Moving on
di Franz Krauspenhaar
Ora poche soddisfazioni, pianeggianti
cumuli di nulla, e sere e inverni, estati,
primavere di nulla sfioccanti, erba e
trine di vestiti di bambole sgonfie,
ricordi paleolitici d’ infanzie scosse,
così niente, sempre, in Europa, la mia
terra defenestrata e muta, singhiozzi
l’accecano. Mentre allora vivevo la forza
bruta dell’esistere da poco, e così andavo
per campi nuovi. Mica sempre normali,
spesso impervi. E fatti di sudore premiato
con poca cioccolata, e speranze di divenire
qualcosa, che non ero che un niente.
Non solo mi pareva, era così. Piccolo e arreso
a tutte le evidenze dell’esistere, senza scopi
veri, incisi. Tutto sembrava potesse appartenermi
ma un giorno, chissà quando. Era nel sogno, convesso
come una lama o un gioiello, in un’attesa dolce
e remota. Così la vita si dischiudeva come un loto
barbarico, ispido, promettente ma chissà quando,
una sorta di certezza, ma dura da sballare.
Con lo zio tanto tennis, le nostre braccia erano ferro
battuto, la mia Bancroft di legno rispondeva ogni sera
fino al tramonto, prima di cena, al campo comunale.
Tra una telefonata e l’altra di mio padre, restavo ore
nel giardino a scrivere, o a sognare, o ad ascoltare
musica classica. Ero diventato anziano da piccolo,
nel Nuovo Mondo invecchiavo di colpo, una volta
in Europa sarei ringiovanito. Nel gioco dei contrasti
enormi, così m’andava l’America, questo nascente
idillio di centri commerciali, di strade senza fine,
di hamburgers e auto truccate, lanciate nella notte,
e drive in, dove vedere Grease nel come eravamo di
ormai allora, un ormai tale da molto tempo.
Lungo l’estate, sui camminatoi, nel sole pieno
s’incontrava l’abbraccio fresco di un cielo
blu di prussia, sembrava disceso dallo spazio,
era qualcosa di oltremarino, come nel guado
d’agosto a Ferry Beach, la spiaggia dei pesci
rossi, come se da un luna park fossero scesi
i regali, le cuccagne, nel mare piatto, atlantico.
Ogni minuto un Hi d’incontro, il buon giorno era saldo,
come a stagno di colazione il dolce pan cake
col maple syrup, lo sciroppo di quell’albero dell’est
come snodato, d’arrampicata da Buio oltre la siepe.
In continuazione grilli parlanti frinivano da film
e libri letti, e poi alla tivù, nei tardi pomeriggi giallo uovo
confluivano come fiumi i jingle, NBC us, l’American Express
con Robert Mitchum, e poi i telefilm dei Chips, le Harley
nell’autostrada pluricorsie, mille raggi d’un sole promesso.
E Bobbie, bellissima e imprendibile, la vedevo scintillare
i bianchissimi denti, come a nuotare per l’aria fine,
i capelli bruni e lunghi, sciolti sulle dune delle spalle
gentili, come il saluto che profondeva all’intorno,
regalo immenso dei giorni e dei sognati abbracci di me,
piccolo tentativo di scrittore alla veranda, tra personaggi
assurdi di commedie, più avanti gettate nell’oblio che
mai più torna, mai più, a più miti ricordi.
In certe sere la radio. In stazioni dalle sigle astruse
che trasmettevano macedonie sonore, tra Genesis
on Broadway, Steely Dan, I Pianeti di Gustav Holst,
suggestivi viaggi senza ritorno della fantasia, per lo spazio,
incontri mai più avuti in tale sostanza siderale
col mistero dell’arte, come sentire le pennellate austere
di un Rothko a sibilare, nella tela dell’aria notturna, fucilata
da particelle ronzanti di sogni avuti e da avere, ancora.
Verso la fine incontrai Mark, il figlio dello zio, andavamo
compatti su quella Toyota utilitaria, bronzea, per le strade
di New York, fendevamo il sole e l’aria quasi marina, un’estate
aggrumata come in certi colori ad olio, fino alla cena,
a mangiare le fettuccine Alfredo, a bere la root beer. Così
lo guardavo negli occhi azzurrissimi di ventenne all’entusiasmo
di tutto, come se tutto fosse da conquistare col putsch
della mano sensibile, troppo. Infatti passarono solo dieci anni,
dieci segmenti di tempo spifferato da un dio pigro e inesorabile,
e quel ragazzo splendente all’altitudine morì, in un’auto credo
diversa, dentro a un garage, lo scappamento aperto, lui lì,
dentro, arreso a se stesso, i sogni sbolliti, precipitati
come picche di carte false, tutte giocate al tavolo sbagliato.
A settembre, dopo tre mesi, finalmente a Flushing Meadows
a vedere i campioni dello sport venerato, con lo zio grizzly,
i giganti dell’epoca. Borg da fondo campo e in rovescio
a due mani, la spallata e il grido d’appoggio, e Solomon,
corto di gambe e metronomo, e Connors, la belva a rete,
che fa brillare la Wilson di metallo nel sole, e Panatta,
mai stato così in forma, che al meglio dei cinque cede
con Borg solo alla fine, di un palmo, di una striscia di suolo
americano. Il rombo delle palline gialle è il concertato
di questo american dream, la colonna sonora della fine,
l’ultimo grido nell’alba spalancata della vita, da lì, e per sempre.
Fino a quando tornai, impregnato come un fumoir
di quel vizio d’essere America, di linguaggio, di slang
di fresca tradizione, di strade incomparabili, di storie
della frontiera, di monti nevosi, campi arati e boschi
fluttuanti, di fiere dal pelo lucente, di suoni di Eagles
sopra soniche particelle d’aria blu tramonto, e smash,
e tanti lungolinea, bellissimi, come carezze a biondi corpi
di donna addolcita nella notte e nello stiracchiarsi
del mattino.
Dalla Malpensa a casa, sulla Capri di papà mi pareva
di viaggiare sull’auto a pedali, ero tornato infante
su due sole corsie, piovigginava dai vetri scuri, l’estate
della prima età adulta era finita, ero una specie d’uomo
che aveva visto la larghezza, la nuova dimensione,
lo statuario alzarsi del Nuovo Mondo contro il mio naso
di voyeur di pasticceria, naso moccioso, naso capriccioso.
Così, appunto, nel 1978, quel giorno di giugno, ero volato
verso New York, nel mio viaggio primo e ultimo
laggiù, con un accompagnatore poeta, tale
Sebastiano Salimbeni, autore di Anabasi o
lezione di umiltà, pubblicato da Guanda.
Che poi scoprii essere un amante delle donne
peggio di come sono io ora. E dire che
ieratico e con la barba bianca sembrava
un poeta, e invece parlava solo della fica
e dei suoi dolci e succulenti derivati.
Ma insomma, dopo l’arrivo al JFK dovetti
prendere un elicottero per il La Guardia,
e così vidi New York dall’alto, nel cielo
azzurro, uno spettacolo per colossi,
per divenuti finalmente adulti, nel colpo
di reni di un volo intercontinentale.
Tutto piccolo, grattacieli sembravano
smossi, cose provvisorie come denti falsi,
ingioiellati nella bocca di un dio urlante.
Braccia di cristallo e acciaio, che si muovevano
verso noi, come per acchiapparci, sbranarci,
Polifemi di rigonfie valvole e pulsanti nodi
acciaiosi, esseri viventi duri come diamante,
braccia colossali sbucanti dal corpo della città
mastodonte. Dio a decine di braccia, come un Kalì
divenuto maschio, appesantito dagli sforzi
d’Ercole clamorosi, puntati verso l’estasi del cielo,
punteggiato da stelle marine, in un acquario
contrastato. Al mercurio, come sobillato dal mare
del mondo, in un planetario scossone armatosi,
pinguedine del mondo, grasso cefalo sguazzante
tra Bering e il Sud hawaiano. New York era sintesi
perfetta di Dio al sole, di cinema e romanzi spessi,
di sogni e incubi risucchiati nella camera da sparo
di un Winchester, al galoppo, nella Secessione.
Quel viaggio fu eroico pur senza cospicui fatti,
io mi sentivo il padrone dell’aria, e gigante tra giganti
in quel Manhattan Transfer, prima di Dos Passos.
E le calde eliche del desiderio muovevano
gli anni americani, gli anni venuti e a venire,
erano simboli di moving on, verso dove, verso
progressi, e successi. E ancora c’erano i razzi
della NASA, quelle avventure dell’ultima frontiera,
così che quel mio viaggio era come d’appoggio
agli astronauti, che mi pareva di andare con loro
per sconosciuti mondi, che per me Taxi Driver
era la fantascienza, e quelle strade bagnate
da lacrime di milioni erano dossi di terra rossa,
la frontiera di Marte, l’ultima spiaggia di un conosciuto
cosmo sulla terra, il termine ultimo, il grande sogno.
(Immagine: Andrew Wyeth – Portrait of John Fitzgerald Kennedy, 1967)
noi le chiamavamo palle.
non “palline”.
quelle da tennis.
Franz, seguo questi tuoi assaggi poetici sempre più frequenti e adesso una supposizione diventa quasi una certezza: ne viene fuori un vero e proprio romanzo in versi… Da quanto ne leggo, mi sembra una gran prova – e di gran coraggio.
Un album di foto che ci permetti di sfogliare Franz. Grazie per questo e pur concordando cpon Giorgio, secondo me il coraggio, nella scrittura,sta nella generosità di darsi al lettore, senza infingimenti, senza sovrastutture.
jolanda
che tipo il Tash
Sì, Tash, noi palline, le vedevamo troppo piccole.
:-)
Giorgio e Jolanda: grazie. Ma non è coraggio, da una vita non so scrivere che di me stesso.
c’é uno sguardo laterale nelle tue cose, Franz, né indietro né avanti, ma un’occhiata alle cose che stanno accanto al presente, sono cose che stanno in posti nascosti da una tenda che é la nostalgia. Togli la tenda
e trovi i tuoi personaggi dolenti.
Non é facile, perché sembrano prose gettate là, come quando la sera si é troppo pigri per ordinare i vestiti, sembrano questo quando non ti riescono, o io giudico che non ti riescono.
Ma sono originalissime e davvero belle, quando ti riescono. Non ci son vie di mezzo. Moving é riuscitissima. Anche nella misura.
ci sono persone che una macchina fotografica la chiamano “macchinetta fotografica”.
conseguentemente un rullo di pellicola lo chiamano “rullino”.
ci sono persone che un progetto di architettura lo chiamano, qualsiasi ne sia la dimensione e/o l’impegno ivi profuso, “progettino”.
se uno mi diceva “mi faccia il progettino” capivo subito che non avrebbe tirato fuori una lira.
una bibliotecaria che mi aiutava nelle ricerche necessarie per scrivere un racconto, questo racconto lo chiamava “raccontino”, anche dopo che gli avevo detto che sarebbe stato lungo una quarantina di cartelle.
ora qui ci sono tennisti che chiamano le palle da tennis come si chiamano quelle da ping pong, “palline”.
io ci rifletterei.
perché se tu chiami “pallina” una palla da tennis devi conseguentemente chiamare “campetto” il campo, “reticella” la rete, “racchettina” la racchetta, devi trovare un diminutivo adeguato per il tuo avversario, devi minimizzare tutto di conseguenza, altrimenti quella “pallina” resta isolata, fuori scala.
Tashteghino, d’accordo.
Buon Natalino.
carino il postino
fem
un matto al mattino tirò un mattone
sì, per scrivere ci vuole un bel coraggio, massime in certi casi e certe cose. altre no. ci vuole solo cattivo gusto.
il Krauspenhaar, invece, non si atteggia, non arpeggia con pepli e corone d’alloro ed unguenti, pronto per la padella, non gli piange il foglio, e neppure il telefono, non gli crolla il cielo, non gli sanguina la luna, le sue parole non hanno lame ed ali, stanno lì dritte fra vocali e consonani a fare il loro umile lavoro, fra i segni di punteggiatura, non si rifugiano nella balla cosmica del non detto: dicono.
auguri franz.
“il rombo delle palline gialle”, ha scritto fk.
tashtego, avesse scritto “il rombo delle palle gialle” sarebbe stato una ciofeca. lo capisci, vero?
saluti, nonostante
rs
@il solmi, lui, insomma.
se chiamo “pallone” quello da calcio, da pallacanestro.
chiamo “palle” quelle da tennis.
chiamo “palline” quelle da ping pong, da golf.
chiamo “biglie” le biglie.
indipendentemente da qualsiasi possibile rombo.
mettere ordine nel linguaggio significa metterlo nel mondo.
ondo.
trombone. non tromba. sei un trombone. questa del mettere ordine nel mondo attraverso il linguaggio è una stronfiata maxima, tashtego. pure un pò fascista.
buon natale e prospero annio nuovo, nonostante.
e saluti,
rs
@il solmi
vedi solmi, sarò anche un trombone, non lo nego, ma non ti ho mai insultato, come tu invece fai regolarmente.
regolarmente evitando ogni argomentazione.
oltre tutto mostri di non capire il carattere ludico di questi miei commenti sulle palline.
Solmi, cortesemente, cerca di capire. Tash è evidente che scherzava; palla, pallina; l’ordine del mondo… Il linguaggio… Tutte cazzate, è evidente.
Buon Natale.
a me fk non pare, non pare proprio.
ricambio per santo stefano.
e saluti,
rs