La mente svuotata e il sogno sciamanico
di Viola Di Grado
“Il viola pallido ricorda la sua bellezza acerba (…) che in questo vento di caducità sarà sparsa, e che adesso tocca questo mondo ed insieme il prossimo”
Chikamatsu Monzaemon, Shinjû ten no amijima (“Doppio suicidio d’amore ad Amijima”, 1720)
Dolls non è soltanto un film di Kitano. È soprattutto un manifesto dell’estetica tradizionale giapponese. Tre storie di esistenze all’improvviso fratturate: il tentato suicidio di Sawako che le ha provocato un danno cerebrale, l’autoaccecamento di un fan di una cantante pop, il ritrovato amore di uno yakuza per un solo giorno. E la cornice, che apre il film e ne sintetizza il nucleo tematico, è una performance del teatro bunraku, il tradizionale teatro giapponese delle marionette. Tutte queste storie si concluderanno con la morte (si potrebbe pensare all’omofonia in giapponese di “quattro” e “morte”). Quello che lega le vicende è il filo rosso che Sawako e Matsumoto trascinano piano, lungo i viali, portando con sé vortici di foglie rosse. Kitano dice di averli visti veramente. Nel suo quartiere due vagabondi camminavano legati da un filo. Per non perdersi, dice lui. Ma per i vagabondi del film il filo è un vero e proprio cordone ombelicale, l’unica speranza di legame tra gradi sociali diversi in una dimensione di estrema rigidità gerarchica. Matsumoto, dopo aver promesso a Sawako di sposarla, si lascia convincere dai genitori a sposare una donna di grado superiore. Sawako allora tenta il suicidio, ma sopravvive con un danno cerebrale. La vicenda riprende quella accennata all’inizio del film, parte della rappresentazione Meido no hikyaku (“I messi dell’aldilà”, 1711), di Chikamatsu Monzaemon. La cortigiana Umegawa implora l’amante Chûbei di smettere di amarla. Loro sono bambole ma mettono in scena un conflitto decisamente umano: il conflitto tra “doveri sociali” (giri) e “sentimenti umani” (ninjô). Conflitto che i personaggi di Kitano porteranno al suo culmine in una morte che è anche scelta estetica. Il paesaggio montano ospiterà il loro ultimo gesto, il bianco assoluto della neve farà da scenario. E i loro corpi, imbalsamati nelle stoffe sgargianti dei kimono, barcolleranno goffi fino al picco.
Alla fine del preludio teatrale le bambole di Kitano si avvicinano allo schermo, timidamente, su uno sfondo nero, e lei si accosta all’orecchio di lui. Come se le tre storie che stanno per cominciare fossero il sogno intimo e strano di una marionetta. Come se le bambole rappresentando vicende umane non le stessero imitando ma inventando, immaginando. E se le bambole inventano le persone sono le persone, al contrario, che imitano le bambole. Sawako e Matsumoto compaiono sulla scena evocati dal sussurro delle marionette. E come loro si muovono a tratti, goffamente, trascinandosi. Seguono gli alberi, la luce, con le facce senza espressione. La gente li addita ridendo, i bambini tirano la corda per gioco. Le stagioni si susseguono e i due sono sempre più silenziosi, i capelli crescono e i vestiti si sporcano. Il film torna indietro a spiegare la storia del filo: serviva per la biancheria e Matsumoto lo strappa per legare a sé Sawako. Perché lei corre come una falena eccitata verso le luci dei camion, ruba giocattoli nei negozi, parla coi fiori dal fioraio e chiacchiera in ginocchio con un angioletto di porcellana. Ma quando lui lega la corda cominciano a camminare insieme, lo stesso ritmo, le stesse pause mute sotto i ciliegi in fiore. Perché il filo è anche un tentativo di espiazione, di livellamento della coscienza di Matsumoto a quella ormai neutra di Sawako. Ma il vuoto della mente di lei non è il vuoto misero e carente delle culture cristiane, il vuoto che si vergogna di una mancanza di contenuto. È il vuoto delle case giapponesi, riempito dai giochi di ombre. È il vuoto che Lao Zi descriveva come la possibilità del vaso di contenere (1), è la mente potenzialmente infinita che si spalanca a una bellezza che nessun altro può fare sua. Sawako con il suo viso senza dolore né gioia è parte consapevole dei prati infiniti, dei tappeti di foglie rosse, degli aceri che ardono di giallo. La stessa natura è vuota, addormentata, sospesa nel tempo. Sono vuote la lastra monocolore della neve e la colonna sonora scarna di Isaishi. Perché non si tratta di mutilazioni di senso, ma al contrario di elisioni costruttive che il senso lo aggiungono. Come la foglia rossa che scivolando tintinannte sull’acqua si sostituisce al sangue del cieco.
E a tratti il vuoto si accende, come le foglie graffiate dall’ultimo sole, e allora Sawako lo guarda e gli mostra la collana che lui le ha regalato quando le ha chiesto di sposarla. Poi il momento di comunicazione umana finisce, e loro riprendono a camminare. Lungo il mare e sulla neve, sui ponti pieni di fiori. Si addormentano e Sawako torna bambola, camminando in sogno lungo una distesa di maschere. Uomini mascherati la trascinano e la squartano, sotto un cielo rosso e nero come dipinto. Fa pensare al “sogno sciamanico”, che rappresentava per lo sciamano il momento decisivo di accettazione della morte dopo un lungo apprendistato basato sulla sopportazione di varie sofferenze fisiche. Questa finale accettazione coincideva con l’acquisizione della consapevolezza che i demoni che lo squartavano in sogno gli erano amici, e distruggendolo lo stavano ricreando (2). E infatti quando lei si sveglia sembra più serena, più consapevole delle sue nuove capacità comunicative. Prende in mano una foglia rossa e la guarda a lungo, come guardando la strada isolata su cui il cieco ha lasciato il suo corpo insanguinato. Si tratta di modi diversi di percepire, come quello del fan che dopo essersi accecato continua per sempre, che sia fortuna o penitenza, a vedere il viso della popstar. E se lo sciamano era l’“outsider”, che poteva comunicare con esseri non umani e per questo era emarginato, isolato dal concetto stesso di società, anche Sawako è completamente sola nella disumanità cerebrale che si è inflitta. Ma ora che ha accettato la sua morte può riempire la sua mente svuotata della bellezza dei paesaggi e a questi paesaggi comunicare, che sia un fiore o una foglia rossa. Come il rosso struggente dei fiori di ciliegio. Che come lei non durerà molto, solo tre giorni dalla fioritura. Ma è proprio per questo che è bello. Questo è il mono no aware: la bellezza che sprigiona in un oggetto la consapevolezza della sua fine imminente. Questo ideale estetico è nato nell’incontro tra il buddhismo e la sensibilità vitalista giapponese. Se il concetto di “caducità” nella spiritualità indiana portava al rifiuto dell’esistenza, simboleggiata dai cadaveri in putrefazione, in Giappone al contrario portava al pieno godimento di un’esistenza che proprio nella caducità ha il fulcro e ragione della sua bellezza. È per questo che Sawako e Matsumoto, nonostante abbiano perso sé stessi lungo la strada, continuano a camminare sotto i fiori. Ed è per questo che la stessa natura li prenderà dolcemente con sé, alla fine, giù per il pendio innevato, accarezzandoli con l’ultimo raggio di sole.
Note.
(1) Anne Cheng, Histoire de la pensée chinoise, Parigi, Seuil, 1997 (trad. it. Storia del pensiero cinese, Torino, Einaudi, 2000, vol. I, p. 181-206).
(2) Carmen Blacker, The Catalpa Bow. A Study of Shamanistic Practices in Japan, London, Allen and Unwin, 1975.
Bel pezzo. E il film l’ho trovato bellissimo
Un solo appunto: c’è anche un vuoto cristiano, kenosis, di grande valore.
La cultura giapponese mi ha sempre affascinata per la sua anima, la leggerezza dell’anima e del corpo. L’assenza è il pieno: tutta la scrittura si legge nel punto inverso, invisibile, il cuore della gemma, il centro dell’acqua. Ho amato il paragone con il vaso aspettando bellezza, l’impronta bianco sul fondo buio.
La morte affascina l’anima giapponese, una morte violente per raccogliere il centro dell’amore. Il corpo è sottomesso al supplizio. Propio mi affascina il legamo di sottomissione, di crudeltà.
Molto bello, questo pezzo.
che atmosfera…
mi è molto piaciuta questa lettura…
in particolare la verità contenuta in questo:
‘la bellezza che sprigiona in un oggetto la consapevolezza della sua fine imminente.’
e in questo:
‘…Perché non si tratta di mutilazioni di senso, ma al contrario di elisioni costruttive che il senso lo aggiungono. Come la foglia rossa che scivolando tintinannte sull’acqua si sostituisce al sangue del cieco.’