Diorama dell’est #8
di Giovanni Catelli
Andel
Come stringi ancora nello sguardo le tue belle, perdute alle domeniche infinite, preda chissà di quali vani svaghi, ancora le trattieni per la mano e mostri cieli di crepuscolo, ampi annunci di fortuna, serpi fiduciose di tram nella distanza, con i fari tardivi a lustrare il filo dei binari : Andel, Hellichova, Ujezd, Malostranska, tutte le stazioni della sera e dell’addio, alle perse giornate vaste come anni, e sigillate nell’attimo, in un chiudersi di porte, un sorso di caffè, un virare di lancette, un morso di labbra e di respiri.
Come vivi ancora senza il loro futile brusio felice, come s’apre il giorno al diroccare delle ore vuote, come suona il nome delle vie mancanti, all’annuncio di stupore che i tram offrivano alla sorte : solo un transito freddo ti precede fra le cose, un dileguare muto di stupori ed apparenze, si fa largo nell’insonnia quel franare di convogli, si fa gelida incolmabile nel buio la tua strada, non è tempo che prometta misura per lo spazio, senso lungo i gesti, vero luogo per la vita ; come attendi un risalire, di fragili bellezze ai pomeriggi, azzurre lungo i venti del marzo luminoso, leste nelle risa e nell’oblio, eppure ferme nel più gelido cristallo del tuo sguardo, irraggiungibili agli inverni del futuro, liete nell’immenso vuoto del ricordo : c’è un valico nell’aria che separa le tue mani da quel tempo, la tue voce dalle frasi che vorresti, ancora sono limpide le stanze ad ospitare gli occhi, ma una sola nebbia di tepori, un polline di risa e sillabe veleggia, lentamente, a nominare i corpi, a duplicare il battito prezioso dell’assenza : come reggi l’ora della sera, quel cristallo che si spezza, unanime, al centro della strada, mentre scrosciano metalli ed ombre alle chiusure, sospesa già la vita lungo i nomi che conservi, al buio, all’avanzare dei selciati, lustri, verso pallidi piazzali di corriere, asfalti, ferrovie, gasometri, al crescere del vero e della notte fonda, ove s’affila ogni materia, si smarrisce luce alle barriere, ti raschia le pupille il vento cieco : già più vicino infido serpeggia il binario veloce, già si fa lama l’acciaio, si tinge il riflesso di luci più fredde, tra i ciottoli s’apre un abuso di notti, risale uno spazio di buio mai colmo, l’asfalto un sottile tessuto di specchi, risoffia sull’ombra lucori e spavento, soffuso di ghiacci stanchezze silenzi, vibra leggero al passare dei tram, ridona l’abisso implacato del tempo, la nera profonda risacca del vuoto.
Spalena-Narodni
Fuggono, le vie della città, come le vene della tua mano, azzurre a ricevere la sera, il vento già freddo a sorreggere l’ombra, fiume di vetro che sospende i tram nella rincorsa, li muove senza dolore o suono, li chiama nella Narodni con gesto invisibile, quasi li arresta nel centro del viale, mentre sparge sereno le ceneri dell’ora : fuggono, le vie, senza risposta, con l’energia serale di chi mente, la destrezza subdola di chi sa una direzione, possiede un avvenire un destino un compenso : che cosa o chi, davvero accelera, nel franare dell’ora, nella cieca sincronia dei tram alla disfatta, con il buio incrostato alle luci allo stridore, il sonno del capolinea soffocato tra le porte, la sirena ferita che piange il partire, chi ci lascia davvero, senza sosta e perdono, alla banchina che accumula venti per chi è solo, ci tradisce ad ogni passo, ad ogni gesto calcolato, infallibile alla meta, imperdonabile al destino : senti nel brusio più vasto nel fragore un ticchettio, minuto, esatto, un meccanismo di segrete conseguenze, un reticolo di tessere che cadono, una ressa ordinata d’abbandoni, un disertare immenso e certo, dopo un ordine muto, una tattica segreta ; chi può restare al presidio del giorno sconfitto, alla soglia promessa di lietezze incessanti, chi veglierà i geli silenziosi, le stazioni del sonno, lo sbadiglio muto del neon, la fame notturna, il caffé senza nome dell’alba, chi può stringere minuti senza prezzo, arresti di lancette senza pena, larghi rintocchi di ritardo, solo il tempo vuoto si possiede, la sua condanna mite, quel ritroso fuggire, l’indolenza distratta, la meta perduta che scioglie il castigo, abbandona le ore nella strada, come cani del buio, revoca i comandi le attese le vendette, ogni singola catena serrata sulla gola.
Namesti Republiki
Eri tu, quel pomeriggio, a traversare Namesti Republiky, ho sempre immaginato i tuoi percorsi obliqui, lenti, fitti di soste, impulsi, variazioni, dubbi, ragnatele di sortite, delusioni, lieve geografia di evasioni corrette, rivolte misurate, smarrimenti, catalogo invisibile di mesi, piogge, sere luminose, temporali, ti rincorro, a volte, col pensiero, nei viali di silenzio che resistono alla vita, inseguo, forse, la mia presenza dissipata, ma ti vedo, numerosa, popolare quegli incroci quelle piazze, le mattine le stagioni, ti vedo, inesauribile, disperdere i confini le distanze, mescolare le cifre laboriose che inseguono il passato, cancellare l’arrivo del futuro, graduale, nel vago limbo cieco del presente, seminare, accorta, ogni singola sua traccia, nel circolo di strade che s’avvolge, minuzioso, intorno al tuo respiro : ti ho seguita, finalmente, nel chiarore interminabile che lasciano i tuoi passi, abito di luce tessuto nelle vie, tenera fermezza di nuove direzioni, per assistere segreto al valico degli anni, a fughe di selciati, polvere d’incontri, pallidi tragitti nella grande sparizione, umidi riflessi nella tesa oscurità : non abbandono, mai, la tentazione della vita, sulla pietra inabitabile che getti alle tue spalle, mi raduno, all’apparire fuggitivo d’una traccia che disponga, l’illusione la memoria, la durata nelle cose, vigilo una lieve inclinazione della sorte, seguo l’affiorare di volti alla scomparsa, vivo di correnti d’aria, di tramonti, aurore lungo il fiume, nebbie, voci di binari, brine, luci di sobborgo, penombre.
Ciao Giovanni!
La tua scrittura è come
un suono di violini
nella notte senza stelle
ero io, si
bentornato…
non dovrei commentare, dovrei astenermi, nessuno mi obbliga a scriverlo, potrei farne a meno e tenerlo per me, ma chi pubblica si espone volontariamente al giudizio, o quanto meno al parere: questi testi di catelli sono davvero brutti e soprattutto sciocchi, cioè liceali.
meno male che non tutti abbiamo gli stessi gusti….
a me non sembrano “testi liceari”, tantomeno sciocchi, e poi, pardon ma
che nesso unisce sciocco a liceare?
ciao
nina
ringrazio di cuore chi segue le mie scritture : è bello sentire questo dialogo a distanza con chi legge…grazie…