Sguardi sulla democrazia violata dai suoi custodi
di Andrea Inglese
(Queste note di lettura sono apparse su il manifesto
Democrazia a geometria variabile:
se Chavez vince, la democrazia ha perso;
se Chavez perde, la democrazia ha vinto.
Questo autunno sono usciti in Francia due saggi brevi che hanno il principale merito di abbinare corrosività polemica e profondità di pensiero. Sono poi accomunati dall’eretica volontà di porre in questione il termine “democrazia”, ormai il più ambiguo e sacro di quelli del nostro vocabolario politico. Si tratta di De quoi Sarkozy est-il le nom? di Alain Badiou (Lignes, 2007) e Le sacre de la démocratie. Tableau clinique d’une pandémie di Alain Brossat (Anabet, 2007). Entrambi gli autori sono filosofi e docenti universitari, ma capaci, nonostante il loro ruolo istituzionale, di non risparmiare il principe da attacchi frontali ed impietosi. E il principe in questione è certo il presidente neoeletto Sarkozy, ma anche e soprattutto una certa tipologia di discorso dominante, che s’impone al di là delle partizioni politiche parlamentari e delle frontiere di classe.
Il titolo di Badiou, “Di che cosa Sarkozy è il nome”, già rassicura il lettore italiano. Non ci troviamo di fronte alla versione francese di un’analisi politica ridotta alla condanna di un solo uomo, considerato come l’eccezione maligna, la cui sconfitta ridarà fulgido avvenire all’intero paese. Sarkozy non è per Badiou la rassicurante origine di tutti i mali, ma l’inquietante e più disinibito portavoce della grande borghesia imprenditoriale. E il suo compito, in quanto mandatario di questa minoranza, non è certo dei più semplici: si tratta di convincere la maggioranza a ritenere come propri interessi e bisogni che le sono estranei. Ma la conquista dell’egemonia non passa per argomentazioni persuasive, bensì per dosi di paura. Quella stessa paura che anche in Italia è divenuta la tonalità emotiva principale con cui o rispetto a cui è indispensabile fare politica.
Si tratta, per Badiou, della “paura degli stranieri, degli operai, del popolo, dei giovani delle periferie, dei musulmani, dei neri provenienti dall’Africa… Questa paura, conservatrice e crepuscolare, crea il desiderio di avere un padrone che vi protegga, anche a patto di opprimervi e impoverirvi ulteriormente”. D’altra parte, nella sua analisi del voto presidenziale, Badiou ritrova all’opera anche sul fronte opposto, quello della sinistra istituzionale, una paura, un’emozione, seppure di natura diversa. È la paura nei confronti del personaggio Sarkozy e del suo lato “poliziesco”, usata dai socialisti per mobilitare voti. Oltre il gioco di rimpallo di queste paure, non c’è nulla che conti per i due schieramenti elettorali: “il mondo non esiste”. Le questioni di politica estera, in tempi di guerre permanenti, non si prestano ad alcun dibattito serio. In queste condizioni, partecipare alle elezioni, è un atto “essenzialmente apolitico”, che sostituisce un definitivo stato di disorientamento a qualsiasi forma d’intelligenza politica.
A questo punto della riflessione, Badiou varca il recinto sacro e scrive: “Il suffragio universale sarebbe la sola cosa che si dovrebbe rispettare indipendentemente da ciò che produce? E perché mai? In nessun altro ambito dell’azione e del giudizio sulle azioni si considera che una cosa è valida indipendentemente dai suoi effetti reali. Il suffragio universale ha prodotto una quantità di abominazioni. Nella storia, le maggioranze qualificate hanno legittimato Hitler o Pétain, la guerra d’Algeria, l’invasione dell’Iraq… Non c’è dunque nulla di innocente nelle maggioranze «democratiche»”. Il punto è che Badiou vuole riaprire uno spazio di riflessione e di pratica politica, che il “democratico” confronto elettorale ha fatto completamente sparire. D’altra parte questo spazio, che per lui coincide con il ripensamento dell’ipotesi comunista, si articola a partire da un’altra storia, rispetto a quella che ha condotto al parlamentarismo contemporaneo. Il conflitto decisivo si realizza oggi tra due posizioni, che non sono riconducibili alla divisione parlamentare tra destra e sinistra. Da un parte, vi stanno coloro che come Sarkozy pretendono non solo che l’ipotesi comunista sia fallita o abbia subito una sconfitta, ma che essa sia in qualche modo definitivamente “impensabile” e “impronunciabile”. In questo modo, però, non è solo la storia dell’ipotesi comunista che viene archiviata, ma qualsiasi possibilità di un’emancipazione delle persone attraverso l’azione collettiva. Dall’altra parte, vi sono coloro che sono determinati invece a difendere la necessità di questo ripensamento e a testimoniare dell’esistenza di questa ipotesi.
Il lavoro di Brossat è meno esortativo di quello di Badiou, ma più sottile ed analitico. In “La consacrazione della democrazia” ciò che viene posto sotto la lente non è un determinato regime politico, ma piuttosto lo spazio discorsivo, da cui tale regime attinge un’incessante energia di legittimazione ideologica e di mobilitazione normativa. Non esiste, infatti, oggetto storico-politico che non sia supportato dal mito “che erige l’evidenza della sua unità, che sostiene l’intuizione della sua presenza, della sua necessità, della sua urgenza – o inversamente del suo orrore”. Ecco, allora, che sarà impossibile indagare la natura della democrazia, come oggetto storico-politico specifico, senza percorrere i suoi frastagliati arcipelaghi discorsivi, senza immergersi nelle correnti immaginarie ed emotive del suo mito. Un mito che è in costante espansione, e che cresce di potenza a mano a mano che il carattere differenziale e l’unità del suo oggetto scompaiono. Non è concepibile un al di là della democrazia, se non in una forma “residuale, caricaturale o isterica (il terrorismo, il negazionismo, l’islamismo)”. Ma come introdurre contorni ed ombre in questa sfera interamente luminosa che rappresenta ormai l’unica forma di governo legittimo?
A questa domanda rispondono le analisi di Brossat, tese ogni volta a mostrare l’articolazione tra “una macchina discorsiva che funziona a valori, a principi, in nome dell’Universale e delle pratiche infinitamente diversificate” che tollerano costantemente proprio ciò che trasgredisce quei valori e quei principi. In altri termini, la democrazia è costantemente in contraddizione con la propria pretesa universalistica, dovendo incarnarsi ogni volta in legislazioni e pratiche caratterizzate da un’infinita varietà di clausole d’eccezione. Ma qui troviamo anche il fondamento dell’“usuale” attitudine delle democrazie occidentali a moltiplicare le legislazioni d’emergenza, proprio in nome della difesa dei principi democratici ogni volta minacciati da nuovi soggetti e circostanze. La democrazia è così, nei fatti, di giorno in giorno sempre più violata, proprio da coloro che ne ritengono i principi indiscutibili e sacri. La consapevolezza di queste contraddizioni non ci permette certo una fuoriuscita dal paradigma democratico, ma avvia almeno, secondo Brossat, un’indispensabile e critica “storicizzazione” di esso.
democrazia fa rima con utopia
fem
Ma queste cose mi sembra che già sono ampiamente osservate nelle scienze della politica. Badiou ha scritto cose più interessanti e in quanto a Brossat mi sembra tutto già detto da tanto tempo e non vedo nulla di nuovo. Meglio Toni Negri!
Trovo l’articolo molto sottile. ma devo confessare che quando leggo il nome di Sarkosy, provo gli inizi di una indigestione. Odio la sua manera di vedere le cose tutte assegnate al capitalismo. Cio che accade nell’ Education Nationale mi fa fremire.
Temo che la lettarutara non interessi i imprenditori che preferiscono il profitto alla cultura. cero ho forse una vista po’ profonda.
PS Ho scoperto il libro di Francesco Forlani : è un libro magnifico, artistico che illustra il testo, con copertina roja e nera. Molto bello: un “ogetto d’arte”.
Ne approfitto per un veloce, ma caro, saluto ad Andrea. Complimenti per gli ultimi scritti su immigrazione e razzismo, stai facendo un lavoro egregio.
Se vi interessa qualcosa sulla Bolivia in particolare sono disponibile a mandarvi materiale.
A presto
Alessandro Cassuto
pezzo molto interessante.
cruciali le questioni toccate.
stampato per rileggere con calma.
il sempre impegnativo inglès.
L’uso sempre più diffuso nelle democrazie occidentali di legislazioni di emergenza – necessario a colmare i “vuoti” delle istituzioni e della politica – è in contrasto con i principi Costituzionali.
Faccio un esempio.
Si dice spesso che i diritti “sociali” non sono veri diritti. Anche se la nostra Costituzione sancisce che tutti i cittadini hanno diritto a “parità sociale” (art. 3) e a “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36). Perciò “parità sociale”, “esistenza libera e dignitosa” definiscono quelli che dovrebbero essere i diritti sociali in uno Stato democratico. Il linguaggio costituzionale è più che mai esplicito. Ciò che accade è che, in pratica, questi diritti sono garantiti solo ad una “parte” dei cittadini. L’eguaglianza “formale” non si traduce in eguaglianza “reale”. Potremmo dire che disoccupati, emarginati, discriminati in base al sesso o alla razza, senzatetto, poveri e poverissimi sono anticostituzionali. Potrebbero, in linea teorica, presentarsi davanti a un giudice e pretendere un lavoro equamente retribuito e una casa dignitosa in cui vivere…
Per questi cittadini meno fortunati, non ci sono leggi speciali (o se ce ne sono non sono mai sufficienti a riscattarli dalla loro condizione esistenziale).
Le leggi speciali sono fatte sempre e soltanto per garantire e rassicurare la vita di quella “parte” di cittadini la cui esistenza è garantita dai diritti. Di fatto, però, i principi di uguaglianza su cui si fondano le nostre democrazie non sono realizzati.
Altro punto. In una democrazia la politica dovrebbe occuparsi in modo concreto di questi problemi. Una politica che possa dirsi attiva e sensibile dovrebbe avere nella sua agenda questi punti al primo posto, occuparsi delle persone. Una politica fatta dagli uomini e per gli uomini. Ma, anche nella politica, i nodi cruciali dell’esistenza umana – “libera” e “dignitosa” – sono formali. Populismo televisivo.
Ma non era già stato Tocqueville (un secolo e mezzo fa) ha mettere in guarda contro la dittatura della maggioranza?
Si può parlare di democrazia soltanto se lo stato è provvisto di quelle strutture e garanzie (separazione dei poteri, stato di diritto, ecc…) che sono in grado di prevenire un’eventuale dittatura della maggioranza.
Alla luce di questo, l’incipit dedicato a Chavez non sembra poi così paradossale…
Tocqueville scriveva quando ancora era possibile “analizzare” comparativamente democrazia e altri regimi politici, scriveva prima che l’oggetto specifico sparisse sotto la proliferazione discorsiva, scriveva prima che il mito democratico divenisse inattaccabile, scriveva prima che la democrazia si trasformasse un’arma ideologica in mano ai più potenti, da giocare a seconda delle circostanze. Tocqueville scriveva un po’ di tempo fa. Qualcosa nel frattempo è accaduto.