Vittime collaterali
di Tiziana de Novellis
[Questo testo è stato scritto a ridosso delle numerose delibere ‘anti-immigrati’ emanate da comuni del Nord Italia, culminate con quella milanese volta ad escludere i figli di immigrati clandestini dagli asili comunali. L’informazione mediatica procede a ondate. I rifiuti campani hanno sommerso la cosiddetta “emergenza sicurezza” e sono stati a loro volta sommersi da altre “emergenze”. Non per questo, nel frattempo, la condizione degli immigrati in Italia è migliorata…]
“Mi dispiace che ci separiamo così. Per il funerale non c’è problema, ho già lasciato i soldi all’uomo della legna. Cara sorella, resta a scuola. Cara mamma, abbi cura di te perché il mondo è brutto. Tutti, per piacere, abbiate cura del cucciolo. Razvan”
Dedicato a Razvan Sulicuc, impiccatosi a 11 anni nella sua baracca di Cariesti, un mese dopo la partenza della madre per l’Italia alla ricerca di lavoro. (da “la Repubblica”, 12/11/2007)
Molte persone oggi, commosse dalle “cronache degli orrori” che i nostri mass-media diffondono con profusione insopportabile, credono che, per effetto di una gigantesca ondata migratoria o per una costituzionale debolezza dei sistemi di controllo dell’ordine pubblico, o per qualche altra causa, stiamo entrando in un periodo in cui “pericolo” e “rischio-immigrati” dominano la vita quotidiana. Per rendersene conto basta sfogliare i giornali e leggere il lungo elenco di provvedimenti anti-immigrati presi in diversi comuni del lombardo-veneto. Nessuno di questi provvedimenti è povero di contenuti atroci. Anche se la potenza della legge, a questo riguardo, è quasi priva di importanza. Al fine dell’emarginazione sistematica, il diffuso movimento xenofobo è uno strumento più efficace delle leggi.
Proporrei questo postulato: si è sempre razzisti verso gli emarginati. O almeno, per non negare valore alla solidarietà sociale, si potrebbe sostenere che, senza un reale impegno solidale, si è sempre razzisti verso gli emarginati. Il grado minore o maggiore di razzismo diffuso nella nostra società dipenderebbe così dall’impegno sociale individuale e collettivo. Non mancano persone che, sia per cultura nazionalistica, sia per egoismo, sia perché confondono la sicurezza della loro vita quotidiana con l’insensibilità, sia, infine perché privi di apertura mentale, si adattano bene al razzismo o lo considerano come un dettaglio indifferente. Costoro, se il postulato è valido, sono di fatto razzisti.
Viviamo in un’epoca in cui la relativa “sicurezza” degli italiani, che la gran parte della classe politica e dei mass-media reclama a gran voce, è ampiamente controbilanciata dalle disastrose condizioni di esistenza di interi gruppi etnici causate dal sistema dell’economia globale. Se il pericolo è così grave, è di certo dovuto alle disuguali condizioni di vita che l’economia occidentale ha diffuso sull’intero pianeta. Ma questo sistema non si aziona da solo, e non è “onesto” voler far ricadere sui più deboli – “vittime del sistema” – una situazione di cui l’Occidente sviluppato porta la piena responsabilità. L’arma che si vuole adoperare, poi, per garantire “sicurezza”, vale a dire la lunga lista di ordinanze e circolari comunali, ha un carattere comune che, malgrado le apparenze, ne costituisce il vero pericolo: la xenofobia. Nel corso della storia umana è possibile verificare che i conflitti più feroci e accaniti sono, in assoluto, quelli “razzisti”. Le loro conseguenze disastrose sono la chiave di lettura della nostra epoca. L’Occidente è ormai divenuto il simbolo di tutto ciò che diceva di non voler fare e che, invece, ha fatto. E la sua crisi, le sue incertezze, le sue fobie originano proprio da questo.
Nel perverso meccanismo innescato dall’inarrestabile “macchina” dell’economia globale si inserisce il complesso problema della società multietnica. “Sicurezza” e “immigrati” sono oggi forse le parole più usate dai nostri mass-media. Si nota sin troppo spesso, che, in un gran numero di sondaggi, in ogni genere di emittenti televisive e giornali, si fa appello al pericolo “percepito” dagli italiani in relazione alla presenza di “immigrati”. Il rischio xenofobo continua a suscitare emozioni collettive, mentre la parola “razzismo”, parola di sinistra memoria, è bandita tra gli spettri del passato. Quasi che giornali e politici raccomandassero xenofobia ma senza razzismo, sicurezza ma senza discriminazione, espulsioni di cittadini comunitari ma senza nazionalismo, allontanamento dalle scuole ma senza emarginazione. Ciò è assai grave.
Il più grande paradosso del “bel paese” è il fatto che non solo richiediamo e utilizziamo, senza troppi scrupoli e senza andare troppo per il sottile, immigrati regolari (3 milioni e 700.000, il 6,2 per cento della popolazione) e non, per ogni genere di lavoro che ci fa comodo, a basso prezzo e senza garanzie (un esercito di badanti, manovali, braccianti agricoli, operai di ogni specie), ma che ostacoliamo in ogni modo possibile l’integrazione di queste persone nelle nostre istituzioni sociali. E anche quella dei loro figli. Perché mai un figlio di immigrato, per giunta clandestino, dovrebbe andare a scuola e, per giunta, a nostre spese? Tanto cosa importa: mica sono italiani! A furor di popolo la soluzione migliore sarebbe che gli immigrati venissero qui senza inutili fardelli familiari. Cosa che tra l’altro succede, anche senza l’ordinanza del sindaco di Milano, che nega ai bambini immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno l’iscrizione alle scuole materne. In Romania, nel 2006, sessantamila bambini (dati dell’associazione rumena per i diritti dei bambini) sono rimasti a casa senza genitori, affidati a familiari o relegati in orfanotrofio. Vittime collaterali che non interessano a nessuno.
Cosa conta l’integrazione sociale e l’istruzione di un bambino straniero a confronto della necessità di istruzione di un bambino italiano? Può essere relegato nella sua baracca da clandestino. Può essere rimpatriato con la sua famiglia, ammesso che ne abbia una. Può essere sfruttato da mercanti di bambini, a ricerca di carne fresca per i ricchi pedofili. Può mendicare per strada. Può quasi tutto, a condizione che non vada a scuola sottraendo risorse alla comunità. Coloro che, nelle squallide retrovie urbane sono ipocritamente definiti “stranieri irregolari”, sono in realtà trattati come “rifiuti umani”, come minaccia alla sicurezza e al benessere sociale, o, nella migliore delle ipotesi, come cittadini a diritti “ridotti”.
La Convenzione sui diritti dell’infanzia (approvata dalle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con una legge del 27 maggio 1991) sancisce che “gli Stati parti si impegnano a rispettare i diritti enunciati” e a “garantirli a ogni fanciullo che dipende dalla loro giurisdizione”, “a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione” (art.2). Questi diritti comprendono il “diritto alla vita” e “alla sopravvivenza” (art.6); la tutela “da ogni forma di violenza, di oltraggio”, “di maltrattamenti o di sfruttamento, compresa la violenza sessuale” (art.19); la tutela della salute e il poter “beneficiare di servizi medici e di riabilitazione” (art.24); il diritto all’educazione e il poter accedere all’“insegnamento primario obbligatorio e gratuito per tutti” (art.28); il diritto “a professare e a praticare la propria religione” (art.30). In modo vario, molti di questi diritti, sono stati negati dalle diverse ordinanze comunali dei comuni del lombardo-veneto.
Se si considerano i dati presentati a New York il 10 dicembre 2007 dall’UNICEF, nei Paesi in via di sviluppo, anche se l’incidenza dei bambini sottopeso è diminuita, rispetto al 1990, dal 32 al 27 per cento, tutt’ora 143 milioni di bambini nel mondo soffre di denutrizione. Polmonite e malaria sono responsabili del 27 per cento delle morti annue di bambini con età inferiore ai 5 anni. La mancanza di servizi igienici basilari e di acqua potabile contribuisce, a sua volta, alla morte di un milione e mezzo di bambini per infezioni intestinali. (Nel 2004 il 41 per cento della popolazione mondiale non usufruiva di servizi igienici adeguati). C’è da considerare, infine, che in molti Paesi i nuovi contagi da HIV sono concentrati tra giovani e bambini, e costituiscono il 40 per cento dei 4,3 milioni di nuove infezioni registrate nel 2004. (Dati del database globale UNICEF).
Nonostante i dati a dir poco allarmanti diffusi dall’UNICEF, negli ultimi due anni, gli aiuti pubblici allo sviluppo (APS) devoluti dall’Italia ai Paesi in via di sviluppo, sono diminuiti del 41 per cento (Rapporto del CONCORD, organismo europeo che raccoglie oltre 1600 ONG, del maggio 2007). Nel 2006 l’Italia ha destinato 2,9 miliardi di euro in APS, ma di questa somma 1,3 miliardi sono stati utilizzati per la cancellazione del debito di alcuni paesi, tra cui Iraq e Nigeria. Ciò significa che il 44 per cento della cifra stanziata nel 2006 non ha portato alcuna risorsa concreta ai paesi più poveri. In sostanza, solo lo 0,11 per cento del PIL è stato destinato dall’Italia in aiuti allo sviluppo. Una performance a dir poco deludente considerando che il nostro paese ha sottoscritto, al “Millenium goals” delle Nazioni Unite, l’impegno di raggiungere lo 0,7 per cento del rapporto APS/PIL entro il 2015.
E non meno allarmante risulta essere la condizione di vita dei bambini migranti non accompagnati, vittime di un perverso sistema di sfruttamento e di abusi. In Italia, i minori stranieri sono un gruppo sempre più numeroso. Secondo il rapporto annuale dell’organizzazione non governativa “Save the children”, i minori stranieri non accompagnati presenti in Italia al 31 marzo 2006 erano 6358. Un numero sicuramente inferiore alla realtà, poiché molti di loro non entrano in contatto con istituzioni e servizi sociali, sopravvivendo ai margini della società. Di questi, il 37,5 per cento proveniva dalla Romania, il 20,4 per cento dal Marocco, il 16 per cento dall’Albania, per la restante quota dall’Afghanistan e dall’Africa sub-sahariana. L’80 per cento dei minori stranieri ha un’età compresa tra i 15 e i 17 anni, il 20 per cento tra i 7 e i 14, ma non mancano bambini con età inferiore ai 7 anni. Giungono in Italia dopo viaggi terribili (talvolta possono durare anni), generalmente organizzati da trafficanti e contrabbandieri, per costi di 3000–4000 euro, pagati dalle famiglie ma, più spesso, dai bambini stessi. Mossi da povertà estrema, guerre, conflitti, dittature feroci, queste piccole vittime, se sopravvivono al viaggio, giungono nel nostro Paese nella speranza di una vita migliore. In Italia, per la gran parte di loro, li attende un destino di accattonaggio, furto e prostituzione coatta. È il modo in cui dovranno ripagare il debito contratto con i mercanti di “schiavi”. D’altronde nessuna tutela, nessuna forma concreta di accoglienza è prevista dalle istituzioni italiane. Sopravviveranno in piccoli gruppi, dormendo in edifici abbandonati o in provvisorie baracche, rubando e prostituendosi. In questo modo il passo verso il carcere minorile è breve. (I minori stranieri sono l’83 per cento della popolazione degli istituti penali minorili a Roma, l’87 per cento a Milano, il 90,6 per cento a Firenze, il 67,5 per cento a Torino).
L’umiliazione continua, quasi metodica, dei ceti sociali più deboli è un fattore essenziale della nostra organizzazione sociale. Ma verso gli immigrati raggiunge un grado assai più elevato. Antisociale, se non disumano. Se fosse applicato all’interno della comunità dei cittadini italiani il sistema di emarginazione e di esclusione sociale adottato per gli immigrati, si sovvertirebbe l’intero ordine sociale. Ciò nonostante, la sistematica esclusione, l’emarginazione legalizzata è, ormai, divenuta prassi. In queste condizioni, fare di questo sistema “razzista” una regola politica, attraverso leggi dello Stato, è veramente il colmo dell’incoscienza. Certo ci sono sempre stati emarginazione, povertà, miseria, condizioni di vita ai limiti del possibile, ma l’elemento che caratterizza la nostra epoca è che riguardano gli immigrati. E questo delinea il quadro di un nuovo “darwinismo” della sopravvivenza. O di un vecchio “razzismo”, che dir si voglia.
Ogni volta che in uno Stato si assiste al cinico trasferimento di privilegi e di beni verso determinate fasce sociali “nazionali”, bisogna innanzi tutto porsi il problema della coscienza, individuale e collettiva. Certo, gli italiani, dal punto di vista nazionale, hanno tutti un’ottima coscienza. Ma ci sono diversi modi di averla. Gli italiani sono quasi tutti convinti che quello che l’Italia ha fatto, fa, e farà, nei confronti degli immigrati – salvo rare e isolate “eccezioni” in piccoli comuni padani privi di rilievo – è giusto e buono. Ma questa persuasione è astratta e cieca, perché è quasi sempre accompagnata dalla cattiva coscienza di chi non vuol vedere. L’Italia dei campi profughi mostra il volto di una miseria tanto devastante e cinica quanto oppressiva e feroce. Una miseria che sopravvive tra l’indifferenza della comunità e la negligenza delle amministrazioni. Non è sufficiente, per avere una buona coscienza, difendere dei principi astratti. Bisogna essere coinvolti in un ambiente in cui tutta l’attività sia diretta, in maniera effettiva, in senso contrario alla miseria dell’emarginazione. La nostra solidarietà non può essere fatta di parole, per essere efficace bisognerebbe che fosse costituita di una realtà concreta di vera integrazione sociale.
La trasformazione del mondo indotta dall’economia “globale” ha accentuato ancora di più le differenze sociali, determinando l’arricchimento di pochi, se non pochissimi, e in misura sempre maggiore. L’accentramento dei poteri economici è un fenomeno che è sempre esistito ma che ora permette la moltiplicazione degli utili, perché “globalizzazione” significa controllo economico del mondo attraverso strutture di potere sempre più “selezionate” e “sofisticate”, non più localizzate in singoli Stati, ma in intere parti del mondo. In sostanza, la causa prima dell’emigrazione di massa è l’Occidente stesso. Questo, però, potrebbe – e dovrebbe – essere considerato come uno dei pochi aspetti positivi del fenomeno globale. Nel mondo del terzo millennio, la libera circolazione di uomini liberi – liberi anche dalle origini etniche – può significare non soltanto aumento dei conflitti sociali e della criminalità, ma una più ampia e benefica convivenza che potrà avere come effetto prosperità e democratizzazione, che potrà trasformare il nostro stanco e invecchiato paese in un luogo più libero, più vitale, più civile. Un luogo dove “diversità” può divenire emblema di “civiltà”.
Ultimissime dalla zapateriana “Alleanza delle civiltà”. La regina di Giordania vuole creare un fondo per girare dei film che rinforzino i vincoli tra culture differenti. L’investimento iniziale dovrebbe aggirarsi sui 10 milioni di dollari e il progetto coinvolgerebbe la gilda holliwoodiana e il portale Internet YouTube. Tutti insieme per spiegare che la mancanza di prospettive è il brodo di coltura del fondamentalismo islamico. Centinaia di migliaia di giovani islamici sono pronti a entrare nel mondo del lavoro e s’incazzeranno di brutto quando non lo troveranno. Come se in Occidente invece ci fosse la piena occupazione, e i giovani fossero tutti belli, ricchi, e pieni di speranza.
Attenzione, problema tecnico: il post è stato postato doppio, cioè a un certo punto si ripete. Un problema di “copia e incolla suppongo”.
Quanto al contenuto non ci sono parole. Mi chiedo tuttavia perché su questioni così delicate viene demandato il potere a Comuni e Regioni. Questo è l’errore di fondo credo. Dovrebbe essere il governo nazionale che se ne occupa; assumendosene di conseguenza la responsabilità.
grazie, cristoforo, provvedo subito
a.
a cristoforo,
non ho riscontrato nessun problema tecnico;
Sulla questione che poni: dovrebbe occuparsene il governo nazionale. E’ fondamentale quanto mostra Tiziana De Novellis e che illustra il discorso di Alain Brossat sulla democrazione come regime costantemente d’eccezione e d’emergenza. A livello di Nazioni Unite abbiamo carte dei diritti che sono progressivamente contraddette a livello di istituzioni di scala più piccola, fino a toccare le nazioni stesse che hanno ratificato quelle carte. E quando non è il governo nazionale che calpesta i diritti, lo è la singola regione. La strada dell’applicazione dei diritti fondamentali del mondo democratico è disseminata di eccezioni.
“E giusto che i figli dei clandestini possano frequentare la scuola?” domanda un sondaggio del Corriere. La SCUOLA, non l’asilo nido. Il 64% risponde “no” (risultato non ancora definitivo).
Visto che la Convenzione sui diritti dell’infanzia (che prevede il diritto all’educazione e il poter accedere all’“insegnamento primario obbligatorio e gratuito per tutti” indipendentemente da sesso, razza, religione, etc.) è legge dello Stato italiano, e visto che l’Italia non è un paese razzista, sarebbe lecito chiedersi, perché mai un sondaggio giornalistico dovrebbe metterla in discussione?
Helena, senti a me, teniamoci a Mastella. Sennò la percentuale sale.
a mali estremi estremi rimedi?!?:-))))))