Moleskine 4
di Sergio Garufi
Il mio primo incontro con la Letteratura in carne e ossa fu traumatico. Avrò avuto undici anni. A quell’età leggevo avidamente i Canti di Leopardi, era la mia passione monomaniacale. A una cena del Rotary a cui la mia famiglia era stata invitata mi ritrovai seduto a fianco di un signore che sembrava importante, perché tutti gli si rivolgevano con deferenza. A chi passava per salutarlo rispondeva con degnazione, forse infastidito dal fatto che lo distraevano dal suo insistente corteggiamento a una bionda vistosa che gli stava davanti. Mi colpì il suo eloquio forbito che pareva una recita, le pause studiate ritmate dalle boccate di fumo, la gestualità enfatica, il timbro della voce che sottolineava le frasi ad effetto, la finta commozione trattenuta ricordando un collega scomparso poco prima. Mi venne detto che era uno scrittore famoso, ora non rammento neanche il nome. Ricordo però che appena rimasi solo presi coraggio e gli chiesi: “così lei scrive?”, e lui rispose: “no figliolo, io non scrivo, pubblico”. Diventai rosso in viso, il cuore mi batteva forte, e fui contento del fatto che a quella figuraccia non avessero assistito i miei.
Ci pensai molto in seguito, a questa dicotomia, soprattutto nel momento in cui cominciai a scrivere. Mi convinsi che non ero uno scrittore ma uno scrivente. Per diventare scrittore dovevo essere pubblicato. Poi, un giorno, passeggiando con Piersandro Pallavicini, compresi che quella dicotomia era falsa. Eravamo stati avvicinati da un extracomunitario che voleva venderci un libro, qualcosa tipo Imbarazzismi, quei volumi che vengono venduti per strada, e Pallavicini mi spiegò che avevano tirature altissime, perfino 30.000 copie per certi titoli. Capii allora che se non basta scrivere, non basta neppure essere pubblicati. Infatti quei libri venduti per strada, che io stesso in qualche occasione ho comprato senza poi leggerli, sono più un obolo che altro, una forma apparentemente elegante e civile di elemosina. E così un conto è scrivere, un altro è pubblicare, un altro ancora è vendere, ma il gradino più alto e difficile da raggiungere è essere letti, trovare qualcuno che ti presti la sua attenzione, che senza conoscerti decida di dedicarti del tempo per ascoltare quello che hai da dire.
Forse il valore aggiunto dei lit-blog sta proprio in questo. Pubblicare su carta, anche su un quotidiano nazionale che il giorno dopo è consultabile gratuitamente in rete, non dà la stessa sensazione. Ti sembra un’attività onanistica, scrivi e ti leggi da solo. Su un blog hai l’esatta, immediata percezione che le tue parole hanno un peso e un destinatario. Lo spazio dei commenti a volte fa incazzare, somiglia ai microfoni aperti di Radio Radicale, l’anonimato può incitare alla battuta denigratoria gratuita, ma comunque c’è un riscontro, positivo o negativo che sia. E la partecipazione dell’autore nello spazio dei commenti è la prova che quando ti si presta attenzione questa attenzione va ricambiata, perché i prestiti si restituiscono.
Senza volerlo ho usato un lessico economico: “prestare”. Quando fu istituita la prassi dei “debiti” e “crediti” formativi fui scandalizzato. Mi parve un’oscenità il fatto che si inculcasse nei giovani studenti l’idea che nella vita è tutta questione di debiti e crediti. Il lessico economico è diventato l’alfabeto del mondo, ha contaminato pure la burocrazia scolastica. Una domenica, girando per le sale semivuote del Museo del Castello Sforzesco, origliai i discorsi di un paio di amiche sui 40 anni. Questioni di cuore: una delle due doveva essersi separata da poco. Parlava male dell’ex, che evidentemente l’aveva tradita e abbandonata. Anche lì i suoi discorsi erano infarciti di terminologia economica, da compravendita commerciale. Diceva frasi come “ho investito molto in quel rapporto”, “me l’aveva venduta come una semplice amica” ecc. Credo sia qualcosa di ineluttabile, cui non ci si può sottrarre.
Uscito dal museo andai in un bar, dove mi raggiunse più tardi C., un amico conosciuto tramite la mia ex fidanzata. Eravamo seduti al tavolino sul marciapiede quando il suo cellulare suonò. Lui iniziò a parlare e la sua conversazione, che non pareva essere particolarmente importante, tanto che era lui a riattizzarla di continuo, si protrasse molto. Forse indovinando il mio disagio, quando la interruppe mi disse, quasi a scusarsi, “sai, da quando ho la ricarica automatica mi rendo conto di far parlare più a lungo chi mi chiama”. Un sistema perfettamente lecito, anzi istigato da una pubblicità ossessiva, che ti suggerisce che il tuo vantaggio economico dipende da quanto più fai pagare gli altri, in particolare le persone care, cioè le uniche che conoscono il tuo numero di cellulare, a me pare una bestialità. Una bestialità che tutti trovano normale, sulla quale nessuno sembra aver niente da ridire. Non so più chi l’ha detto, credo Noam Chomsky, ma la parafrasi della celebre sentenza di John Fitzgerald Kennedy, “non chiederti cosa tu puoi fare per lo Stato, chiediti cosa lo Stato ti sta facendo”, mi sembra perfetta per illustrare la nostra condizione attuale.
Da quando mi sono separato non ho più visto C. Capita spesso che, assieme alle cose, con una separazione ci si divida pure le amicizie. Mi spiace perché c’era una buona intesa fra noi, avevamo molti interessi e passioni comuni. Chissà, probabilmente non lo rivedrò mai più. In tedesco pare che si chiami Torschlusspanik, “il panico da chiusura del portone”, quella brutta sensazione che ti prende di fronte ai piccoli, inconsapevoli addii quotidiani. Credo sia per questo che mi piace tanto la poesia di Borges che s’intitola Limiti (tratta da El Otro el mismo, del 1964).
Si para todo hay término y hay tasa
y última vez y nunca más y olvido
¿quién nos dirá de quién, en esta casa,
sin saberlo, nos hemos despedido?
Tras el cristal ya gris la noche cesa
y del alto de libros que una trunca
sombra dilatada por la vaga mesa,
alguno habrá que no leeremos nunca […]
Ecco: quel libro riposto sullo scaffale, intonso, che non riusciremo mai a leggere, incombe su di noi come qualcosa che sta a misurare la durata delle nostre vite. Forse, nel desiderio di leggere quanto più possibile, e nella folle speranza che nulla finisca mai per davvero, c’è anche l’illusione di fermare il tempo che scorre inesorabilmente, la finzione di procrastinare l’irreparabile. E chissà che anche la scrittura non nasca da questa paura della morte, come fa il polipo quando butta fuori inchiostro. Ma tutto ha una scadenza, e vale anche per noi quel che sentii dire in un documentario televisivo sugli animali, quando lo speaker spiegò che gli elefanti e le farfalle, pur vivendo esistenze dalle durate molto diverse ( i primi fino a cent’anni, le seconde solo pochi giorni), hanno in sorte lo stesso numero di battiti cardiaci, ossia più o meno tre miliardi.
Il libro di Tiziano Scarpa che preferisco s’intitola Corpo. Tempo fa, durante una festa di capodanno in casa di amici nel centro di Firenze, dichiarai questa mia predilezione a un critico che insegna in quella università. Mi guardò male, sorrise e disse: “davvero ti piace quella fesseria?” Tacqui, non sapevo che rispondere. Solo dopo essere uscito da quell’appartamento, appena varcato il portone, mi venne in mente la battuta giusta. Mi dicono si chiami esprit de l’escalier, quella mancata prontezza di riflessi, perché la battuta giusta ti viene in mente solo sulle scale, quando ormai è tardi. Potessi tornare indietro, gli direi che quando un libro e una testa, scontrandosi, emettono un suono fesso, non è detto che la colpa sia sempre del libro.
In seguito venni a sapere che la stroncatura di quel critico a Corpo non era stata solo orale. Mi chiedo spesso che effetto fa leggere la stroncatura di un proprio libro. Più di venti anni fa, in un dibattito sui giornali, Umberto Eco difese il valore pedagogico delle stroncature, sostenne che uno scrittore, vedendosi stroncato, può correggersi, rettificare errori di fatto. Manganelli replicò che bisognava ignorarle, che questo è il prezzo da pagare perché pubblicare significa esporsi al giudizio del pubblico. Pensavo anch’io così, finché non lessi El mal de Montano di Enrique Vila-Matas, dove si riferisce la prima feroce stroncatura che subì Borges nel 1933 ad opera di Ramón Doll, un critico suo coetaneo. A Doll non era piaciuto Discusión, una raccolta di saggi pubblicata l’anno precedente. Nella recensione si diceva: “Questi articoli, bibliografici per l’intenzione e il contenuto, appartengono a quel genere della letteratura parassitaria che consiste nel ripetere male cose che altri hanno detto bene; o nello spacciare per inedito Il Don Chisciotte e il Martin Fierro“. Per Vila-Matas, che invece riassume bene un pensiero di Alan Pauls, Borges non rifiutò la dura condanna di Doll, ma ebbe l’intelligenza di convertirla in un programma artistico proprio, in pratica traendo guadagno da ciò che molti considererebbero un fallimento. L’opera omnia di Borges abbonda infatti di questi oscuri personaggi subalterni, di queste comparse che vivono di luce riflessa, che seguono come ombre fedeli il cammino di un’opera o di un personaggio più luminosi. Traduttori, copisti, esegeti, interpreti, bibliotecari, annotatori di testi sacri, tutta una galleria di splendidi parassiti, di creature anonime e marginali di cui Pierre Menard costituisce sicuramente l’apice e il coronamento in questa ammirevole etica della subordinazione.
Ad ogni modo, non è improbabile che neppure Scarpa consideri Corpo una delle sue cose migliori. Le sue opere più ambiziose sono altre. A me piace soprattutto per l’andamento, e in qualche misura pure per l’assenza di ambizione. E’ un’autoscopia che prende avvio dall’ombelico e finisce col cuore. Meneghello una volta ha detto che la letteratura è sempre autobiografica. Lo scrittore attinge al proprio vissuto o alle proprie fantasie, ma in ogni caso il punto di partenza è sempre il famigerato ombelico. L’importante è che non sia autobiografico il punto di arrivo. Qualsiasi esperienza, per minima che sia, contiene in sé i semi della realtà a cui appartiene, quasi il DNA del reale. Il difficile sta nell’individuare, estrarre e svolgere quel DNA, solo così la scrittura non resta confinata in una dimensione solipsistica, ma acquista un valore paradigmatico, grazie al quale ciascuno si può riconoscere in quelle parole. Corpo inizia con l’ombelico ma termina coi battiti del cuore, il numero di battiti che ognuno ha a disposizione nell’arco di una vita. Quello per me è il DNA che ha trovato Scarpa. Mi sorprese molto leggere in quel libro che i battiti cardiaci che abbiamo a disposizione sono circa tre miliardi, proprio come per gli elefanti e le farfalle. Il destino di tutte le creature, così come i limiti, è comune.
Il giorno successivo andai a prendere il treno alla Stazione di Firenze. Era la mattina del primo dell’anno, piovigginava e la città era deserta . Passando per via dei Banchi vidi la lapide che commemora il soggiorno in quella casa di Giacomo Leopardi. Abitava lì da solo, in una camera in affitto con due finestre affacciate su Piazza Santa Maria Novella, quando il 4 dicembre 1832, vale a dire quasi 175 anni fa, scrisse l’ultimo appunto del suo Zibaldone dei pensieri. Dice: “L’uomo resta attonito di vedere verificata nel caso proprio la regola generale”.
Ho letto con molto piacere, spesso con un sorriso di condivisione.
Questi Moleskine Sergio, stanno diventando un Diario molto bello, i richiami si moltiplicano, questa flanerie mentale colpisce.
sempre incantata
la fu
L’uomo resta attonito di vedere verificata nel caso proprio la regola generale”.
Bellissimo, Sergio!
Un caro saluto,
Stefanie
Come scrittore superi i gradini dell’essere scrivente, pubblicato, acquistato e letto. arrivi alla speciale categoria della scrittura che dà piacere e che ti tocca.
complimenti.
jacopo
Per quanto mi riguarda, quando mi alzerò da questa sedia, andrò a cercare tutto quello che troverò di Sergio Garufi.
Però vorrei puntualizzare.
Il lit-blog va bene, però qui gli scrittori, perdonatemi, non dovrebbero solo regalare campioncini omaggio della loro arte, non dovrebbero dimenticare che noi lettori amiamo entrare nel merito di quel che si dice ben più di quanto a volte si fa nei commenti. Esercizi di pensiero, oltre che di scrittura. Perché per me, e forse anche per altri come me, il blog è uno dei pochi, a volte tristemente l’unico, (non)luogo dove parlare dei propri interessi. Ho trovato qui riferimenti e citazioni che mi hanno spalancato mondi, autori che ho amato. Fuori da questo computer, credetemi, nell’arco di 24 ore non mi capita quasi mai di parlare di letteratura.
Ditemi,il rischio di chi fa della scrittura il proprio mestiere è forse di perdersi in un perpetuo esercizio di stile? Voglio dire, che, per caso gli scrittori quando scrivono e-mail agli amici sbagliano i congiuntivi? Oppure: nelle lettere d’amore ci mettono lo stile dei loro libri? E come li distingue la fidanzata di turno? Non è semplice curiosità, c’è molto di uno scrittore dietro all’uso che fa della lingua al di fuori del libro, o no? Sono queste (e mille altre ) le cose che da lettrice vorrei sapere, avendo questa preziosissima occasione di confronto diretto.
Sennò la faccenda rischia di diventare, come qualcuno paventa, scrittori che parlano ad altri scrittori e si danno vicendevoli consigli di scrittura, un parlarsi addosso tra addetti a i lavori. Ho forse sbagliato posto? Ditemelo nel caso fosse così.
Quanto a Garufi, verosimiglianza a parte, un undicenne che legge i canti di Leopardi e va alle cene del Rotary, è abbastanza lontano dalla mia, di infanzia, da interessarmi e invogliarmi a leggerlo. (Garufi, non Leopardi)
La differenza tra scrittori e scriventi non si riferiva a chi scrive libri rispetto a chi produce pagine(lessico economico)?
“Corpo” piace molto anche a me, lo riassaggio spesso, ma per “Groppi d’amore nella scuraglia” ero impazzita davvero.
I pretini di Giacomelli? Che bel ritrovarsi!
Grazie.
Monia
Uno scritto che è anche una lezione per chi, come me, avrebbe la velleità di scrivere a sua volta, ma non riesce (per pudore o semplice insulsaggine) a sbozzare il materiale grezzo delle proprie elucubrazioni e si limita a vomitare piccoli e pedestri frammenti di disperante inutilità.
E’ bello che si rimarchi il fatto che, pur con le sua peculiarità di singolo individuo, l’uomo faccia parte di un destino collettivo al quale non si può sottrarre per la sua stessa natura, a meno di compiere un improbabile salto ontologico.
Ho apprezzato molto anche le considerazioni riguardo all’invasione del lessico economico nei discorsi quotidiani. Condivido pienamente, e mi disgusta un po’ che oggi qualunque esperienza umana possa e debba essere non solo descritta e pensata, ma perfino elaborata inconsciamente in termini di profitto o di perdita e che il denaro sia diventato il centro di ogni conversazione, (perfino tra i più giovani, ohimè).
Questi moleskine sono davvero una sequenza genetica :)
(A proposito del numero dei battiti del cuore e di regole generali, mi viene in mente che il Progetto Genoma ha rilevato che i geni umani sono solamente 30.000 circa, anzichè i centomila ipotizzati alla partenza. Sono solo 2000 in più rispetto a quelli di una pianta. Si resta “attoniti” davvero, con le nostre presunzioni antropocentriche. )
Lunga vita ai lit-blog finchè si potranno leggere post come questi!!!
Il cuore dell’elefante batte molto ma molto più lentamente di quello della farfalla… [pare che la percezione del passare del tempo sia però la stessa. Ma dove l’avrò letto? No, mi sembra troppo strano anche se bello da credere. Me lo sarò inventato… ]
Se si mette la virgola al posto sbagliato, la frase di Leopardi assume un significato statistico inatteso: “L’uomo resta attonito di vedere verificata nel caso, proprio la regola generale”.
Mi sono appuntata un sacco di appunti, che lettura densa e bella!!
fem
ho trovato la traduzione della poesia di Borges (tra l’altro da un Garufi’s articolo su altro sito!):
“Se per tutto c’è termine e punto fermo
e ultima volta e mai più e oblio,
chi ci dirà a chi, in questa casa,
senza saperlo abbiamo detto addio?
Fa grigio il vetro la notte morente
e della pila di libri che una tronca
ombra allunga sul tavolo impreciso
qualcuno ci sarà che non leggeremo mai […]”
Posso permettermi un appunto? La traduzione del primo verso della seconda strofa della poesia di Borges mi sembra un po’ troppo libera. Eliminando “tras” si perde l’idea dell’opposizione tra dentro (la stanza con il tavolo e la pila di libri) e fuori (la notte che sta terminando e pertanto non è più nera). Inoltre, “vaga” non significa imprecisa, bensì vuota. Non so, mi pare che la traduzione proposta travisi un po’ il significato in maniera arbitraria…
Invito a rileggere quanto scritto da Monia, soprattutto le sue domande che cercano risposta. Anche io ne ho una, ma per lei: prima dici di volerti alzare per cercare qualunque cosa su Garufi; in finale racconti di come è passata la voglia di leggerlo (Garufi, non Leopardi). Ti contraddici oppure sono io che non ho afferrato il senso?
Placido, scorrevole, avvolgente come uno scialle da fresca brezza. Colto e sereno, sicuro senza ostentarlo. Privo di vibrazioni sofferte, scevro da traumatici impatti, lontano da influenze dolorose. Mi piace questo stile. Mi viene in mente il Po. Il Po in quelle sue anse dalle rive scoperte a causa della scarsità di piogge, in cui puoi godere del respiro delle acque che scorrono, del tepore della sabbia biancastra, della pacatezza del sole primaverile che regala ombre dai contorni indistinti.
@ ilcazolaio Monia dice: [Garufi] è abbastanza lontano dalla mia, (aggiungo anche dalla mia…) di infanzia, da interessarmi e invogliarmi a leggerlo. Non mi sembra che si contraddica con quanto dichiarato all’inizio del suo commento. E sì, qui concordo con te, i quesiti da lei posti meriterebbero davvero una risposta. Curiosità lecite.
sorry, ilcalzolaio
mi ha fatto molto piacere leggere, oltre ai tuoi appunti sempre interessanti Sergio, la traduzione della poesia di Borges….
bello. complimenti!
ma se nei giovani studenti la vita e’ tutta una questione di debiti e di crediti, in quelli universitari, e nei neo-laureati, e’ solo una questione di debiti.
Molto bello, godibile e chiaro.
Veri complimenti a Sergio Garufi.
Però io ce l’ho su un bel po’con ‘sto fatto dell’ombelico.
Secondo me a sproposito se ne parla spesso sui litblog di quest’ombelicaglia diffusa.
Perché è un traslato peggiorativo per dire che uno parla eccessivamente di sè, s’innaricisisce o s’immarcisisce scrivendo.
Ma non sarà meglio dire che uno che scrive caccia fuori i suoi ricordi, elucubrazioni, sentimenti da un certo angolo del suo cervello narciso.
Mi pare che l’ombelico non coni pensieri.
Si potrebbe traslare con lo scrittore eccessivamente attaccato alla sua neuronaglia… boh.
Sarà ‘na cazzata.
MarioB.
l’ombelico altrui conia pensieri. il proprio solo rimembranze edipiche, relazioni interrotte, congestioni.
La Moleskine dovrebbe creare una Serie Garufi. Con questi post dentro, tra un mese e l’altro.
:-)
Bellissimo lo scrittore che non scrive ma pubblica!
Un po’ Out of topic: le moleskine. Entro nella nuovissima libreria Mondadori che ha appena aperto nella mia cittadina. Senza che chiedessi nulla, mi vengono proposti dal proprietario 3 libri a 9 euro, poi l’iscrizione a Notizie letterarie e una tessera della libreria. Per cambiare argomento chiedo se per caso vendono anche agende per l’anno nuovo. “Ah sì, guardi lì, su quello scaffale, me le hanno appena mandate. Le Mollettine, le Molettine, ma come si chiamano? Me le chiedono tutti. Ma cosa sono?”
Grazie a Sergio Garufi per le sue parole di apprezzamento a “Corpo”. (Di passaggio, e lasciando perdere il mio caso, sarebbe forse interessante discutere su che cos’è un’opera ambiziosa – se lo sono quelle che lo esibiscono, o quelle che fanno di tutto per dissimularlo).
Tentativo di avvicinamento a una risposta. E’ un’opera ambiziosa quella che ambisce a essere opera, e non ha altre ambizioni.
Dubbio: è una buona ambizione, l’ambizione a essere opera?
Sfondo del dubbio. E’ bene immaginare la letteratura come l’elenco delle opere? (intendo: come qualcosa di discreto, segnato dalla discontinuità).
O è bene immaginare la letteratura come un continuum?
Alternativa: immaginare la letteratura come l’elenco delle opere e immaginare la letteratura come un continuum, sono due immaginazioni incompatibili?
@Monia
non so se ho capito bene le tue domande, ad ogni modo provo a rispondere per quanto mi riguarda. penso che lo stile sia l’impronta di ciò che si è su ciò che si fa, quindi, volente o nolente, chi scrive se lo porta addosso ovunque, in una recensione o in una lettera d’amore. Io spero sempre che i miei pezzi non si rivolgano solo agli addetti ai lavori, a maggior ragione i moleskine, che sono semplici annotazioni di pensieri su fatti minimi e quotidiani, ma le intenzioni raramente coincidono con i risultati, e su questi ultimi non spetta a me dire. i congiuntivi li sbaglio di frequente, è il risultato di una cultura molto abborracciata, ma mi sto impegnando per ridurli. sulla verosimiglianza di certe mie affermazioni non discuto, ognuno è libero di pensarla come crede, mi spiace solo che questo non ti invogli a leggermi ancora.
@lunkhead
la traduzione di quei versi borgesiani riportata da francesca non l’ho fatta io. sono di madrelingua spagnola ma ho troppo rispetto per il mestiere del traduttore da azzardarmi a proporne una mia. mi limito solo a leggere in originale gli autori spagnoli. cmq le tue obiezioni le condivido, penso che la versione italiana di quel verso non sia soddisfacente.
@francesca e. magni
il cambio di virgola sposta di molto il senso dell’appunto leopardiano, e questa è una bella dimostrazione di quanto conti la disprezzata punteggiatura. mi piacerebbe tornare sull’argomento in futuro, anche per segnalare quel densissimo libriccino che è il “prontuario di punteggiatura” di Bice Mortara Garavelli (edito da laterza). en passant, una volta chiesero a oscar wilde come aveva passato la giornata, e lui rispose: “stamattina ho tolto una virgola, e questo pomeriggio l’ho messa di nuovo”.
@plessus
uno dei saggi italiani che ho riletto più spesso è “Danubio” di Magris, che ha un andamento fluviale simile a quello che tu descrivi, per cui non è impossibile che io abbia tentato in qualche modo di copiarne il ritmo. se ci fossi riuscito ne sarei molto fiero.
@caracaterina
sulla sequenza genetica qualche parallelo si può fare, nel senso che come la doppia elica ritornano ciclicamente certi miei elementi-ossessioni intrecciati fra loro.
@tiziano
io direi che tutte le opere nascono con qualche ambizione, le più riuscite sono quelle in cui l’ambizione è nascosta, come nel famoso esempio dello stile dell’anatra fatto da la capria. in “corpo” io non l’ho vista.
grazie a tutti per l’attenzione.
Caro Giulio, le tue domande sono troppo vaste per me, adesso. Almeno un piccolo tentativo di risposta alla prima, però, mi sembra doveroso abbozzarlo, avendo io proposto di fare una “discussione” (sarei inadempiente, altrimenti). Ma vorrei rispondere a partire da situazioni vissute. Ci sono a volte cose che si scrivono con una certa quota di casualità; ma in quelle cose (di solito brevi), si nota, in seguito, rileggendole, riconsiderandole, una potenzialità: “Potrei sviluppare questa cosa, farne un’opera”. Spunti narrativi che meritano di diventare racconti, o romanzi. Riflessioni che non sarebbe tempo perso, forse, sviluppare in saggi… Ti sarà capitato, no? Che cosa voglio dire, con questo? Che 1. a volte le opere sbocciano a partire da spunti inattesi, ambiscono a essere opere perché lasciano intravedere in sé una potenzialità che sarebbe un peccato non attuare. Ossia, a ben guardare, che: 2. l’opera era già in atto quando l’abbiamo cominciata senza renderci conto di averla già cominciata, e si è fatta riconoscere (è un po’ mistico esprimersi in questi termini – ma esiste per l’appunto anche un misticismo operativo nel dare forma a un’opera, nel credere di riconoscere in una forma ancora non bene definita la potenzialità di un’opera; però, se devo essere sincero, il misticismo lo trovo nel tuo verbo: tu dici: “essere opera” e non: “fare un’opera”; non so se ti seguo: intendi che l’opera stessa ambisce a essere opera? Che – faccio per dire – quattro poesie ambiscono ad averne altre scritte al loro fianco, ambiscono a diventare un libro corposo, eventualmente strutturato in sezioni architettonicamente significative, ecc? Come vedi è solo un esempio, prendilo come tale; una cosa che stava là, magari conchiusa e finitai sé – quattro poesie – ambisce a diventare qualcosa di più, un’opera ambiziosa, ecc. Oppure con “ambizione a essere opera” intendevi tutt’altra cosa e io ho completamente frainteso?). 3. Esiste poi – come non ammetterlo? – un feticismo nei confronti dell’opera, una progettualità cava perseguita come valore in sé, l’ambizione a fare un’opera per la soddisfazione (ansiolitica, a volte) di fare un’opera, tautologicamente… Tanto per parlare in soldoni, o meglio, per tradurre la cosa dall’estetica astratta alle esistenze umane: scrivere un libro per poter dire (innanzitutto a sé stessi, e anche agli altri) di aver scritto un libro… 4. Esiste poi l’estetica dell’appunto, del progetto, dell’abbozzo che lasciano deliberatamente sognare un’ulteriorità più compiuta, un’ “opera” al di là della loro incompiutezza, una perfettibilità indicata ma non raggiunta, o forse mai raggiungibile. L’appunto, l’abbozzo, il progetto dissimulano la propria ambizione a essere opere, o forse negano la possibilità di qualsiasi opera, arretrano, retrocedono il fronte dell’opera al suo progetto, al suo abbozzo, al suo “sogno di un’opera”. O, ancora più radicalmente, non sognano alcunché, sono quello che sono, indefinibilmente, né frammenti (di quale opera sbriciolata?), né progetti, ma semplicemente “scritti”, nè più né meno. Carla Benedetti ha descritto bene questa estetica della forma-progetto in Pasolini.
Perdona queste righe molto sconclusionate.
Leggo solo ora anche l’ultimo commento di Sergio, grazie di aver risposto. Quell’immagine di La Capria la trovo molto discutibile (e perché mai l’ambizione dovrebbe starsene sempre e comunque nascosta? Forse sì, forse no: dipende dall’opera! I poemi omerici iniziano con dichiarazioni ambiziosissime. La Commedia dantesca contiene dichiarazioni esplicitamente ambiziosissime, fra le più ambiziose e “meno nascoste” mai scritte: per questo dobbiamo dire che è poco riuscita?) ma adesso non voglio esagerare, ho già scritto troppo nel commento precedente.
Ma è importante, o utile, dicutere se un’opera sia “ambiziosa”?
A cosa porta?
A parte forse il dire, aveva un’ambizione e non l’ha realizzata, o invece l’ha realizzata?
O anche, avevo un’ambizione e non l’ho realizzata o invece l’ho realizzata.
Mi sembra una domanda che ha un senso se si fa a se stessi, quando ci si chiede che strada si sta percorrendo.
Ma anche se si fa a se stessi, è solo una domanda che esprime, se non il proprio smarrimento, la propria perplessità.
Non è che voglio dare il mio contributo per ammazzare una discussione, è pura curiosità.
Leggendo i post precedenti, non posso che ringraziare chi mi ha direttamente o indirettamente risposto, per me ascoltare discussioni come questa Scarpa- Mozzi è entusiasmante come spiare da dietro una tenda un salotto letterario solitamente precluso o sbirciare nel laboratorio di un artigiano: molto più di quanto sperassi, grazie davvero.
@ Sergio Garufi
Ci tengo a spiegare il malinteso che il mio scrivere ha generato:
“Quanto a Garufi, verosimiglianza a parte, un undicenne che legge i canti di Leopardi e va alle cene del Rotary, è abbastanza lontano dalla mia, di infanzia, da interessarmi e invogliarmi a leggerlo”
è detto male, lo so, ma voleva significare:
a parte il fatto risaputo che non tutto quello che uno scrittore scrive è per forza vero, un undicenne che legge Leopardi e va alle cene del Rotary mi incuriosisce proprio perchè è lontanissimo dal mio modo di vivere,quindi lo leggo. Ho trovato altre cose tue e le ho molto apprezzate, “Il tuffo” in primis, e poi, per i meravigliosi meccanismi che questo non-luogo scatena , sono approdata a cose spassose come “la maledizione del lettore maniaco” o “idolatrie letterarie”.
Che dire. Grazie!
Caro Tiziano, forse è più opportuno che io sposti il discorso dalle ambizioni alle intenzioni, anche perché le prime sono caricate di una accezione di senso troppo negativa. E per la verità la stessa immagine di La Capria era più indirizzata allo sforzo creativo che ad altro, suggerendo che questo non dev’essere visibile (tu parlavi di “dissimulare”) ma restare sotto la superficie del testo, come appunto il vorticoso dimenarsi delle zampe dell’anatra rispetto alla compostezza di quanto emerge. Se invece parliamo di intenzioni e di risultato, e di come difficilmente coincidano, ci avviciniamo anche alla dialettica autore/critico. L’autore si accinge a scrivere con delle intenzioni senza padroneggiare l’esito finale, mentre il lettore e il critico valutano i risultati potendo solo avanzare delle congetture su quella che era la volontà dell’autore. Quest’ultimo non ha solo l’intenzione di scrivere un libro importante, ma può aver l’intenzione di affrontare un certo tema, di dire determinate cose e in un certo modo. E il fatto che i risultati siano diversi, che il punto di partenza non coincida con quello di arrivo, non è di per sé e in ogni caso un disvalore. A volte i testi più interessanti nascono dalla perdita della piena titolarità dei propri enunciati, quando si arriva a dire qualcosa che non si sapeva o si voleva dire, nel senso che la loro buona riuscita è affidata a risorse che sfuggono al pieno controllo della coscienza e della volontà. Succede perché si attinge all’inconscio, che è la parte più profonda, intelligente e sincera di noi. Può suonare misticheggiante pure questa affermazione, e tuttavia credo che tutti abbiano fatto questa esperienza. Basta parlare al telefono con un amico, e può capitare di rispondere a una sua domanda con delle parole che ci stupiscono, che non credevamo facessero parte del nostro bagaglio di pensieri. La scrittura come esperienza insomma, in cui non sai mai cosa ti troverai di fronte alla curva-pagina successiva. Quei pensieri inaspettati possiamo trascriverli su un taccuino, e in questo modo dimostriamo di voler “investire” su quell’idea (per insistere col lessico economico), che in futuro, con ulteriori elaborazioni, potrà magari dare buoni frutti (tu parli di “meritare” un’elaborazione, che sarebbe “un peccato” lasciare così come sono). Certi tuoi brevi scritti recenti sul “Primo amore”, così come queste più modeste moleskine, forse hanno una genesi simile, ossia di abbozzi che ci si riprometteva di sviluppare e che infine si è deciso di pubblicare nel loro stato embrionale. Non so i tuoi, ma i motivi che mi hanno spinto a farlo sono diversi. La comodità, innanzitutto, perché il diario-taccuino è il genere senza attributi per eccellenza, il tipo di scrittura più indisciplinato, che contiene in sé tutte le forme possibili del discorso. Poi come desiderio di esporre il pensiero al suo risveglio, senza gli abbellimenti cosmetici successivi. Poi ancora perché se la vita di ognuno non è un’unità dotata di centro, perché mai deve esserlo la scrittura? E infine una richiesta di collaborazione, perché non mi dispiace l’idea che se vi sono delle potenzialità ci penserà poi il lettore a svilupparle. In questa dialettica, così come in quella fra autore e critico, le incomprensioni sono scontate. La mancata corrispondenza fra ciò che si è voluto scrivere e ciò che si è inteso leggere, cioè l’impossibile incontro fra il libro interiore dello scrittore e quello dei lettori/critici, è messa in scena quotidianamente nelle recensioni sui giornali e nelle colonna dei commenti ai post. Io per es. in “Corpo” ho visto un bel libro senza grandi pretese, il critico fiorentino vi ha visto “una fesseria”, e probabilmente entrambi ti abbiamo deluso, ma temo che tutto ciò sia inevitabile. Scusa la prolissità.
@ Alcor
Riscontrare che qualcuno ha dato forma a un’opera ambiziosa, per me, come autore, è molto importante. L’ammirazione che ho per le opere ambiziose innesca in me una sana sfida ad affrontare scommesse altrettanto alte. E’ una salutare istigazione all’emulazione. In parole semplici: mi dà l’esempio. Succede soprattutto con i classici, ma anche con opere di autori viventi.
(Forse sto per dire una cosa troppo generica, ma mi sembra che il postmoderno sia stata un’epoca di ambizioni ben dissimulate, autoironie e professioni di falsa modestia: da molti artisti questa poetica dell’abbassamento delle ambizioni è stata presa alla lettera, molti si sono sentiti autorizzati a dare forma a opere dalle ambizioni piccine.)
Come lettore, invece, l’ambizione è una specie di promessa che mi fa l’opera, quindi conta eccome verificare se è stata mantenuta. Se non prometti niente, non deludi nessuno… E poi, aggiunge valore alla Commedia dantesca (almeno per me) la sua sconfinata e folle ambizione di non essere semplicemente un “poema” ma un giudizio universale di tutta la Storia e di tutta l’umanità (“Il Giorno” è un poema splendido, ma non ha ambizioni altrettanto sconfinate; ciò non lo sminuisce ai miei occhi, ma secondo me ne va tenuto conto).
L’ambiziosità di un’opera non è mica soltanto una faccenda privata dell’autore (se è più o meno insicuro di quello che sta facendo ecc.), e nemmeno un elemento esteriore: è un elemento generativo e interno a certe opere: le fa essere ciò che sono. L’ambizione è l’autosfida dell’opera.
Per tutti questi motivi risponderei che sì, è importante e utile discutere se un’opera sia ambiziosa. A che cosa porta? Porta a capirla meglio e soprattutto a misurare la scommessa che un autore /autrice è disposto/a a fare sulla sua scrittura, sulla sua parola pubblica. Cioè ci dice che idea si è fatto l’autore del suo gesto artistico, e del valore sociale che immagina sia conferito alla sua opera: è una scommessa sulla società (a lui/lei contemporanea o futura).
Ci sono opere (legittimamente!) minori, senza pretese, ci sono intere epoche che a quanto pare avevano ambizioni (e aspettative) piuttosto basse riguardo alle loro opere, o almeno, noi oggi con il nostro metro di valutazione le consideriamo ambizioni basse.
Alla fine, credo che parlare dell’ambizione artistica e letteraria sia uno dei modi possibili di parlare, in realtà, del rapporto fra individuo e società, di quanto un individuo pensa di poter contribuire alla comunità con la sua parola pubblica. L’ambizione non è soltanto il sintomo di una superbia individuale (di un “narcisismo”, come si dice nella nostra epoca), ma è una specie di indicatore sociale generale, rivela come funziona un’intera cultura, il rilievo che essa dà ai contributi individuali, alle iniziative comunicative dei singoli (queste ultime parole sono una – discutibilissima – perifrasi di “letteratura” e “arte” fatta per questo specifico discorso).
Ci sono società che non sono strutturate per dare ascolto all’iniziativa comunicativa di un singolo (quelle totalitarie, per esempio), altre lo sono di più (quelle democratiche). Naturalmente il rapporto fra tipo di società e livello di ambizioni non è affatto meccanico: in società totalitarie, a maggior ragione il singolo potrà sentirsi investito di una responsabilità enorme, scommetterà moltissimo nella sua arte conferendole ambizioni utopiche, sovvertitrici, ecc.; oppure, al contrario, si occuperà di temi e forme minori, formicolando dal basso, penetrando nei sentimenti primari dei lettori con l’aria di occuparsi di temi frivoli e in forme da intrattenimento senza pretese, dissimulando… E magari, invece, nella democrazia diffusa ci potrà essere la sensazione che “non valga la pena” perseguire ambizioni artistiche troppo alte, perché un’opera troppo ambiziosa verrebbe marginalizzata, oppure perché anche nel migliore dei casi verrebbe “recuperata” e cioè disinnescata dalla massmedialità politica in forma di moda, ecc., oppure, ancora, al contrario, proprio per questi motivi può darsi che un autore/autrice soffra questa situazione e si senta ipermotivato/a a dare forma a un’opera ancora più ambiziosa, che sbaragli queste impasse.
Ci sono interpreti di Dante che leggono la Commedia come un tentativo di aggiungere un libro alla Bibbia, quindi come un contributo individuale alla rivelazione cristiana (superambizioso!). Per tornare al postmoderno, il collasso delle ambizioni potrebbe rivelare il senso di sconfitta dell’individuo autore/autrice che sente superfluo il suo intervento pubblico e si immalinconisce autoironicamente nel dimostrare con la sua opera stessa di non avere nessuna ambizione a scrivere qualcosa di nuovo, a fare un’opera d’arte, a cambiare il mondo, ecc.
Da questo punto di vista, quindi, oltre che importante e utile, analizzare le ambizioni di un’opera è anche interessante (illumina il rapporto individuo/società di un’intera cultura).
Penso che non sarebbe tempo perso fare una storia delle ambizioni (che non coincidono affatto con le “intenzioni”, sono una cosa completamente diversa: le ambizioni artistiche sono proprio scommesse in atto nella forma realizzata, obiettivi riscontrabili nel fatto stesso che quell’opera specifica sia un poema sulla riconquista cristiana del santo sepolcro e non sulla riconquista di una secchia ecc. Per farlo insomma non servono le dichiarazioni d’autore ma le opere stesse, che sono delle dimostrazioni di ambizioni in atto, sia esplicite che implicite).
E varrebbe la pena fare anche delle sotto-storie delle ambizioni in generi circoscritti: per esempio, confrontare l’ambizione di Dante con quella di Ariosto, Tasso, Tassoni, Marino, Parini per quel che riguarda il poema. O fare una storia del romanzo francese confrontando le ambizioni di Balzac e Zola con quelle di Proust e Houellebecq implicite (o anche esplicitate) dentro i loro romanzi, per il fatto stesso che i loro autori hanno scelto di raccontare quella storia ecc.
Ne verrebbe fuori una storia delle scommesse fatte concretamente sulla letteratura, sul rapporto fra individuo e società.
@ Sergio Garufi
Ovviamente quello che ho scritto sopra vale anche come risposta al tuo ultimo commento, che ho letto solo dopo aver scritto questo ultimo mio. Non aggiungo altro, ma sottolineo che secondo me il punto interessante non sono le intenzioni d’autore, ma proprio le ambizioni. Le intenzioni innescano un confronto autore/critico, tutto interno alla “letteratura”. Le ambizioni, come ho detto, allargano il campo al rapporto fra individuo e società
In effetti anche a me, ripensandoci meglio, pare di ricordare che La Capria con l’immagine dell’anatra parlasse di nascondere gli sforzi, non le ambizioni.
Quanto a “Corpo”, non mi hai affatto deluso, ci mancherebbe, ti ringrazio ancora dei tuoi apprezzamenti. Ho preso uno spunto dal tuo intervento e ho cercato di astrarlo dal mio caso personale, come ho scritto fin dal primo commento, per fare una discussione più generale.
@ tutti
Sono costernato, credetemi, di avere scritto un commento così vergognosamente lungo. Il fatto è che mi sarei sentito in colpa ad avere innescato una discussione per poi trascurarla. Comunque nei prossimi giorni, temo, non potrò continuarla. E mi sa che è una fortuna per tutti, vista la mia irrefrenabile incontinenza. Perdonatemi.
almeno scarpa (tiziano) si fa prolisso ma parla per vie non troppo dissimulate e sentieri non tanto asfittici di individuo, società, opere-mondo (ambite, magari fallite), opere-enciclopedie (idem), epica, epica storica eccetera. anche il suo omonimo critico-critico (domenico), per dire, si segnala per chiarezza e densità di percorso, metodo, stile, ampiezza di sguardo.
ma quanto di incorporeo, invece, di etereo e di misticismo snob (la mistica dell’autore, la mistica dell’opera, bla bla bla), quanto di morbido, nichilistico e autoreferenziale, c’è in questo garufi (il tutto molto ben dissimulato, d’altra parte, da un understatement rodato e pure quello assai snob)… citati, citati, citati. sempre lui. corretto da un calasso leggiucchiato (e magari arricchito dalle eclettiche traiettorie del trevi-pensiero). molesto epigonismo, della peggior specie (molesto nel senso che propugna un anticonformismo della forma critica, e del metodo, che ha una ben precisa funzione a-sociale, meta-storica, anti-storica e perciò, in fondo, reazionaria). e desta meraviglia, ma non tanta, a pensarci bene, che critici scudieri e critici cavalieri apologeti della (post post) neoavanguardia lo stimino e lo liscino come un maître a penser. altro che moleskine. molestino, il garufi. con stima (perchè tanto mi dà tanto). saluti
@tiziano
“mi sembra che il postmoderno sia stata un’epoca di ambizioni ben dissimulate, autoironie e professioni di falsa modestia: da molti artisti questa poetica dell’abbassamento delle ambizioni è stata presa alla lettera, molti si sono sentiti autorizzati a dare forma a opere dalle ambizioni piccine”
ho l’impressione che sia ben lungi dal finire, il postmoderno. e che in larga misura appartenga anche a molti che all’apparenza lo contestano, o ne decretano prematuramente la fine. la scarsa ambizione di un autore è sempre di facciata, e non ha relazioni con quella dell’opera. i 25 lettori di manzoni sono una captatio benevolentiae che non pregiudica il valore rivoluzionario dei “promessi sposi”. stesso discorso per il tema dell’opera. investire sulla rivoluzione d’ottobre invece che sulle fantasie romantiche di una donna di provincia (emma bovary), sono scommesse altrettanto azzardate (e per flaubert il rischio di scadere nel kitsch è più elevato). dal momento in cui si pubblica un testo, e a prescindere dall’argomento preso in esame, si tradisce sempre una legittima ambizione (a essere letto, a cambiare il mondo) che nessuna professione di autoironia o falsa modestia potrà mai vanificare. per es. si possono scrivere cose eccellenti, come i tuoi interventi qui, chiedendo ripetutamente scusa e avvertendo che si tratta solo di “righe molto sconclusionate”. conta il risultato, solo quello bisogna verificare.
“Ne verrebbe fuori una storia delle scommesse fatte concretamente sulla letteratura, sul rapporto fra individuo e società.”
Quindi era questo, il punto. Il vecchio e sempre attuale problema del rapporto fra individuo e società.
Questo ovviamente interessa anche a me, sebbene non capisca perché lanciarlo qui e non portarlo avanti.
Non credo, ad esempio che tutti gli autori che hanno scritto opere grandi (lasciamo da parte la parola ambiziose) fossero sensibili a questa contrapposizione. Anzi, non solo non lo credo, non è così.
1. C’è chi si sforza di argomentare, esemplificare, articolare, proporre, e chi arriva e sancisce “non è così”.
2. Che gli autori siano sensibili o no alla contrapposizione individuo/società conta fino a un certo punto. Io ho parlato di “ambizioni d’opera”, tu, mi pare, stai ancora parlando di “intenzioni d’autore”. Non è la stessa cosa. Sono le loro opere stesse che incarnano di fatto la sensibilità a questa contrapposizione.
3. Se parli di “grandi opere”, annacqui tutto. Ci può essere una grande opera poco – o “meno” – ambiziosa, per esempio i carmina di Catullo rispetto all’Eneide (devo precisare che io preferisco Catullo?), il complesso delle poesie di Emily Dickinson, Saba, Penna (esempi discutibilissimi, me ne rendo conto, ma li rischio giusto per farmi capire – almeno io rischio, non sancisco “non è così”). Mi pare che la categoria di “ambiziosità” (ambiziosità intrinseca nell’opera) sia utile a illuminare una caratteristica particolare, il livello della scommessa giocata di fatto, caratteristica che altrimenti va perduta nel giudizio di valore (grande opera). Lo Zibaldone è una grande opera ma non è ambiziosa (le sue caratteristiche formali negano l’ambizione, sono un’antidoto all’ambiziosità), la ‘Fenomenologia dello spirito’ è una grande opera ed è ambiziosa (devo precisare che preferisco lo Zibaldone?).
4. Infine non capisco che cosa voglia dire “non capisco perché lanciarlo qui e non portarlo avanti”. Hai fatto una domanda in un commento, ti ho risposto diffusamente, impegnandomi meglio che potevo, che cosa c’è che non va?
@ Scarpa,
Sul mio “non è così” hai ragione, la colpa è in parte del fatto che ho un collegamento Vodafone che mi scatta ogni 15 minuti e mi dà una forma di ansia da brevità, e poi mi sentivo piuttosto spettatrice commentante, ma non è una giustificazione.
Adesso cerco di rimediare.
Tu scrivi:
“Che gli autori siano sensibili o no alla contrapposizione individuo/società conta fino a un certo punto. Io ho parlato di “ambizioni d’opera”, tu, mi pare, stai ancora parlando di “intenzioni d’autore”. Non è la stessa cosa. Sono le loro opere stesse che incarnano di fatto la sensibilità a questa contrapposizione.”
prima però avevi scritto:
“da molti artisti questa poetica dell’abbassamento delle ambizioni è stata presa alla lettera, molti si sono sentiti autorizzati a dare forma a opere dalle ambizioni piccine”
Quindi forse forse sono stata portata a spostarmi verso le ” intenzioni d’autore” dalle tue parole.
Comunque, facciamo pure questo passo avanti, lasciando perdere le intenzioni d’autore a vantaggio delle ambizioni d’opera. Nel definirle, certamente il ruolo del lettore è molto forte, il lettore, e che sia anche scrittore è secondario, sceglie la sua genealogia, in questo modo, anche come persona.
Ma resta il fatto della mia prima perplessità.
Al di là della passione catalogatoria e dell’interesse diciamo così, sociale, o pedagogico, che ho anch’io, essendo una persona politica, (e perciò non c’è molta polemica, da parte mia) in che modo una discussione sulle ambizioni dell’opera ha un valore?
Forse nell’orizzonte di quella seconda citazione delle tue parole, l’accusa, chiamiamola così, ad alcuni autori, di avere ambizioni “piccine”.
Ma tu stesso dici che preferisci un’opera che non si pone come ambiziosa, lo Zibaldone, a un’opera che se le pone, la Fenomenologia.
Non c’è però, come sappiamo tutti, nulla di “piccino” nella eventuale non-ambizione dello Zibaldone.
Perché la preferisci?
Per l’appagamento che ti dà? per il fatto che pur non ponendosi a tuo avviso come ambiziosa è invece grande?
Se fosse così vedi che la parola “grande” non annacquerebbe.
O forse che la parola “ambizione” dovrebbe essere meglio definita.
Fatico a trovare il bandolo.
Non vedo (come ho detto nel mio primo commento, che pur essendo rapido era sincero) a cosa porta la discussione sull’ambizione dell’opera.
E perciò la ragione per la quale tu lanci questa discussione. Non mi è chiaro.
E non avendolo capito con chiarezza, mi chiedevo anche perché non avendola posta con chiarezza, dici che nei prossimi giorni non potrai continuarla.
Ma potrei anche essere stupida, questo non è escluso.
O potrei anche non essere al corrente di altri discorsi fatti i che potrebbero illuminare il discorso, ma non a me che non li ho letti. Anche questo non è escluso.
Anzi, è probabile.
PS
Non c’è niente che non va. La brevità (mia) ti ha dato l’impressione che ti fossi ostile, non è così.
Tagliami Garufi, ti prego, che vedermi così espansa mi dà fastidio.