La città dell’entusiasmo e l’arte dello snooker
di Michele Riccardi
Fece scalpore lo scorso dicembre l’abbandono del tavolo da biliardo di uno dei più grandi giocatori di snooker di tutti i tempi, Ronnie O’Sullivan, durante i quarti di finale del campionato britannico. O’Sullivan si alza dalla sedia, passa il gesso sul cuoietto, va a stringere la mano ad arbitro ed avversario e si avvia negli spogliatoi, bofonchiando: “I had enough of it, mate”. Sono stufo di tutto questo, amico. Si ipotizzò una ritirata tattica: ma O’Sullivan, benché sotto di 3 giochi al meglio dei 17, era in recupero, avendo appena vinto due games, e anche quel giorno aveva già dato segni del suo immenso talento. D’altra parte era il campione mondiale uscente; era l’autore di uno dei century break più veloce della storia; era l’unico, nella storia dello snooker, capace di tirare indifferentemente di destro e di sinistro.
Ronald Antonio O’Sullivan – madre siciliana e padre scozzese, in carcere per aver accoltellato la guardia del corpo di uno dei più grandi criminali britannici – incarna alla perfezione la figura del genio scazzato, una delle maschere più interessanti del carnevale umano. Il genio scazzato è figlio di una generosità avara, di una generosità imperfetta: il Signore gli ha donato tutti i talenti, ma privandolo di un regalo: l’entusiasmo. L’assenza dell’entusiasmo rende tutti gli altri talenti superflui, perché, non essendo entusiasta, il genio non si sente investito di alcuna missione nel mondo, di alcuna vocazione, ma probabilmente solo gravato di un peso. Pertanto tutte le manifestazioni della sua arte, pressoché irraggiungibili al popolo, sono solo figlie dell’umore, del meteo e del caso.
Ma cos’è l’entusiasmo? Il genio di O’Sullivan e la sua arte mi offrono l’opportunità di aprire un dibattito su uno degli stati d’animo più rilevanti della società post-moderna. Analizzando in modo casuale figure più o meno popolari e più o meno conosciute di genio scazzato (sarò disponibile a fornirne una documentata lista, con indirizzi in calce) sono giunto alla conclusione che l’entusiasmo non è altro che una speciale correlazione tra l’individuo e il tempo storico; nel dettaglio, può essere definito come la capacità di un individuo di vivere il tempo presente. In realtà, come prima anticipavo, non si tratta di un reale talento: ma soltanto di un regalo del Signore, che non richiede particolari doti tecniche o cerebrali, anzi, probabilmente non ne richiede proprio. Richiede solamente la buona sorte di averlo avuto in dono.
Teorema 1: L’entusiasmo è la convinzione di sentirsi al posto giusto nel momento giusto, ovvero la convinzione che non si potrebbe vivere in altro tempo all’infuori di quello in cui si sta esattamente vivendo.
Da cui si può derivare la ristretta definizione di cui sopra, quella dell’entusiasmo come capacità di vivere il presente. Ma non basta. La funzione che lega l’entusiasmo al tempo, e dunque alla storia, ci porta ad introdurre un’altra variabile nell’analisi: gli altri individui. In che relazione è l’individuo entusiasta con gli altri diversi da lui?
Teorema 2: l’entusiasmo è la convinzione di sentirsi al posto giusto nel momento giusto con le persone giuste, ovvero la convinzione che le altre persone siano anche esse entusiaste.
L’entusiasmo non è dunque una capacità individuale: è un’abilità collettiva, che solo nel collettivo può trovare conferme e certezze. D’altra parte se un entusiasta fosse l’unico abitante del mondo sarebbe davvero convinto di vivere al posto giusto nel momento giusto? Ecco dunque che l’entusiasta necessita di un continuo feedback dalle altre persone che possa fungere da garanzia, da conferma, da assicurazione, da rassicurazione.
Teorema 3: Un entusiasta che rimane solo è un uomo distrutto.
La stretta correlazione con la storia e la dimensione collettiva potrebbe farci pensare all’entusiasmo come a un sentimento di piazza. Effettivamente ritengo che la piazza, come sede del mercato ma anche del supporto politico e della contestazione, sia il luogo dell’entusiasmo per antonomasia.
Dai comizi di Mussolini passando per Berlusconi, dalle manifestazioni studentesche del ’68 ai cortei del femminismo, dalle sfilate del gay pride al funerale di Don Giussani, dai girotondi al family day, da Genova al meeting di Rimini, la piazza è il luogo dell’entusiasmo. Probabilmente, se si fosse provato ad intervistare qualcuno dei presenti alle manifestazioni sopra citate si sarebbe raccolta la stessa medesima testimonianza: “Sono felice di essere qui, oggi, assieme a tutta questa gente: non potrei essere altrove, questo è il nostro tempo e la nostra presenza”. Che, secondo la definizione offerta in precedenza non sarebbe altro che un’ammissione: “Ammetto di fare parte della categoria degli entusiasti”.
Peraltro l’entusiasmo per com’è stato definito lo possiamo trovare in quantità industriale pure entrando nei locali piu’ alla moda, o semplicemente stazionando di fronte a qualche bar di Milano alla classica ora dell’aperitivo. I ventenni che si riuniscono al Bar Magenta all’uscita dall’università per l’ happy-hour (l’ora felice: mai slogan fu più azzeccato nell’ambito del nostro ragionamento) dimostrano lo stesso entusiasmo, lo stesso livello d’entusiasmo, che dimostravano i loro genitori che al Bar Magenta si trovavano per fondare Lotta Continua. I figli di oggi e i genitori all’epoca avrebbero rilasciato le stesse dichiarazioni: “Mi sento al posto giusto nel momento giusto con le persone giuste, siamo un popolo di entusiasti”. Nell’ottica di questa analisi, non vedo alcuna differenza tra uno slogan gridato da Mario Capanna e un Cuba Libre.
Attenzione, però: si potrebbe credere con quanto appena detto che l’entusiasmo sia un sentimento soltanto giovanile, uno stato d’animo tipico dei ventenni, destinato a scomparire con l’età e la prostatite. Non è vero: essendo un regalo del Signore, l’entusiasmo non va incontro a caducità e svalutazione ma permane per tutta la vita dell’individuo, assumendo solo nuove forme, magari più private, ma di certo non allontanandosi dalla convinzione di essere al posto giusto nel momento giusto con le persone giuste. In questi casi, l’entusiasmo diviene un importante ingrediente per incontri culturali organizzati da ex compagni di lotta, cene del Rotary Club, consigli comunali o meglio ancora comitati di quartiere ospitati in fredde aule di scuole elementari, per protestare contro l’installazione di un ripetitore per la telefonia mobile o il caro-libri. Quando l’entusiasmo si riduce ad una forma ancora più privata, allora può diventare un serio grattacapo per mariti/mogli di donne/uomini entusiasti, e potenzialmente motivo di divorzio.
Prima di passare a una breve fenomenologia dell’entusiasmo e alla relazione che intercorre tra entusiasmo e potere, voglio solo mettere in luce un elemento che reputo fondamentale. Per quanto detto sopra, l’entusiasmo comporta sempre, implicitamente, una adesione. Ma non a una causa, bensì a un movimento, cioè a un gruppo di individui immersi in un tempo storico. La causa, ovvero l’oggetto dell’entusiasmo, di per sé passa in secondo piano:
Teorema 4: Nella logica dell’entusiasmo non è la causa la discriminante tra l’adesione e la non adesione, bensì l’esistenza di altri individui entusiasti hic et nunc.
Tale adesione è un consensus collettivo, è la partecipazione al presente nel mezzo degli altri. E’ solo un “noi, oggi”, senza un “perché”.
Fenomenologia dell’entusiasmo:
Contrariamente a quanto si possa pensare, la principale espressione dell’entusiasmo non è la felicità, ma la commozione. Seguendo in parte il suggerimento di Milan Kundera e di Erving Goffman, l’adesione dell’individuo al patto è realizzata attraverso le lacrime: si tratta di un consensus lacrimalis. La commozione determina più della gioia l’appartenenza al “noi, oggi”; d’altra parte la commozione si fonda, più che la felicità, su delle regole morali standardizzate e codificate nella storia e nella società, e dunque è un sentimento più collettivo della gioia. Ogni club di entusiasti dispone di un decalogo non scritto che spiega nei dettagli quando bisogna piangere, perché bisogna piangere, e come bisogna piangere. D’altra parte le lacrime rappresentano il test da superare per essere accettati nel circolo dell’entusiasmo, per diventare un affiliato, per ricevere la tessera, per sottoscrivere la petizione (perché in ogni club di entusiasti c’è sempre una petizione da firmare), per diventare uno dei tanti del “noi”. Perché quella dell’entusiasmo è un’associazione chiusa, ma sempre pronta ad aprirsi a nuovi iscritti: purtroppo la selezione è ferrea, senza prove d’appello. Se un non-entusiasta fingesse dell’entusiasmo fittizio per entrare nel circolo, verrebbe subito scoperto al test delle lacrime, e interdetto per il resto dei suoi giorni dalla frequentazione del club.
Al contrario la gioia non sembra necessaria nella logica dell’entusiasmo: anzi, la gioia non è nemmeno preclusa al genio scazzato, che può abbracciarla sia nella forma dell’ironia, cioè della gioia attraverso il distacco, ma pure in una forma totale, sublimata, ultraterrena. E’ il caso della gioia del Santo Jullare Francesco, tanto lontana dall’entusiasmo quando prossima alla luce del Signore, o della gioia nipponica di Bill Murray in Lost in translation, pellicola di qualche anno fa.
Entusiasmo e potere
Da sempre, il potere si serve dell’entusiasmo. L’entusiasmo non è mai contro il potere: è sempre per il potere, nel senso che di per sé l’entusiasmo genera forme di potere. L’entusiasmo sottende il potere perché porta con sé le sue due dimensioni fondamentali: quella di controllo degli individui e di controllo della storia. Attraverso l’adesione esclusiva al presente e l’adesione tacita a un patto collettivo, l’entusiasmo permette al potere di manifestarsi: in maniera impersonale, certo, implicita, sottintesa, diffusa, in maniera “democratica”, ma totale. In altri termini, con l’entusiasmo, il potere esiste prima ancora di essere giustificato attraverso il suffragio o il plebiscito. E’ un potere che nasce dal basso, che nasce da un “noi, oggi”.
Il primo ad accorgersi dell’enorme potenziale costituito dal popolo degli entusiasti non è stato il potere politico, che solo negli ultimi tempi, e solo con l’adozione di forme di governo neo-populiste, si è appoggiato sul consensus lacrimalis; ma è stato il potere economico. L’economia post-moderna nasce e prospera grazie all’entusiasmo. L’entusiasmo è l’ingrediente primo della crescita dei mercati finanziari, ma pure il volano dell’economia reale. In una società come la nostra che prospera grazie ai servizi e agli eventi, l’entusiasmo gioca un ruolo imprescindibile: rilancia quotidianamente consumi ed acquisti – altrimenti propensi a decrescere secondo natura; moltiplica le relazioni – ingrediente primo dell’economia dei servizi; diffonde ed amplifica la portata degli eventi; ne accresce l’importanza agli occhi dei potenziali spettatori; attribuisce ad essi un valore economico; e più in generale allontana da una valutazione fair-value di qualunque attività economica, e in ultima istanza rende soggettivo e manipolabile il concetto di valore, permettendo cosi’ l’esercizio dell’economia su qualsiasi esperienza, attività, manifestazione, opera umana. In altri termini, l’entusiasmo legittima il concetto di valore aggiunto; e ad un livello tale che alcuni beni e servizi non hanno altro valore che un surplus di valore.
L’entusiasmo rende uniformi: dietro l’implicita adesione al consensus lacrimalis si nasconde lo spettro dell’omologazione. Per tale ragione il popolo degli entusiasti rappresenta il principale bacino a cui attingono i pubblicitari, perché rappresenta di per sé un pubblico potenzialmente globale: non a caso, il messaggio subliminale di ogni pubblicità non è un messaggio di gioia, ma un messaggio di entusiasmo. La pubblicità post-moderna non vuole convincere il suo fruitore: ma si appella solamente alla sua appartenenza ad un mondo fondato sull’entusiasmo. Che si vendano maccheroni o auto di lusso, profumi o minestre, finanziamenti a tasso zero o conti in banca, il sottotitolo invisibile di ogni reclame recita: sei al posto giusto nel momento giusto con le persone giuste; appartieni ad un popolo di (consumatori) entusiasti. E a ribadire il concetto appare il volto rilassato e sorridente di qualche giovane o di un padre di famiglia, che sospira: “Oh, come sono entusiasta”. D’altra parte l’omologazione collettiva nell’entusiasmo consentirebbe l’utopia del capitalismo: la minimizzazione dei costi attraverso la produzione su grande scala di un unico prodotto standardizzato. La chimera del capitalismo è un mondo che sia, per parafrasare Dominique Lapierre, una unica enorme città dell’entusiasmo.
D’altra parte anche coloro i quali lanciano strali contro l’omologazione si appellano all’entusiasmo del consumatore critico e risultano di per sé degli entusiasti: ecco la retorica sui prodotti del Made in Italy, sull’importanza della Ricerca e Sviluppo, ecco l’entusiasmo per il cibo macrobiotico e lo stile di vita olistico. L’entusiasmo degli oppositori al potere è sempre più entusiasta di quello dei suoi sostenitori.
Ma torniamo, per concludere, al nostro Ronald Antonio O’Sullivan. Il genio scazzato rappresenta l’unico vero nemico dell’entusiasmo. E pure l’unico pericolo per il potere. Il potere non teme gli entusiasti: l’entusiasmo collettivo contro il potere costituito porta con sé il germoglio del prossimo potere costituito, dunque permette al potere di replicarsi. A conferma dell’unità di intenti tra il potere e il popolo degli entusiasti è il fatto che il genio scazzato risulta ospite indesiderato sia degli uni che degli altri. Ad infastidire è il suo continuo rifiuto di aderire al tempo presente, di aderire al “noi”, il suo rifiuto a firmare la petizione (perché nel popolo degli entusiasti c’è sempre una petizione da sottoscrivere), a farsi convincere della bontà e dell’unicità di quanto incluso nei confini della commozione. Il genio scazzato tenta di giustificarsi: “Non è colpa mia, è colpa del Signore, che non mi ha fatto dono dell’entusiasmo”. Ma nessuno ci bada: nonostante il suo talento, il genio scazzato è bandito dalla città dell’entusiasmo. A spaventare è la sua incapacità di versare lacrime, la sua incapacità di commuoversi. Perché è così: la gente non ha paura dei mostri, ma di chi non sa commuoversi. I più speranzosi gli domandano: “Ma possibile che non ci sia proprio nulla, ma nulla, di noi, che ti fa piangere?”. Lui risponde con uno sbadiglio, e passa il gesso sul cuoietto. Se in giornata si lancia in un century break di quattro minuti, altrimenti si ritira negli spogliatoi.
Il genio scazzato è un pericolo perché non rientra, a differenza del semplice genio, nei piani del popolo degli entusiasti. Il genio è utile: col suo talento soddisfa una missione nella storia, nel presente, tracciando la strada per gli entusiasti. Il genio è adorato; di fronte al genio ci si commuove. Di fronte al genio scazzato, invece, si fugge: è un pericolo, con quelle smorfie non fa altro che ricordare che esiste un mondo al di fuori del “noi”, e un tempo al di fuori dell’”oggi”, in cui viviamo, e a cui abbiamo aderito. Il genio dipinge il quadro; il genio scazzato nel quadro ci incide un taglio, per il lungo, alla maniera di Lucio Fontana. “Come possiamo rimanere entusiasti se davvero esiste qualcosa d’altro al di fuori di questi confini, aldilà di questa tavola?”
Ma in fondo non c’è pericolo, e nemmeno bisogno di usare violenza. Il genio scazzato abbandonerà il tavolo da snooker e tornerà nella dressing room senza che gli si debba chiedere alcunché. Sono stufo, bofonchierà, a sé stesso e al pubblico pagante. E si maledirà: se anziché tutti questi talenti avessi solo una lacrima, pensa, una soltanto. Perché c’è solo una cosa che commuove il genio scazzato: il non essere mai riuscito a piantare i piedi su questo paese chiamato terra.
(Immagine: Lucio Fontana – Concetto spaziale, attese – 1964)
10 e lode
Ne scrissi tempo fa, ma questa analisi è molto bella, e il termine è un ritratto di Lucian Freud, di cui O’Sullivan avrebbe potuto essere il soggetto.
La definizione Genio Scazzato è infatti drammatica, sa di condanna dantesca, è diversa da Lewis che corre i cento metri come un lampo e se ne va senza salutare, lui ha in mente i prossimi cento, il limite prossimo da salutare, nella sua solitudine è un genio che ha un fine.
Cosa che manca del tutto a O’Sullivan, fuorchè far contenta la mamma.
Una precocità mal gestita, un potere senza scrupoli, un po’ come il generale Allenby e Lawrence.
Mi sarebbe piaciuto scrivere un commento a questo bel post, purtroppo non riesco a trovare l’entusiasmo necessario per farlo.
Poi lo rileggerò con calma, ma la frase “In realtà, come prima anticipavo, non si tratta di un reale talento: ma soltanto di un regalo del Signore, che non richiede particolari doti tecniche o cerebrali, anzi, probabilmente non ne richiede proprio. Richiede solamente la buona sorte di averlo avuto in dono.” inficia tutto il resto del ragionamento. O’Sullivan, nonostante sia indubbiamente un ‘genio’ dello Snooker, non avrebbe mai raggiunto i livelli che ha raggiunto se non si allenasse almeno 4 ore al giorno: il ‘genio’, da solo’ non ti porta da nessuna parte e credo, almeno per quanto riguarda il biliardo (un paio di campionati italiani vinti e una partecipazione ai mondiali andata male per un braccio stirato) e il gioco d’azzardo di poterlo affermare con cognizione di causa.
Reggere questi ritmi di preparazione non è facile e, al di là dell’entusiasmo [motivazione] che è fondamentale, la spiegazione del suo gesto si potrebbe ricercare nel raggiungimento di tutti i possibili obiettivi (tecnici, sportivi e finanziari) e con la semplice voglia, in quel momento, di uscire da una situazione di stress (quella del professionista) che non è sempre facile da gestire, nemmeno per un ‘genio’.
Leggerò tutto, con calma, ma quella frase iniziale, lo ribadisco, smonta tutto il resto del ragionamento: il ‘genio’, da solo e senza grossi sacrifici e applicazione continua, NON ESISTE.
Blackjack.
Accontentarsi della realtà e tenere i piedi per terra, è una interpretazione della beatitudine sui poveri in spirito (è un’interpretazione che ho letto da poco e che potrei aver frainteso, benché come interpretazione mi piaccia abbastanza).
Mah, mah. In questo testo a tratti brillante mi trovo ad arrovellarmi su due piccole scocciature. Non entro nel merito dell’entusiasmo (come ricondurre ad innocuità l’entusiasmo rivoluzionario?).
L’entusiasmo così importante nelle società POSTmoderna: con questo intendi che non lo era nella società moderna o premoderna? O è solo un vezzo da sociologo français nel tentativo d’irrobustire il testo?
Teoremi, teoremi, teoremi… Vizio tipicamente italiano è quello di definire “teorema” un affermazione priva di fondamento: una credenza – fosse pur vera non cambia – non è un teorema! Le tue non possono che essere opinioni, condivisibili o meno, non essendo riconducibili a prove palesi. Al più si possono, metaforicamente, battezzare “postulati” o “assiomi”. Qual’è il motivo di questa forzatura?
A me è piaciuto molto.
Forse chi lo critica lo scambia per “saggio”, mentre ne ha solo (ironicamente) la forma: è un piccolo pezzo di letteratura. Piacevolissimo e vero.
Del biliardo so poco o niente, ma il pezzo è bellissimo.
Blackjack
quello che definisco regalo del signore non è il GENIO, ma l’ENTUSIASMO. Questo pezzo è sull’entusiasmo, non sulla genialità.
Ciao
Giulio
Ha ragione Alberto Sordo: non è un saggio, è una boutade letteraria.
Comunque non hai torto, quelli che trovi nel testo non sono “Teoremi”. Le definizioni “Assiomi” e “Postulati” forse calzano meglio, ma in fin dei conti non sono nemmeno quelli. Sono solo ricorrenze, che ho notato più volte durante la mia (breve) vita, messe in forma ironica. Tutti qui.
Per quanto riguarda moderno e post-moderno, sono certo che il ruolo dell’entusiasmo nell’era moderna fosse molto più limitato rispetto ad oggi. Sono quasi certo – ma sono un nostalgico – che quello che contava allora non era l’entusiasmo, ma la felicità.
Michele, riletto (tutto) e, sicuramente ho interpretato male quel passaggio ma… la situazione non cambia. L’entusiasmo non è un regalo e, come tutte le altre doti, deve essere coltivato, accudito, cresciuto, anche solo mantenuto.
Dai per scontato che sia ‘qualcosa’ che non costa; cambia il punto di vista, ma resta immutato l’errore di fondo: dare per scontato che ‘qualcosa’ ci arrivi senza alcun costo, senza fatica. Non è mai così.
Blackjack.
Il commento di Giocatore d’azzardo è come quando alla Biennale un decoratore vedendo una porta vecchia, un po’ scrostata gli diede una mano di smalto bianco.
Era un’opera di Marcel Duchamp.
Il commento di Pandiani è come la ‘merda d’artista’ del Manzoni; anzi no, come quei coglioni che l’hanno comperata convinti di avere in casa un’opera d’arte.
Blackjack.
E la cosa più grave è che, a dimostrazione che sono dei coglioni, non l’hanno nemmeno venduta al momento giusto.
Blackjack.
guardate qui: qui era in giornata di grazia. 147 in poco meno di 8 minuti durante il 17 game della semifinale UK championship 2007. guardatelo pure in faccia, non ha la faccia di un attore di b-movie?
il link, sorry:
http://www.youtube.com/watch?v=NtIoJ9Vpubk
Certo… Citando: non siamo mai stati moderni, Michele. E forse nemmeno questo è vero.
Ciao Ricky, davvero un bel pezzo che mi ha dato precchi spunti di riflessione.
Trovo perfettamente azzeccata la definizione di entusiasmo come la capacità di vivere nel proprio luogo e nel proprio tempo e in “simbiosi” con chi ci circonda.
Condivido anche l’idea che sia la commozione e non la gioia a formare l’entusiasmo (quanti nuovi interisti saranno sbocciati dopo il 5 maggio…).
Due le mie principali obiezioni. La prima è quella accennata nel post di Giulio: Perchè associare l’entusiasmo solo alla cosiddetta età post-moderna? Non vedo grande differenza tra l’entusiasmo delle folle trascinate da Hitler alla seconda guerra mondiale e quello delle masse infervorate riunite da Re e Imperatori nel corso dei secoli precedenti… O tra l’entusiasmo della plebe romana al Colosseo e quella degli ultras allo stadio…
Secondo: Tu dici che da sempre il potere si serve dell’entusiasmo in quanto l’entusiasmo genera potere. Giusto. Non condivido però l’idea che il potere non ha paura degli entusiasti. Al contrario spesso il potere teme gli entusiasti proprio perchè non vuole farsi rovesciare da un nuovo potere.
Così il Fascismo temeva gli antifascisti e, dopo la guerra, al contrario, la democrazia temeva (e teme) i fascisti così come i gruppi dell’estrema sinistra.
In sostanza non è sempre vero che l’entusiasmo è sempre un’arma per chi è al potere. Anzi, spesso il potere mira ad uccidere ogni entusiasmo, all’apatia. Basta guardare l’esempio dell’Unione Sovietica dagli anni 70 in poi (se non prima ancora). Esaurita ogni energia propulsiva per il regime comunista non era più possibile sostenersi sull’entusiasmo, nè sul terrore staliniano. La strada della sopravvivenza è stata allora quella dell’apatia, che ha permesso comunque all’Urss di andare avanti per altri 20 anni.
Detto questo ancora complimenti e buon proseguimento di soggiorno nella perfida Albione!