Un viaggio con Francis Bacon # 1

bill-brandt.bmp 

di Franz Krauspenhaar

La prima volta che vidi un quadro di Bacon dal vivo fu a Palazzo Reale, in una grande mostra sul ritratto curata da Flavio Caroli. Stavo nella sala guardando un bellissimo ritratto di Alberto Donghi, un pittore che trovo affascinante e soprattutto inquietante per induzione, come sono affascinanti in tale modo certe belle donne che però non vogliono particolarmente colpirti col loro charme. Conoscono il valore della loro bellezza, e perciò, saggiamente, non ne abusano. Girai la testa e vidi un piccolo quadro che ritraeva un uomo dell’ipotetica età di cinquant’anni con un pezzo di carne in bocca. Vestito scuro da executive, faccia dilavata da fantasma cittadino, lo sfondo notturno indifferenziato; e quelle tracce di bianco ai lati della figura, come tocchi magici di un diavolo sornione che fa luce a brani sulla triste e oscura condizione umana. Mi sembrò il segretario americano di uno dei famosi papi urlanti che avevo visto su vari libri; quell’uomo lo immaginai come lo scherano deluxe di quel papa incastonato al box in plexiglass dell’orrore – dentro piovono lacrime dal mondo preso in giro da una civiltà cristiana alle corde, e forse il papa urla per l’orrore della sconfitta, del fallimento di ogni missione. L’uomo con la costoletta in mano, che se la sfila brano a brano nella bocca con l’ingordigia di un profugo tedesco davanti a un chiosco imbiss nel dopoguerra – come in un romanzo di Heinrich Boell – è il credente per statuto e occupazione, colui che conserva l’abito civile da uomo dal vestito grigio e serve il suo principe urlante alla fine della corsa pastorale, ora che tutto – salvezza dell’anima compresa – è perduto. L’unica cosa che quest’uomo può fare è addentare della carne, senz’altro più consistente del solito bicchiere di London Pride al fumigante pub di fiducia. Addentare carne per strada significa forse fregarsene di cio’ che gli altri possono pensare, ritornare allo stato delle bestie in modo istantaneo e indolore, significare che l’abito che si indossa non fa il monaco – per quanto laico – e nemmeno il predatore.

L’altro ieri scopro un quadro attribuito a Bacon dopo la morte. E’ il retro di un paesaggio non particolarmente brutto, di un certo Denis Wirth-Miller, artista semisconosciuto, dipinto nel ’58; raffigura un campo di pannocchie, un cielo blu piatto, in lontananza una campagna inglese che avrebbe potuto pennellare Ennio Morlotti in vacanza dalla Brianza gaddiana del Maradagal dei suoi informali viaggi pittorici nella macchia lombarda.
E dietro, di Bacon, c’è un cane; simile ad altri cani, piccoli, tozzi e presumibilmente famelici e cattivi, dipinti dal pittore irlandese negli anni ’50. Un cane che è ripreso da una foto di Eadweard Muybridge ma che, diversamente dagli altri, sembra punzonato da strisce di carta bianca, come se sul pelo rado qualcuno – un sadico? – avesse applicato con una cucitrice degli scontrini dell’ippodromo…

Alla mostra mi soffermai su un altro quadro del genio: una tela ben più grande, grezza, dipinta solo in parte. E una figura – George, George Dyer, l’amante dell’artista – steso in parte su una sorta di lettino prendisole. Non feci fatica a capire – allora che di Bacon sapevo molto poco – che quell’uomo era un omosessuale – dalla torsione del corpo, da un’ oscenità difensiva della posa; e dunque anche il pittore che ritraeva quell’uomo indubitabilmente lo era. Credetti di capire il rapporto intercorso tra soggetto ritratto e ritrattista: era un moto sotterraneo, poco spiegabile a parole, e credo ci fosse a galleggiare all’intorno, come del fumo rappreso in una stanza troppo a lungo sprangata ai visitatori, anche del disprezzo, del rancore non digerito. Non era l’amore e l’ammirazione romantica che vediamo nei quadri del provinciale alfiere del New England Andrew Wyeth che ritraggono la vicina di casa Helga – che io immagino spogliarsi del tutto dopo la seduta e accogliere il pittore stanco del viaggio sulla tela fremente tra le sue braccia piene di amorevole semplicità teutonica: quando Bacon ritrae Dyer c’è violenza e paura, disprezzo e disperazione, tenerezza vitaminica – che serve ad alimentare poi altro disprezzo per il consumo del pasto, nudo quant’altri mai. Il suo amore è complesso e non concede comunque nulla alla tenerezza, o meglio la tenerezza può guadagnarsela, ma solo con un robusto dispendio di male.

I personaggi di Bacon non concedono nulla, anche, alla fatica di lasciarsi andare. Una fatica di disarcionarsi dalle proprie paralizzanti debolezze. Le sue figure sono tese, a volte sanguinanti. Come nell’uomo azzurro – in campo azzurro, in una stanza azzurra – che scrive, in mutande. Il quadro s’intitola Person writing reflecting in the mirror . Sembra appena uscito da una sauna, si è ficcato in una stanza-spogliatoio e si è messo a scrivere allo specchio, forse per guardarsi in quell’operazione di spoglio dell’interiorità che è la scrittura. E’ uno spogliarsi doppio,  guardando il proprio doppio allo specchio del trucco. Alcuni fogli sono caduti, casuali e non visti, dal suo alacre lavorio, e sono macchiati di sangue. E’ una lettera d’amore, la sua? O d’addio? Non è, io penso, vergata col suo sangue, esso è – miracolosamente, si potrebbe dire – il risultato di un pensiero dell’artista. Che per lui scrivere sia come dipingere sembra chiaro: l’espressione artistica raffigura il dolore, lo espande, gonfiandolo ma tenendone la stessa quantità di atmosfere; quasi che non ce ne fosse mai abbastanza, nel mondo; quasi che per rappresentare il dolore e la violenza esse debbano essere enfatizzate in un espressionismo contorto, senza ali, che ci ributti tutti a terra, alla condizione di bestie anche se pensanti. Malpensanti, piuttosto. E in questo caso scriventi, comunicanti.

Forse quel personaggio – ancora George, suppongo – ha intenzione di farla finita. Il quadro è degli anni ’70, quando George era già morto, e dunque potrebbe essere una ricognizione masochistica nell’espressione del dolore del compagno prima del “grande salto” – solo scritta: il volto dell’uomo non lo vediamo nella sua sofferenza, che è concentrata sulla scrittura. Ritorno al grumo di sangue, a quel rosso che è filo rosso, appunto, conduttore d’elettricità demoniaca, di tutta l’opera.

Tempo fa guardavo la bella bocca di una donna con la quale volevo, detto con l’ironia dei non puri di cuore, carnalmente congiungermi. Aveva le labbra rosse, e parlando – e ridendo alle mie battute di spirito – la sua bocca faceva una o, che significava finto stupore. Le stavo sparando grosse, come a volte mi capita per colpa dell’ansia, e lei era in un periodo alquanto refrattario di finta innocenza, e così mi faceva vedere con una certa femminile malizia la sua bocca rossa, piegata a vocale tonda. Quella o mi eccitava terribilmente. Ecco, io penso che la letteratura non possa spiegare – perlomeno non lo può facilmente – simili passaggi di senso, o nonsenso. È la commistione di carne e fantasia che porta in alcuni casi alla perversione. Il rosso di quella bocca così rotonda ma non certo grande mi fece pensare subito al passaggio di una aderente fellatio compiuta a mio favore. E allora perché non vedere in molte opere baconiane questi scarti del pensiero acceso e surriscaldato? Il corpo di George Dyer, il modello preferito, è il ricettacolo degli impulsi più puri e anche più biechi; in tale modo molti di questi quadri esprimono l’amore, sempre ambivalente, sempre sospeso tra divinazione e repulsione, dell’artista verso il suo soggetto. Il rosso delle pareti, e della poltrona (pensiamo alla poltrona di Portrait of Lucian Freud) è come una lingua di lusinghe, come la bocca di quella donna desiderata di cui dicevo, o straparlavo, prima. Il rosso è il colore del sangue, del mestruo, della violenza eseguita, come è eseguito il ritratto, come è eseguita l’opera. Non si può scrivere un quadro, ma lo si esegue, come un compito, come un intervento chirurgico. Si scrive con le mani, certo, ma dentro a un codice segnico che lascia spazio totale, e disperso, all’immaginazione. La pittura è qualcosa di puntato a terra, di saldo anche nella mobilità, come i piedi di Bacon nel suo studio, come i suoi piedi striscianti e scricchiolanti che vanno avanti e indietro alla ricerca dell’attacco frontale da compiere sulla tela grezza. Dipingere sulla tela grezza credo fosse per l’artista avere davanti una superficie più dura da trattare, e dunque per imprimerla ci doveva essere più decisione, più slancio, bisognava essere costretti al combattimento, si potrebbe dire, corpo a corpo. Bacon dipinge con slancio. Ha la credenza cieca nell’ispirazione. Non si basava mai su disegni preparatori, che io credo rallentano sempre lo slancio, che sono in definitiva una preopera, uno scartafaccio pittato sul quale riprendere la ripassata magistrale in bella copia, di modo che l’opera diventa una puttana vestita a festa, che è passata dalla sala trucco (lo studio) dopo essere uscita scarmigliata dalla doccia nei disegni preparatori.

Nei pochi quadri che ho dipinto fino a qualche anno fa – si trattava di oli e acrilici su tela e su carta e di guaches-mi sono sempre rifiutato di concepire il quadro, di studiarne le mosse in anticipo. Credo che la pittura, per come io ne ho fatta esperienza, sia una specie di incontro di boxe improvvisato con la propria fantasia. Dico boxe perché c’è un grado di violenza fisica, in tutto questo, che possiamo ritrovare compiutamente nella pittura di Bacon.

Anche Lucien Freud, sodale del grande pittore, nipote del padre della psicanalisi, è uno che pesca da sempre nel torbido proprio e della società, tutta intera, dall’alto al basso. La sua ossessione gli viene dalla più tenera età, quando vide dei morti all’obitorio. E’ interessante osservare che le figure di Freud, donne sfatte e uomini al limite, youngsters nudi in mezzo alla stanza, strani soggetti, la regina, la top model incinta, il collega (come Bacon o David Hockney) sono dipinti a pennellate larghe impregnate di tutti i colori, o quasi, dell’arcobaleno. Questi colori rifratti tra loro, in una pasta che chiamerei miracolosa, rendono i ritratti fluidi, mobili di Freud specchi di una psiche, di un modo di pensare. Guardando un Freud ti rendi conto, quasi, di ciò che sta pensando il soggetto.

Ma per Bacon è diverso. Non è il pensiero del soggetto quello che interessa all’irlandese, se non per interposto pensiero, il suo, sopra tutto, aleggiante come un corvo sterminato. In lui credo si vada più a fondo, proprio perché i suoi volti sono tumefatti da sovrapposizioni di carne, come nel rollare sfrigolante di un un kebab in un negozietto turco. I volti di Bacon sono carne messa ad arrostire, strato su strato, e però ne rimangono integri gli occhi. Il significato della visione ultima sta negli strumenti della visione. Avrete notato, guardando uno dei suoi numerosi autoritratti, o specialmente uno qualsiasi dei mirabili ritratti dell’amico scrittore Michel Leiris, che ciò che rimane vivo in maniera lancinante sono gli occhi. Si ha l’impressione che il resto sia carne arrostita o addirittura marcia, decomposta, finita; e però la vita, ancor di più, per effetto paradosso, fluisce negli e dagli occhi. Questa è l’anima, non ci sono dubbi, o perlomeno mi sento di affermarlo io, a mio rischio e relativo pericolo. Un’anima contiene psicologia, vissuto, ma anche futuro in lontananza. Futuro persino eterno. Se le figure meravigliosamente contorte e sottilmente caricaturali di Freud ci raccontano di uomini e donne senza futuro, soprattutto dopo la morte, a mio avviso negli occhi dei personaggi di Bacon c’è una disperata eternità, c’è l’uomo a immagine di Dio, per qualche perverso intervento della natura raffigurante. Non che Bacon possa esprimere una sacralità per così dire in diretta; ma, come in molte manifestazioni della sua colossale pittura, la sacralità ci proviene per induzione. Come in questo caso, per sottrazione di una carne sottratta a sua volta da uno sguardo realistico, fino a lasciare questi occhi che sono al centro di tutto, in certo modo punto di fuga di tutta la prospettiva della sua arte.

Parlavo della boxe. George Dyer, il giovane amante di Bacon, era un pugile. Il suo volto aveva in dote la tumefazione professionale che forse fece invaghire il pittore – spesso ci si innamora di qualcuno che ha in sè i segni dei colpi di una vita, e si resta avvinti dalla prospettiva di medicarli e dal sospetto che altri colpi saranno inferti a quella figura, e proprio da noi. Come io rimasi invaghito da una bocca femminile rossa piegata ad o – perché sono uno scrittore e, volente o nolente, i simboli del nostro lavoro-ossessione si dispiegano nel nostro privato, soprattutto nella sessualità, lungo canali segreti i cui percorsi sono però non imprendibili da una nostra inchiesta profonda – Bacon presumibilmente vide nei segni scuri e nei gonfiori rilevati sul volto del ragazzo dei motivi di attrazione che pendolavano irresistibilmente dal professionale al personale.

C’è una foto che ho scaricato da Internet e raffigura Rocky Marciano mentre a New York, anno di grazia 1953, difende il titolo dei massimi contro Roland La Sfarza. Non è Rocky che m’interessa guardare, ma lo sfidante alle corde: ha la testa china, le gambe flesse, le braccia accennano una rassegnata difesa; e il viso è all’ingiù, come una lingua di bue molle, come un pezzo di carne sfatta dalla bollitura prima di diventare Montana da scatola; e il naso sembra quello a punta bassa, un naso chino, di Dyer svariate volte ritratto. Voglio dire che nella pittura di Bacon, al di là delle presenza del suo amico suicida, ci sono un sacco di pugili suonati, alle corde, a pezzi. Che non si presentano come tali, bensì in vesti affatto diverse. Bacon rappresenta la sconfitta fino all’osso, fino al midollo di bue dello scannamento al mattatoio della fine. Certi suoi meravigliosi e rossastri cani sono esseri di seconda scelta piegati dallo sforzo di essere cattivi a ogni costo, come i pugili. Se hai nel dna la cattiveria, come il germe della depressione, sei suonato e cattivo e depresso in partenza e vivi con la tara ereditaria della sconfitta esterna e interna fino alla fine dei tuoi giorni.

Mesi fa, mentre scrivevo il mio ultimo libro, mi rimisi a guardare foto di quadri del pittore, quasi come sfoglio copie di Visto o Chi quando attendo il mio turno dal barbiere. Non cercavo insomma ispirazione, ma sollievo dalla mia vita raccontata in quel libro. E’ così: ogni volta che siamo abbattuti e stanchi in modo importante (come direbbe un medico per una patologia qualsiasi) è controproducente la comicità, è micidiale l’incontro anche furtivo con il cabaret, questa degenerazione contemporanea dell’avanspettacolo. E’ meglio continuare a rimestare nel torbido, ma da altra angolazione. E’ l’omeopatia dell’artista provato. Se sei uno scrittore è meglio non tuffarti nella tua stessa materia andando a svegliare gli spiriti persi per la Germania disfatta – Da un castello all’altro – di un Céline, uno scrittore che metto sempre in relazione con Bacon per il suo tentativo inesauribile di raffigurare la sporcizia e le ferite e i gonfiori malati di un’anima umana conscia della propria infelicità, ma sempre con grande vigore, con la rabbia disperata di chi non si sente ancora battuto anche se lo sa.

(Continua.  Immagine: Bill Brandt – Francis Bacon, 1963)

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25 Commenti

  1. A me Bacon ha cambiato la vita, dico davvero. Ogni tanto penso alla leggenda che vuole qualche trattoria dell’Appennino tosco-emiliano esporre alle pareti i disegni con i quali Bacon pagava i pranzi, non avendo moneta in tasca… Io devo accontentarmi dell’affiche della grande mostra di Basilea del 2004.

  2. Bravo Franz! è il caso di dirlo. L’amore per l’arte ci fa sempre sporcare fin nel midollo.
    Mi sembrano interessanti i temi della sconfitta e del confine labile tra umano e bestiale e come essi in questo pezzo dalle tele di Bacon diventino man mano le tue stesse ansie e ossessioni.

    (e pensare che Bacon non è nemmeno poi tanto uno dei miei pittori!)

  3. diciamo che Picasso e Bacon sono le due massime personalità del novecento. Mi è piaciuto l’accostamento a Céline

  4. notevolissimo inizio della lettura di Bacon che Franz sembra immergere, solo per qualche aspetto apparentemente marginale dell’opera, in una gustosità o palpazione personale, per tirarlo fuori ancora più forte, più vivo, più parlante, perchè bagnato da quel liquido amniotico. Impresa che si può fare, anche con la grandiosità di Francis, pur nella complessiva differenza nostra con lui. Basta saper leggere l’altezza.
    Importante anche la distinzione tra Lucien Freud e Bacon. Gran bel viaggio, questo iniziato tra i due!

  5. beh massey per me ci sono stati anche marcel duchamp, andy warhol, jeff koons, maurizio cattelan.

    bacon prima di iniziare un quadro buttava un pugno di polvere sulla tela. il suo studio era coperto di sporco e polvere. dalla forma che restava prendevano vita i suoi corpi.

  6. cara Elena Rosa, la mia intrusione è solo rispetto dovuto a chi se lo merita. Ma non parlare, per lo meno sottaci, l’importanza di Warold e di Cattelan, davanti alla maestosità di Duccio. Che qui sarebbe Becon. Ma dico io, a parte l’ironia troppo facile del pugno di polvere e la conseguente nascita dell’opera, che scontatamente farebbe ribattere: “E beh! Dio non fece così?”, ma sarebbe infinitamente e crostaceamente (da crosta) banale. Però io dico, hai presenti gli autori che nomini? Per carità, a parte Duchamp tanto di cappello, ed essendo anche vero che tutto fa pop-brodo, per l’altro, intendo, che aveva bisogno di un negativo per iniziare ogni quadro, un po’ di cronologia e senso storico della critica..No?! Ho hai paura dello “sporco”?

  7. Sì, come ci sono stati Burri (gigantesco), Fontana, Rothko, Pollock, Bruce Nauman, Beuys, Kounellis, Walter De Maria, Smithson, Long, Richter. Ma questa è un’altra storia…

  8. nolde permeke soutine in difesa, giacometti malevic balla depero cagnaccio in mediana,
    dekoonig gullit van tangerloo in attacco, klee schiele kokoshka ossola palladino spoerri del piero in panchina, elena rosa coach

  9. no no ragazzi li ho messi apposta koons e cattelan perché so delle reazioni davanti all’arte degli ultimi vent’anni.
    ma per la fine degli anni novanta sono stati fondamentali.
    massey coach mai, io sono per le tane. e ognuno ha i suoi artisti e anche i suoi scrittori i musicisti una città e se li ami li difendi con le unghie.

    p.s ruggero solmi i lavori che koons ha fatto con cicciolina sono tra i più puliti che io abbia mai visto nel mondo dell’arte.

  10. Un ritratto visto da uno sguardo illuminato. Non mi piace Bacon, non puo spiegare, la sua pittura mi mette a disagio. L’analisi di Franz mi fa un po’ cambiare questa sensazione di pelle.

  11. “Dipingere sulla tela grezza credo fosse per l’artista avere davanti una superficie più dura da trattare, e dunque per imprimerla ci doveva essere più decisione, più slancio, bisognava essere costretti al combattimento, si potrebbe dire, corpo a corpo. Bacon dipinge con slancio. Ha la credenza cieca nell’ispirazione.”
    Così ho più o meno sempre visto la tua scrittura, Franz. Non so, forse scrivo un’idiozia, ma a me questo splendido pezzo pare l’equivalente di un autoritratto celato. Céline, per assonanza, e non solo.
    Bello, bello. Energia che passa in chi legge e, attraverso l’autoritratto-morte-martirio dell’autore, dona ispirazione e vita.

  12. Vidi Bacon la prima volta a dicembre del 1994 alla Tate – non la nuova, la classica. Bacon stava accanto a Turner, il paesaggista. Non che mi ricordi di Bacon solo per l’impatto, lo iato direi, con la pittura di Turner. Me lo ricordo in sé, per il trittico per la Deposizione in cui le pie donne ai piedi della croce sono figure estenuate, sfibrate, e il loro ghigno scambia un energia sinistra con l’arancio che campeggia a tutta tela. Me lo ricordo anche perché, come faccio sempre dopo una mostra, ho inviato le cartoline di quei quadri, e pochi giorni dopo il destinatario ha fatto sfoggio del ‘ghigno baconiano’, come giorni fa non ha esitato a indicare in un suo discorso certe ‘correspondances’ metempsicotiche (se è chiaro cosa intendo). Diciamo che Francis Bacon reagisce a tutte le mie ferite mentre me le conta addosso. E io nutro per lui una notevole affezione.

  13. Molte grazie a tutti!

    Giuseppe, hai ragione. E poi, ogni quadro è sempre un autoritratto, secondo me.

    Informo che domani va “in onda” la seconda puntata. Ne seguiranno alle tre, fino al 28.

    Goodnight (à la Bacon:-)

  14. “segretario americano di uno dei famosi papi urlanti”. segretario americano di un papa urlante.
    franz se su questa figura ci scrivi un libro viene fuori qualcosa di epico.

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