesterton “perché si prendono alla leggera”. Misia, con il suo amore e la sua irriverenza, lavora senza posa la pasta e le impedisce di diventare dura. Solo gli artisti forti e timorosi del loro ruolo di idoli beneficiarono di questa iconoclasta che sferza la vita come una trottola inebriandosi del suo rumore senza mai permettere che la velocità divenga statua.
«Le sue arti sembrano ispirate ai Malheurs de Sophie. A un pittore che si lamentava di qualche malheur procuratogli da Misia, ho sentito Satie rispondere: “È colpa nostra, la gatta è bella, caro mio, nascondete i vostri pesci!”.
«Eccoci davanti a una di quelle donne alle quali Stendhal accorda il genio. Genio di camminare, ridere, rimettere qualcuno al suo posto, maneggiare un ventaglio, salire in macchina, inventare un diadema. Questo genio Misia ha saputo possederlo a tal punto che, scrivendo Thomas l’imposteur, per quanto mi concentrassi sulla San Severina, fu lei che divenne, automaticamente, costi quel che costi, il modello della principessa di Bornes.
«Ma quando ammiravo il prestigio di un palco dell’Opéra dove la nostra maga attirava un Proust e un Renoir dal fondo della loro campagna e del loro letto di malato, ignoravo che quel genio vago, aereo, quel genio che si esprime sia con un’insolenza, sia con la creazione di alberi cinesi coi rami di piume e di perle, ignoravo, dicevo, che questo genio arrivasse al Genio vero e proprio e che la pianista della nostra vita di tutti i giorni fosse una pianista tout court.
«Perché non era soltanto la vita e il nostro gruppo che lei sapeva affrontare con polso fermo, ma era proprio da un Pleyel che quel polso di gatta sortiva preludi e mazurke di Chopin maneggiando come nessun altro i loro nastri e le loro perle, era da un pianoforte tempestoso e gioioso che lei tirava fuori la testimonianza nazionale della sua razza e ci stregava, nel vero senso della parola, come solo André Gide sa fare, quando si lascia sorprendere da una stanza accanto, qualche volta.
«Appena ebbi scoperto questa sorgente ne misi a parte Roland Garros, gran cultore del pianoforte. Da quel momento ottenemmo dei concerti privati dove Garros veniva a prender quota tra un volo e l’altro. Tradendo vergognosamente la politica musicale che allora mi conveniva seguire, e la posizione verticale che avrei dovuto adottare, ci rotolavamo nell’ombra e ascoltavamo Misia.
«Ieri sera, accompagnata da Marcelle Meyer, che ha realizzato il paradosso di essere una macchina di genio, Madame Sert ha accettato di apparire in una sala.
« La musica non ha buona memoria; essa dimentica i suoi virtuosi come l’acqua le sue caraffe, e ogni pianista le dà una nuova forma. Io consiglio a coloro che avranno la fortuna di ascoltare Misia, al di là della sorpresa che devono provare, di evocare gli spiriti illustri che, come confessa una squisita rima di Mallarmé, il suo pianoforte iniziò, e che si arricchirono di questa collaboratrice misteriosa». (Contenuto in: Misia Sert, Misia, Adelphi, Milano 1981, pp. 190-93.)
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“Abbiamo dogaresse e grandi sacerdotesse, abbiamo muse, ne abbiamo da vendere! Ma quanto più rare e indispensabili alle arti, che rischiano di metter su pancia, sono quelle donne così donne da portare nel tempio uno spirito di saccheggio, uno spirito di forbici e vestiti. “Gli angeli volano” scrive Chesterton “perché si prendono alla leggera”
Grazie di cuore all’autrice di questo post, Tina Nastasi, e ad Antonio Sparzani che l’ha postato. Uno splendido, necessario, ritratto di donna.
Condivido Gaja. E’ un ritratto luminoso una donna sottile.
Grazie a Antonio Sparzani e a Tina Nastasi.
Mi piace molto il nome Misia per il timbro musicale.
merci Tina!
A te, a tutte e tutti La Valse di Maurice Ravel, 1920, la cui partitura per due pianoforti da cui nacque il famoso pezzo orchestrale, era proprio dedicata a Misia, molto amica del compositore.
Misia/musa!
Iniziata prima della Guerra e terminata dopo, più che un inno al Walzer, come avrebbe dovuto essere nelle intenzioni iniziali, ne diventa una specie di canto della fine, di un epoca, di un mondo, di uno spirito. E, come la vita di Misia è un insieme di leggerezza che si perde in una specie di nostalgia malinconica che va pian piano scurendo e turbandosi.
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molto bello tina… grazie