Variazioni Meridiano – 3: Giulio Marzaioli
In assenza di.
Se ciò che è riflesso somiglia
occorre che il vetro sia rotto
perché con le schegge si tagli.
La pelle (l’immagine sotto).
Riportare notizie in merito ad un percorso proprio implica la necessità di un’osservazione attenta ed attendibile. Poiché, tuttavia, un percorso in fieri è per definizione in continuo movimento, una fotografia dello stesso non potrebbe che risultare mossa. Inoltre, riferire di un’esperienza necessaria continuamente rinnovata (quale la scrittura per chi, qui, ne scrive) sarebbe come segnare i punti cardinali del proprio mangiare o dormire etc.. Infine, il miglior modo che un autore può scegliere per veicolare il proprio percorso è, per l’appunto, la propria opera e più rivolto a questa sarà lo sguardo più la focale risulterà esatta. Una prima forma di assenza è quindi mancare rispetto al compito assegnato. Ecco che di fronte all’invito a tracciare una traiettoria relativamente al proprio “fare versi”, chi scrive in questa sede tenta impropriamente di seguire la traiettoria che un verso, il verso di qualunque autore di poesia, fa o può fare.
Qualsiasi percorso presuppone un altrove da raggiungere, uno spazio pensato ma non presente di cui, al limite, si possono indicare le coordinate. Tale “altro dove” viene quindi ad essere una ulteriore forma di assenza tale da causare movimento. Lo stesso valga per il percorso che conduce verso l’altro, tracciabile fino a che questi manca alla ricerca, posto che nel momento in cui l’altro è raggiunto dal proprio sguardo non può dirsi niente che non rischi di essere pronunciato, indebitamente, per voce altrui.
Nel segno di questa duplice forma di assenza, come categorie della poesia si definiscono uno spazio e un tempo che mancano alla propria determinazione, ovvero che, in qualche modo, bisogna conquistare.
Soccorre, in questa ricerca, una definizione che M. Foucault ha dato del non-luogo. L’eterotopia, così la definisce Foucault, è per l’appunto un contro-luogo in cui si realizza il luogo ideale (a differenza dell’utopia) e dove le regole di determinazione dello spazio allo stesso tempo vengono rappresentate e sovvertite (esempi di etrotopie possono essere considerati ospedali e cimiteri o, nel passato, il viaggio di nozze in cui la sposa perdeva la propria verginità, fuori dal cerchio dell’imbarazzo proprio perché in un non-luogo, rappresentato dalla dimensione del viaggio).
Venendo alla scrittura in versi, può essere considerata la pagina una forma di eterotopia, laddove con la violazione del bianco si delinea e perimetra uno spazio (coperto da inchiostro) che prima non esisteva e dove, tuttavia, non si può trovare ferma collocazione nel momento in cui le parole chiamano ad andare altrove (così il noto aforisma di K. Kraus: “quanto più vicino si guarda una parola, tanto più lontano essa rimanda lo sguardo”).
Questo spostamento, rectius scarto, dalla consueta forma di ascolto (inteso anche come “lettura”) viene ulteriormente favorito dall’ostacolo – sintattico, semantico, metrico – provocato dalla di-versificazione del linguaggio. Di conseguenza, per entrare nel solco del testo poetico occorre disporre l’attenzione su un terreno non conosciuto e su tale terreno cercare una mappatura.
Paradossalmente, detto “esercizio” di avvicinamento da parte del lettore – o ascoltatore – sarebbe quanto mai opportuno proprio nell’ambito delle dinamiche della società attuale che, per contro, sembra offrire possibilità sempre più limitate alla divulgazione della poesia. La riduzione e frammentazione del tempo, l’abitudine ad essere attraversati da messaggi brevi ed allo stesso tempo la necessità di pause di sospensione del senso (tempo?) quotidiano sembrerebbero offrire alla scrittura in versi, in particolare al testo breve, la più vasta diffusione (in linea con quanto, relativamente al racconto, si legge nella lezione sulla Rapidità di I. Calvino). Motivi vari, che meriterebbero altra e più ampia trattazione, impediscono che tale considerazione trovi riscontro. Qui preme tuttavia tornare agli elementi che caratterizzano il rapporto tra verso e ascolto.
Si deve, infatti, rilevare come, nel muovere ad uno spazio e ad un tempo in divenire, fondamentale importanza assume il ritmo. Se si vuole, infatti, superare il retaggio della vita quotidiana che ci fa tracciare come lineare la proiezione del tempo nello spazio (così H. Bergson), bisogna percepire e ricondursi ad un ritmo che, scrive Brunella Antomarini in un suo saggio, assume valore sapienziale proprio perché tenta di ri-formulare un ritmo a-dialogico e quindi, in qualche modo, “naturale”.
Delineati così i meridiani entro cui si orienta il verso poetico, per chi scrive e per chi legge, viene da chiedersi se tale orientamento possa o debba portare a una direzione. In altre parole se e quale funzione – oggi – può assumere la poesia.
Fermo restando quanto sopra scritto in merito alle potenzialità di sospensione e “respiro” che la dimensione della poesia può concedere all’abitante del nostro tempo, non credo che possa davvero riconoscersi al linguaggio poetico una funzione “civile”, se con tale termine si intende un effettiva possibilità di incidenza o quantomeno di denuncia rispetto alla pieghe del tessuto sociale, e ciò per due motivi.
In primo luogo, ed è questo un dato incontrovertibile, la poesia si rivolge a pochi (anzi, rispetto ad altre epoche, pochissimi) che spesso sono lettori già avvertiti perché essi stessi autori di poesia.
In secondo luogo la poesia, per sua stessa natura, implica uno sguardo trasfigurato dal vincolo della forma che, proprio per questo, rende implicito un allontanamento dal fatto quale esso è.
Tornando alle categorie di spazio e tempo, come sopra definite, credo che l’incidenza della poesia sia oggi da individuare, piuttosto, nelle modalità e qualità della percezione.
Per intendersi, la “dimensione” di una qualunque realtà viene veicolata in miglior modo da mezzi che ne riportano fedelmente connotati (quindi video e fotografia), per di più in tempo reale rispetto a mutamenti significativi della stessa (telegiornali, internet etc.).
Detti mezzi, tuttavia, difficilmente attuano una qualche forma di dialogo con le categorie della percezione. Non vengono, insomma, alterati o toccati in alcun modo i parametri del nostro tempo e del nostro spazio, cosicché l’informazione entra nel corso della quotidianità senza che questa subisca alcuna modifica. E’ così che si genera il germe dell’indifferenza.
Per contro, lo scarto che produce il verso poetico (così come qualsiasi altra forma espressiva che non ricalchi la nostra abitudine alla percezione) fa sì che chi scrive e chi legge possano incontrare il dato, la cosa o l’idea in uno spazio e in un tempo diversi dal quotidiano e, quindi, liberata dalla consuetudine e dal logorio, la percezione non solo ha modo di attivarsi, ma anche di cogliere in modo ulteriore il proprio oggetto.
Ecco, dunque, che la poesia è tutta civile, nel momento in cui muove e si muove verso l’altro scommettendo nell’invito a collocare/collocarsi altrove rispetto al punto di partenza. La scommessa si gioca, in tal senso, proprio sulla ricerca dell’altro, assenza cercata, ombra chiamata a sé e sedotta perché avvenga lo scambio con il corpo e nella personificazione dell’attesa si compia un atto, che anche nella scrittura è sempre atto di “amore” (scrive Mario Perniola, a proposito di Klossowski, che “l’essenza dell’erotismo è perciò l’ospitalità, un vestire l’estraneo come se fosse proprio e il proprio come se fosse estraneo”).
Da questa commistione di sguardi può approfondirsi ed ampliarsi la capacità di “lettura”, tale da generare occhi che osservano in profondità anziché specchi oculari in cui la realtà si riflette così come ci viene presentata. A tanto, o poco, credo che possa servire un verso, tanto più “presente” quanto più libero da altre parole attorno.
L’ho letto tutto, e l’ho fatto, dopo il primo paragrafo, per una forma di rispetto, perché stava per scapparmi una battuta della quale so che mi sarei pentita.
Mi pare evidente che marzaioli non aveva niente da dire su se stesso, com’è giusto, non si è obbligati a parlare del proprio lavoro, e non tutti ne sono capaci, anzi, direi pochissimi.
Non so perché, non avendo niente da dire, si sia sentito obbligato a farlo, credo che dipenda dalle condizioni di vita dei poeti oggi, dalla loro ansia performativa, dalla loro ansia personale, dal silenzio che circonda loro e tutti noi.
Vorrei dirlo qui a tutti, cogliendo l’occasione di questo pezzo di marzaioli, respirate a fondo, non fatevi del male, non occorre rispondere sempre di sì, il silenzio a volte è la cosa migliore, quella che permette di fare più strada.
giusto, vero, come press’a poco non occorre sempre commentare Alcor, quando non si ha altro da dire che una propria impressione impressionante
giusto, vero, il silenzio è sempre la cosa migliore, mea culpa
Ho scoperto il brano come un labirinto della mente, molto intelligente.
Ho amato l’idea del luogo, confine della scrittura.
Vedo il mondo della scrittura come un’isola, tra due mosse: il ritorno al porto natale, luogo della madre, nostalgia e manca; il sogno del mare: partire verso il mondo, raggiungere la margine dove si confondono il mare, blu calamaio e il cielo, desiderio, piacere, incanto.
Una scrittura sospesa nel momento di creazione.
Non credo affatto che giulio marzaioli non abbia nulla da dire, è che dalla stanza troppo affollata dei poeti si allontana quel tanto che basta per misurare la stanza stessa, senza poeti e con una sequenza di versi ancora da fare. Leggete i suoi testi , la sua poesia, vi “rifarete” delle impressioni e lascerete le vecchie per le nuove
@Elle,
sopra ho scritto (leggi bene) “Mi pare evidente che marzaioli non aveva niente da dire su se stesso, com’è giusto”.
E’ molto diverso dal dire che non ha niente da dire, cosa che non mi permetterei di sostenere.
Non saper parlare di quello che si fa non è un titolo di demerito, a volte è una forma di imbarazzo, di disabitudine, o anche di scelta, io scrivo, si può dire, e sono tutto in quello che scrivo, ne parlino gli altri.
E a volte secondo me è meglio.
(Torno al silenzio)
ottima iniziativa! mi piace questo progetto
CNED’ACA?
(Come Non Essere D’Accordo Con Alcor?)
credo che il pezzo di marzaioli non contenga solo una riflessione sul proprio percorso in poesia, ma anche uno schietto e onesto discorso sul significato attuale del “versificare”.
mi sembra che un richiamo interessante sia fatto nei confronti della poesia cosidetta “civile” (quale non lo è?) e nei confronti del lettore, approdato sullo stesso piano del poeta, nel medesimo “scarto” sensuale di chi scrive.
Solo una considerazione. Saranno o meno condivisibili le opinioni espresse nel testo, ma potrebbe risultare più interessante confrontarsi, eventualmente, in merito alle stesse anziché commentare i commenti o presunte “ansie” da prestazione poetica.
TTVM,M
(Tu Ti Vuoi Male, Marzaioli)
:-)))
Tashtego non per tutti la poesia è: cuore-amore, pecoraro-(fai un po’ tu)
non per tutti, vero.
nemmeno per me.
tuttavia, scrivere una frase come questa “Venendo alla scrittura in versi, può essere considerata la pagina una forma di eterotopia, laddove con la violazione del bianco si delinea e perimetra uno spazio (coperto da inchiostro) che prima non esisteva e dove, tuttavia, non si può trovare ferma collocazione nel momento in cui le parole chiamano ad andare altrove (così il noto aforisma di K. Kraus: “quanto più vicino si guarda una parola, tanto più lontano essa rimanda lo sguardo”)”, per esempio, che vale per qualsiasi forma di scrittura, anche per la prosa, anche per una lettera commerciale, anche per il disegno, anche per il disegno tecnico ( basta sostituire al termine “parola” il termine “linea” oppure “segno”), la trovo puro auto-lesionismo.
nel tentativo di mostrarsi molto consapevole del fare poesia, marzaioli, di cui non conosco il lavoro (e che magari è bravissimo), infila una serie di frasi sdate, che lasciano il tempo che trovano e, soprattutto, nel cui “merito” qualora ne avessero uno, non vale la pena di entrare.
ma la mia è solo vana irritazione, lo so.
devo stare meno al pc.
Una ulteriore considerazione. Il testo può non interessare, ma allora è difficile trovare la ragione stessa di alcuni interventi nonché l’uso di espressioni quali ”autolesionismo” o “irritazione” (che sia vana o meno) che, con il testo in questione, non hanno niente a che vedere.
Certo che, se nelle belle cose che ogni tanto vengono postate, ci mettiamo a commentare i commenti, allora dov’è, dov’è dico io, la libertà d’espressione?!
elasticità è la parola chiave :-)
Nel commentare, anche i commenti, lì sta la libertà d’espressione, o no?
Poi capisco che chi posta vorrebbe che si commentasse in un modo piuttosto che in un altro, ma la vita non funziona così, uno lancia un amo e abboccano pesci tutti diversi da quelli che voleva mangiare a cena.
Concordo!
Se uno dice che il silenzio è importante e spiega perché, non significa voler dire a qualcuno “allora stai zitto”.
Ciò che ha scritto Alcor l’ho trovato importantissimo, tanto che l’ho salvato (andrebbe letto ogni giorno, per non dimenticarne il contenuto: nella pratica).
Qua si vedono con incredibile chiarezza le “condizioni di vita dei poeti oggi, dalla loro ansia performativa, dalla loro ansia personale, dal silenzio che circonda loro e tutti noi”.
E non bastasse, dopo questo, si vede la volontà, da parte dell’Autore, di “controllo” sull’effetto che producono le proprie stesse parole nei Lettori: una cosa veramente assurda.
Quando si è scritto qualcosa e si è pubblicato e si è lasciato spazio ai commenti del Lettore, si deve avere l’umiltà di leggere (possibilmente in silenzio) quello che ne pensa il Lettore, qualsiasi cosa essa sia.
Se non lo si vuole sapere, allora si pubblichino libri cercando di evitare di sapere gli altri che cosa dicono del proprio lavoro; si cerchi il meno possibile di “relazionarsi” al lettore, si cerchi di fare i propri libri, la propria vita, e chi s’è visto s’è visto.
Non credo che una proposta di confronto sui temi trattati possa equivalere a volontà di controllo o possa considerarsi assurda. Se questo spazio è, per definizione, aperto al dialogo, immagino che lo stesso non sia precluso ad alcuno e proprio in tal senso considero l’espressione “relazionarsi” al lettore. Umilmente.
Marzaioli è un convoglio di cristalli, come tutti quei poeti e scrittori che tratteggiando un percorso di ricerca letteraria, e intimamente vorrebbero tornare al primo giorno di partenza. Perché ci vuole coraggio nel riuscire a non disperdersi nel fondo della memoria, a non abbassare “le persiane sugli occhi”.
Molti hanno bisogno di decorare il vuoto anteriore. Altri lo riempiono – bulimici.
Marzaioli non infarcisce, non usa edulcoranti, non si disperde nell’ordito poetico. Piuttosto tenta di superare il falso pudore della contemporaneità. Lui, che con la “contemporaneità” ed i suoi nuovi linguaggi ha molto da condividere, significare ed azzerare.
Giulio è senz’altro un poeta non-facile. Lavora sulla distillazione del verso, compatta scelte espressive, fatte anche di dettami, precetti filosofici, alternandoli ad un vasto argomentare in territori solo apparentemente dissimili.
Fateci caso, è talmente motivante il suo pensiero, così preciso e inderogabile, che mai si disgiunge dal verso. Questo perfetto gemellaggio rischia una coazione a ripetere: tuttavia sempre diversa. E noi… Noi non ne restiamo immuni: questo è certo.
L’audacia culturale che sostiene ogni sua curva creativa, quel lasciarsi trascinare in territori angusti laddove il verso travolge ratio e sentimento, spazio e labilità del tempo, attrae irrimediabilmente. Perché nel suo laboratorio umano non esiste un Io unicum: lo sparpaglia in tutto quel biancore cartaceo che vive di perenne bianchezza, e con tale potenza magnetizza il nero. Tagliente Polaroid d’un alter-ego provvisorio, fatto, disfatto e riconsegnato da un grafismo poetico minimale.
Se il nero è privo di dubbi, la diade b/n è perfetta, poiché Marzaioli tenta di superarne l’angoscia.
Non è da tutti.
Come la capacità d’osservare. Con la sua “lente”, Marzaioli riesuma una magrelliana Pompei delle pupille.
Definisce l’immagine: la lente si sposta, rivolge lo sguardo in un altrove indefinito. E se si deforma?
Domanda: deforme è ciò che l’occhio non riesce a percepire? Cosa distingue la percezione del sé dalla percezione dell’altro da sé: un pianerottolo geografico, un sito archeologico, un luogo, un palpito, un’idea, un filosofema, un essere, una donna, un uomo? Una donna e un uomo: l’amore? Oppure è quel movimento dinamico interiore ed esteriore che richiama al concetto di “inessenza”? Termine ineguagliabile, e che solo Paul Auster è riuscito ad avvicinare…
Concludo questa mia con un sorridente commiato, un po’ giocherelloso:
“ci sono quelli che tengono un piede nel nero / ed un altro nel bianco, / i discendenti del Winckelmann, / che passano la vita a studiare / la bellezza classica delle pulci.” (Angelo Maria Ripellino, da “La Fortezza di Alvernia”).
Ma non è il caso di Marzaioli: a Giulio non interessa il feticcio.
Nina Maroccolo
‘una magrelliana Pompei delle pupille’
‘Tagliente Polaroid d’un alter-ego provvisorio’
‘nel suo laboratorio umano non esiste un Io unicum: lo sparpaglia in tutto quel biancore cartaceo che vive di perenne bianchezza, e con tale potenza magnetizza il nero.’
@ Luminamenti
Mi arrendo, hai vinto: l’Itaglia dei p(o)eti è ai tuoi piedi: i tuoi discepoli ormai sono schiere, inarrestabili, e diffondono il tuo verbo come fa il vento con il polline.
Caro Cino,
sono Nina. Conosco l’opera di Giulio Marzaioli, lo seguo da anni e per quanto possa valere una mia interpretazione, giusta o sbagliata che sia, condivisibile o no, ho sempre cercato di entrare nel suo mondo. Tutte le frasi che hai sottolineato riguardo il mio intervento hanno una sua ragione d’esistere, credimi.
Per il resto non voglio diffondere nessun verbo. Non ho questa presunzione. Io sono solo una scrittrice del sottobosco letterario, dedita alla narrativa e a molto altro. E vivendo nel bosco faccio bellissimi incontri. Ed è proprio la forza terragna, radicata da tempi immemorabili, che io seguo, annuso come una cagna.
Anzi, se stanotte senti latrare, quella sono io. Una cagna in cerca di simili. Ma la similitudine non prevede discepoli, solo simili o “simillimi”. Quindi, per favore, ringhia. Così che anch’io possa sentirti… Ma senza rigurgiti pavloviani…
Nina Maroccolo
Cara Nina,
credo tu abbia trovato in me (e ti prego di credere che lo credo davvero) un tuo “simile”, e per svariate assonanti convergenze, o convergenti assonanze.
Vediamo: 1) anch’io conosco l’opera di Giulio Marzaioli (e, credimi sulla parola, la apprezzo anche molto);
2) anch’io vivo nel sottobosco letterario (solo come lettore, però, e la cosa non mi dispiace affatto);
3) anch’io sono dedito, ma solo a “molto altro”, non alla narrativa (per le ragioni di cui al punto due);
4) anch’io sento la “forza terragna”, soprattutto quella “forza” che, di natura, guarda in giù, verso terra e…
5) anch’io la “seguo”, la “annuso” come un cane;
6) anch’io “latro” e, quando la “forza” mi chiama a tutta voce, “ringhio” al meglio che posso;
7) anch’io ho rigurgiti, come tutti, ma non credo (e ti prego di credere che non lo credo davvero) che siano pavloviani.
Ragion per cui, sulla base del noto teorema tash-binaghiano, secondo il quale nessun effetto può produrre più realtà della causa che lo genera (non so che caxxo c’entra, ma a quest’ora può andar bene tutto), si può dedurre quanto segue:
a) ho preso le tue “frasi” senza nessun intento parodistico, solo per avvalorare una mia teoria in merito al processo di luminamentizzazione, e di relativa bondizzazione versicolare, dello spazio virtuale (e, se tanto mi dà tanto, ti lascio immaginare come deve essere conciato lo spazio reale);
b) si trattava di una reazione al processo di interiorizzazione di una esclusione di cui mi sentivo vittima (l’essere escluso, per manifesta mia incapacità, s’intende, dalla comprensione dei punti salienti del tuo commento);
c) l’introiezione forzata, alla quale mi vedevo costretto, scatenava in me urgenti aspettative catartiche, aprioristicamente propulse nella frustazione seminconscia a monte del processo innescato dalla improvvida lettura.
Quindi, illuminato e confortato dal primo postulato del teorema post trinitario, partorito in cooperativa dagli encomiabili caffarra – the o.c. – cappuccetto rosso, teorema che abbraccio totalmente e faccio mio (ma solo per la parte riguardante cappuccetto rosso nostro), mi sento di dirti:
non prendertela, in fondo è tutto un gioco, sorridi…
Io, se posso “annusare” (pardon: osare), ti vedo già volare tra le corde dell’altalena…
Buona notte, cara.
Davvero non capisco una cosa, che tuttavia emerge con evidenza da questo dialogo. Qui nessuno legge testi, epperò sono tutti pronti a parlarne. Qui nessuno ‘usa’ il testo come una sorta di link che rimandi all’approfondimento. L’importante è dire la propria, dire qualcosa, la caciara. Meglio addirittura tacitare l’autore perché non deve intervenire nel dialogo proponendo una direttrice di senso e di lettura.
Rispetto al testo di Giulio che trovo difficile, impegnativo, in alcuni punti con addirittura dei buchi, avrei immaginato silenzio o al massimo un’ammissione di impotenza concettuale. Invece no, che il barnum esista!
Poi, a chi parla di poeti come fossero un’entità mistica-anomala, vorrei dire: quale accidenti è il problema? La poesia è molto semplicemente, per alcuni, una cosa dannatamente seria; se uno non la vive così puo’ sempre consolarsi con l’ultimo tex willer in edicola. O guardarsi in tv l’ultimo Annozero sulla ‘munnezza’, la delega addolcisce sempre la coscienza.
Hai ragione @Ellepi, non abbiamo mai letto Fucò.
Torno a Tex.
me lo presti poi?
effeffe
io ciò tuta la collezzione anghe le risdambe a colori, sevuoi tela impresto, amme mela recalata ilmio papa cino chemmi vuole tandobbene e mia detto chemi devo fare un istruzzione perche atrendanni come titolo di stutio o solo il certi fica to di baddesimo
beh il trio funziona sempre: aldo-giovanni-giacomo docet
Con tutto il bene che voglio a Giulio, e la stima che gli porto come scrittore, al gioco cui è stato invitato non ha dato, né poteva dare (per fortuna aggiungo io) il meglio di sé.
Sul testo proposto, nelle modalità in cui lo leggiamo, mi pare normale che alcuni commentatori abbiano manifestato perplessità, e troppo facile mi sembra la scorciatoia di chi immediatamente sancisce e sanziona i commentatori.
Proprio perché ho letto i testi di Giulio noto come in nessun punto del suo autoportrait faccia cenno ai giochi linguistici e di registro che rappresentano un nodo importante della sua estetica. Come per esempio la sua frequentazione del teatro, della performance, dove l’oralità impone naturalmente una dialogicità concreta. Per certi versi una rottura con la tradizione – quella della lettura e della scrittura segreta, interna, silenziosa. Allora provo a chiedergli,sperando che risponda, cosa significa lavorare con un grande artista come Anzellini in un’azione d’arret sur image sull’opera di un grande regista. In che modo si sviluppa la sua incursione nell’immagine in movimento, come nello splendido libro (doppio libro) tripla voce ovvero La stanza [opera in versi sulla filmografia di A. Tarkovskij] di Giulio Marzaioli e Rizoma Tarkovskij di Alfredo Anzellini. (ed. La camera Verde)
qui potete trovare un esempio
http://slowforward.wordpress.com/2007/10/16/tarkovskij-20-ott/
effeffe
ps
Alcor tu ce l’hai il numero 80, spettri?
“nessun effetto può produrre più realtà della causa che lo genera”.
questo teorema, che non ho mai formulato, né da solo né in compagnia di binaghi, è falso.
è quasi ovvio che basta guardarsi in giro e subito vedi gente come berlusconi e veltroni che nei fatti contraddicono il principio di conservazione della realtà, secondo il quale esisterebbero delle evidenze del tutto non-negabili che costituirebbero il nerbo condivisibile del reale, rispetto alle quali la realtà non può essere incrementata ma solo diminuita.
ma ormai è chiaro che non è così: quella che nel primo novecento qualcuno chiamava “surrealtà”, oggi, in ambiente surmoderno, è diventata realtà a tutti gli effetti, capace di retro-agire su quello che un tempo era il nerbo del reale.
(questo per rispondere alle provocazioni di Cino Lumi).
A quanto scrive Francesco Forlani rispondo in primo luogo che, nell’affrontare il tema del “fare versi” – in linea con il Meridiano di Celan, ho preferito affrontare alcune categorie relative alla scrittura, o alla lettura, della poesia così come la intendo e ciò non per reticenza a scrivere della “mia” poesia, ma semplicemente per maggiore interesse a riflettere su questioni che possono risultare “comuni”. A ciò si aggiunga che ho sempre il timore di non essere sufficientemente distante dall’oggetto proprio per poterne scrivere con esattezza (in tal senso mi sembrano più aderenti le osservazioni altrui, quando si riferiscono ai testi).
Per quanto riguarda il confronto con la fotografia (nel caso di Anzellini) o con il cinema (ad esempio Tarkovskij), ma in generale con qualsiasi altra forma di espressione mi sia capitato di interagire, credo che vi siano soprattutto due motivi che spingono a tentare la ricerca di una ulteriore possibilità di dialogo: prima che il dialogo sia avviato, la sfida a portare il proprio linguaggio su territori non conosciuti, eppure percepiti affini, nella speranza di formularne ulteriori e differenti modulazioni; a dialogo compiuto, l’arricchimento che alla propria esperienza e al proprio linguaggio deriva dal rapporto consumato che, a differenza del rapporto d’amore, produce i suoi frutti migliori a partire dalla sua fine, soprattutto se si tratta di maestri comeTarkovskij e Anzellini.
caro giulio, sollecitata dopo l’incontro di ieri cerco di entrare nel merito e butto giù un paio di suggestioni brutali. Mi sembra interessante la tua idea di eterotopia, ma forse confinata a un circolo vizioso poeta mondo che non può non toglierti il respiro. O sbaglio? Potremmo pensarlo anche come spazio destinato ad altro, all’alterità di chi scrive, all’alterità dei suoi mondi. Oppure, ancora: potrebbe questo spazio altro essere quello che occupa il lettore, con la sua presenza fantasmatica eppure decisiva? Se poniamo questo altro al centro dell’esperienza dello scrivere, forse, magari, un senso civile non sarà più così lontano.
caro giulio, sollecitata dopo l’incontro di ieri cerco di entrare nel merito e butto giù una suggestione brutale. Potremmo pensarlo anche come spazio destinato ad altro, all’alterità di chi scrive, all’alterità dei suoi mondi. Oppure, ancora: potrebbe questo spazio altro essere quello che occupa il lettore, con la sua presenza fantasmatica eppure decisiva? Se poniamo questo altro al centro dell’esperienza dello scrivere, forse, magari, un senso civile non sarà più così lontano.
@ Tashtego
“non so che caxxo c’entra, ma a quest’ora può andar bene tutto”
L’avevi letto? Era parte integrante del testo, al quale dava il giusto tono di delirio più o meno controllato.
L’ironia non è mai provocazione, tanto meno volgarità.
Provocazione e volgarità stanno, piuttosto, nella spocchia e nella saccenza esibite, nell’incapacità di accettare una critica (fosse anche uno sfottò) ad un proprio scritto, nel sentirsi portatori del verbo e circonfusi di aura solo perché si scrivono dei versi o dei racconti, nell’usare un linguaggio da iniziati anche al bar, davanti a una birra.
Questo era dovuto, e questo è quanto.
@cino lumi
avevo letto, certo, avevo colto l’ironia, ma la tua formulazione mi interessa lo stesso, sembra avere un senso, non so, ci ho pensato, ne ho scritto, ne ho provvisoriamente decretato la falsità, ma non ne sono sicuro.
sul resto concordo al 100%.
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