Berardinelli’s Version
di Linnio Accorroni
Non più tardi di qualche mese fa è apparsa sul “Foglio” di Ferrara una ‘recensione’ (mai virgolettato fu più appropriato) a proposito di un libro di Emanuele Coco, filosofo naturalista, autore di un curioso libello per Nottetempo intitolato Ospiti ingrati. Come vivere con gli animali sinantropici. Un modello di ‘recensione’ perfetta, di mirabile fattura. Un tono suadente e discorsivo, senza sciatteria alcuna, né forzature, senza indulgere mai agli effettacci che abbondano nelle righe di tanta critica contemporanea, che pare spesso più intenta a coniare la frase-slogan da apporre sulla bandella più che allo sviluppo di un discorso critico serio. Non un aggettivo di più in quella pagina, nessun inutile sfoggio di erudizione. Piuttosto la persuasività leggera di una prosa sobria, concisa, quasi percussiva. Paratassi e intelligenza, ironia ed eleganza. In armonica consonanza con il resto, era poi l’explicit con il quale Alfonso Berardinelli terminava quella strana ‘recensione’: “A Emanuele Coco, filosofo naturalista, l’articolo non piacerà. Non solo ho usato il suo libro, ma ne ho abusato. Mi scuso con lui. Le fantasticherie sono mie, la scienza è tutta sua e lo ringrazio”. Non tanto una specie di excusatio non petita quanto piuttosto una indicazione, neppure troppo criptica, di una prospettiva critica da utilizzare, magari nella scrittura della ‘recensione a venire’. E magari proprio applicandola alle pagine di chi ci segnala, in quella splendida clausola, un modello, un percorso da imboccare.
Sono stato uno degli ultimi “happy few” (2000 abbonati in tutto) che ricevevano la rivista Diario scritta interamente (e questa era già una curiosa anomalia nell’ambito delle riviste italiane) dal duo Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli. Ne conservo ancora 3 numeri: il 5, il 9, il 10, che è stato poi anche l’ultimo numero. Usciva senza alcuna periodicità, in maniera illogica e casuale: un anno, sei mesi,… Quando finalmente arrivava era come quando si viene chiamati a una festa a sorpresa. La sua dimensione era quella di una rivista fatta in casa, senza editore e senza pubblicità, tanto povera e spartana dar far inorridire oggi (ma penso anche allora) qualsiasi pubblicitario o esperto di marketing: la copertina, a forma di vecchio quaderno delle elementari, dai colori bigi, le pagine ruvide che sembravano separate con il tagliacarte. Adesso che l’ho riaperta, a distanza di nemmeno troppi anni, esse sono già precocemente ingiallite. La rivista durò dal 1985 al 1993. Così scrive a proposito di essa Berardinelli in Casi Critici (Quodlibet, 2007): “Quello della rivista non era un pubblico di lettori: erano tanti lettori singoli. Un’impresa di artigianato della comunicazione, la confezione di un medium non certo di massa…” Era una rivista idiosincratica e bizzosa, che rifletteva umori e passioni dei due artefici che scrivevano liberamente, senza alcuna costrizione, senza essere coartati mai dalla tirannia del contingente o dalle imposizioni dell’Editore. Scrivevano su argomenti del tutto (o apparentemente) irrelati. Ci si poteva imbattere in un estratto del Gargantua e Pantagruel, o una controinchiesta sul processo Calabresi-Sofri, o riflessioni assortite su tre eroi letterari: Amleto, Andrei, Alceste, traduzioni da Baudelaire, un quadro di Longhi, … A leggerla ci si sentiva come il lettore di Proust evocato da Adorno nei Minima Moralia, quello cioè che è esentato dalla fatica di sentirsi più intelligente di chi legge. Poi per un bel pezzo Diario non giunse più: ne chiesi conto, superando la mia timidezza, a Bellocchio. Del resto, c’era il suo numero di telefono nel sommario…: anche questa all’epoca, oltre che una rarità, era una specie di dimostrazione di stile. Non mi ricordo cosa mi rispose, se fosse speranzoso o no a proposito della continuazione dell’intervista; mi ricordo però il tono garbato e gentile di quella voce senza alcuna mellifluità, corretto da una lievissima raucedine. Un signore attempato che immaginavo elegante e blasé.
A distanza di pochi mesi, sono usciti due libri che, da differenti prospettive, si sono occupati della produzione saggistica di Berardinelli: uno per Quodlibet (realtà editoriale per cui varrebbe la pena rieditare lo slogan ‘piccolo è bello’) intitolato: Casi critici Dal postmoderno alla mutazione. Più di 400 pagine necessarie come un portolano per chiunque volesse addentrarsi, con qualche non inerziale cognizione, nell’esplorazione di quel continente vasto e proteiforme che è il Berardinelli-pensiero. Qualche tempo prima, per Le Lettere, era uscito invece Il critico come intruso, curato da Emanuele Zinato. Ora docente di teoria della letteratura a Padova, Zinato è stato allievo di Berardinelli. E proprio nella prima pagina della sua introduzione l’ex studente rievoca il clima di quei corsi con la stessa calibrata suspence con la quale si rievoca il contesto di una scena primaria: “Il professore appariva pensoso ed ilare a un tempo. Per conoscerci, ci dava da fare dei ‘seminari’ e si eclissava taciturno in un angolo dell’aula. Altre volte, ci leggeva e ci faceva leggere ripetutamente, in attesa del clic, una poesia di Montale, una pagina di Svevo. Quando commentava i testi era straordinariamente reattivo: dimesso, svagato, commosso, ironico, beffardo. Una volta, in piedi, un po’ teso, ci fece osservare qualche istante di silenzio per la morte di Elsa Morante”. Queste righe scritte dalla parte dei ‘banchi’ andrebbero per completezza senz’altro collazionate con altre scritte da Berardinelli, stavolta però da una visuale diversa, quella ‘della cattedra’: “Annoiare (o angariare) degli studenti (giovani esseri umani negli anni più vitali e vulnerabili della propria esistenza) usando dei capolavori letterari, filosofici, artistici è un reato culturale che andrebbe perseguito penalmente. È come deturpare un quadro o amputare una statua in un museo. Quando in un’aula si legge, si commenta, si interpreta un autore, credo che soprattutto chi insegna dovrebbe compiere un piccolo, fondamentale esercizio di immaginazione: dovrebbe visualizzare la presenza dell’autore in carne ed ossa, ben vivo e ben attento, seduto in un angolo, in fondo all’aula, oppure accanto alla cattedra […] Quando apro Leopardi, Tolstoj, Svevo, loro sono effettivamente lì: mi guidano, mi giudicano, mi confortano, mi fanno compagnia. Non posso abusare dei loro scritti e della loro pazienza […] se hanno scritto così bene, con tanta cura, abilità, fatica, perizia tecnica, lo hanno fatto senza dubbio perché non volevano essere né presi alla leggera, né fraintesi, ma invece letti e riletti, capiti, assimilati in quel modo che avviene quando ci si ama: per imitazione, per immedesimazione, per contagio” ( in “Come insegnare letteratura moderna” da Casi critici). Queste ‘istruzioni per l’uso’ tanto pianamente ma decisamente espresse, richiedono una necessaria verifica. Applicandole in corpore vivi, cioè sulla pagina berardinelliana, si capisce che in essa, sia che si parli di postmoderno o di Fortini, di Eco o di Adorno, pensiero e stile procedono sempre appaiati, si muovono all’unisono, pur nella eterogenea gamma di forme saggistiche che Berardinelli sperimenta con assoluta naturalezza: dal diario al giornalismo, dal pamphlet alla satira, dal ritratto morale alla critica testuale o rapsodica. Berardinelli è, anche per questo, per me, un “critico puro”, come Steiner o Debenedetti, tanto per intenderci. Questa definizione al Nostro certo non piace affatto (“la critica pura è un ramo specializzato, un sottogenere, che può andare bene nelle conventicole iperletterarie o negli istituti di ricerca specializzati”) ma continua a sembrarmi la più agevole e chiarificatrice, pensando all’organicità della sua concezione estetico-critica e a come, a partire da essa, Berardinelli legge, vaglia, osserva, interpreta, cataloga. E poi, anche se molti fingono di dimenticarsene, il critico, sia esso ‘puro’ o no, è anche uno scrittore: da qui deriverebbe l’obbligo dello stile, una specie di imprescindibile requisito professionale per coloro che praticano questo ‘strano mestiere’. Invece, a leggere le pagine culturali di quotidiani e riviste, ci si rende conto quanto ciò avvenga raramente. Lo stile di Berardinelli è invece inconfondibile e brillante, caratterizzato com’è da una scrittura a tratti persino icastica, ma sempre baluginante di implicazioni, rimandi, digressioni, connessioni. Più si prosegue nella lettura dei saggi contenuti in questi due libri, scritti in epoche diverse e dietro contingenze diverse (il critico in questione afferma, sposando understatement e narcisismo, di non essere capace di scrivere ‘libri organici’) più ci si rende conto che essi, pur fra tanta pluralità di temi, alla fine offrono un ritratto composito, ma per niente sfilacciato o caotico, del ‘900: il secolo del Moderno prima, del Postmoderno poi, della sua fine e del conseguente inizio di quella che lui definisce come Età della Mutazione. Nelle sue scorribande intellettuali, aliene da ogni deriva metodologista o teoricista, distanti quanto più possibile da quella caricatura intellettuale che sono i ‘logotecnocrati’ (Cases dixit), Berardinelli è critico che sa utilizzare la letteratura non in maniera parassitaria o oziosa, relegandola alle angustie di una disciplina separata e inerte, ma le restituisce una potente compensazione: Berardinelli si ‘serve’ della letteratura ‘servendola’. Anche Andrea Cortellessa, in un suo articolo su TTL, aveva sottolineato questo aspetto scrivendo che Berardinelli è “uno scrittore che parla del mondo mediante la letteratura”. Basta leggere cumulativamente, senza soluzione di continuità, i saggi contenuti in questi due libri per vedere affiorare il tracciato di un pensiero che ci restituisce non solo alla più raffinata ermeneusi saggistica, ma si approssima anche a quello che da sempre è il genere più ‘letterario’ e più ‘esistenziale’ della letteratura, cioè il Romanzo. Nelle sue pagine infatti, sia che riguardino filosofia e società, che poesia e di saggistica, il lettore accorto può rinvenire, in ordine sparso, i topos fondanti lo specifico romanzesco: l’intreccio e la fabula, il colpo di scena, l’agnizione e la fuga, la battuta memorabile e lo scavo psicologico, il tradimento e la riconciliazione, la passione intellettuale e quella carnale, la commozione e la furia, l’autobiografismo dissimulato e l’antagonismo conflittuale, la digressione e l’anticipazione prolettica, la descrizione di un destino che si compie, di una storia che si completa e finisce, da cui poi magari se ne diparte un’altra e un’altra ancora… Per questo Berardinelli è il critico che prediligiamo; per questo ogni sua pagina non pare quasi mai inutile, transitoria, effimera.
“Il professore appariva pensoso ed ilare a un tempo. Per conoscerci, ci dava da fare dei ‘seminari’ e si eclissava taciturno in un angolo dell’aula. Altre volte, ci leggeva e ci faceva leggere ripetutamente, in attesa del clic, una poesia di Montale, una pagina di Svevo. Quando commentava i testi era straordinariamente reattivo: dimesso, svagato, commosso, ironico, beffardo. Una volta, in piedi, un po’ teso, ci fece osservare qualche istante di silenzio per la morte di Elsa Morante”
Con tutto il rispetto per il professor Zinato, di cui apprezzo e rispetto i sentimenti affettuosi per il suo maestro, trovo davvero insopportabile questo modo di scrivere, mi irrita profondamente perché mi pare che lo studio della letteratura, che non ha alcuno scopo pratico, dovrebbe avere però uno scopo estetico, un insegnamento di stile.
Particolarmente insoppprtabile “in attesa del clic”.
E se sembra un OT, beh, non lo è.
Sto leggendo Casi critici proprio in questo periodo, ma non ho niente da aggiungere, poiché anch’io trovo in Berardinelli uno dei nostri critici migliori, forse il migliore tra i viventi noti.
Invece mi piacerebbe sapere se Accorroni conosce e ha già letto i saggi di Manica e Ficara recensiti con entusiasmo da Berardinelli sulla «Domenica del Sole 24 ore» di ieri e, se sì, cosa ne pensa lui.
arridatece Cecchi!
la giusta lettura è quella che sa unire, nel tutto cosmico, arte e letteratura, scienza e matematica, poesia.
Ben vengano riviste così….
Berardinelli è senz’altro un ottimo saggista, ed è anche qualcuno che ha detto cose scomode. Ma proprio per questo, andrebbe trattato con la stessa risolutezza critica con cui lui tratta gli altri. Invece qui ne esce cosi lisciato e imbrillantinato da dar fastidio. E in ogni caso, che tanti begli intelletti di sinistra scrivano per giornalacci non solleva più nemmeno un cenno di disagio, un’interrogativo…
Pagine di cultura e pagine politiche sono ormai definitivamente due universi sganciati, o solo la pagina di cultura è tornata a galleggiare nel nulla, un po’ come nei gloriosi anni trenta del secolo scorso.
tutto bene quando si prende posizione con chiarezza e coerenza, è un modo per misurare la propria prossimità ad una idea di letteratura, per valutare le conseguenze di questo posizionarsi ecc. c’è un però. mi riferisco al pezzo in sè, scritto bene, con un certo mimetismo virtuoso (quando si parla di berardinelli, o di luperini, o per altri versi di g. guglielmi, è virtuoso mimetizzarsi con la chiarezza di stile di costoro).
ed è che sarebbe sempre auspicabile, soprattutto per autori opere (o icone) centrali o strategiche o verso cui si esprime ‘prossimità’, passare davvero a contropelo la loro funzione, il loro potenziale discorsivo (e ideologico): cosa (non) ci dice per il presente quel metodo critico o quella forma letteraria, come possiamo utilizzarla, di fronte a quale muro si arresta, dove e perchè e quali aporie emergono?
l’anticroce, insomma. mi pare gramsci. si parva licet, quando penso a questo (meta)metodo, con uno sguardo (non tanto specialistico, a dire il vero) sulla letteratura del ‘900, penso al libro di antonio tricomi su pasolini. saluti e viva il foglio (o è meglio citati su repubblica?).
@herzog
non ti avevo ancora letto. diciamo mi pare le stesse cose. ma come ce la caviamo con il discorso sui giornali più o meno generalisti e sulle loro firme più o meno simmetriche o a-simmetriche? a parità di ‘scollamento cultura-politica sulle pagine dei quotidiani, a parità dell’autoreferenzialità (da merce in vetrina) delle pagine di cultura, ripeto, è meglio leggere berardinelli sul deprecato o citati che parla tipo del tenente colombo e si piglia puntualmente pure la prima pagina, a destra?
harzman:
contento di pensarla come lei.Purtroppo il Domenicale del Sole24ore lo leggo, per motivi che non sto qui a spiegarle, sempre con una o due settimane di ritardo.
herzog:
certo che il foglio non è quanto di meglio la stampa italiana possa offrirci ( però non è che gli altri quotidiani, da questo punto di vista, siano meglio), ma berardinelli ha cambiato una serie numerosissima di testate e penso andrebbe considerato e valutato su cosa scrive, piuttosto che su dove scrive.
mf:
citati è una delle vittime preferite di berardinelli; su di lui pagine sapidissime e velenose in ‘casi critici’.