Miserere asfalto (afasie dell’attitudine) # 2
di Marina Pizzi
72.
Le fionde partono dal cranio che si diletti di palesare il vero
73.
Vissi in un collegio per bambine piccole, vissi in contumacia per malati sani, vissi la gemella come una responsabilità di offesa-difesa, mai amandola sorella: il bottino del latte fu sacrificale
74.
Con un filo di scorribanda inventa la propria resistenza addirittura leggiucchiando un giornaletto gratuito dentro la metropolitana e dopo sul pullman.
75.
Tra le crepe la lucertola non ha paura del buio, passa dal sole in picchiata alle tenebre con brevetto di felicità, con tranquillità guardinga, stella di mare l’abisso della sorella, stella di volta l’eco del fratello.
76.
In un impegno di gratitudine il tulle di sposarti nello sguardo, e nell’allerta di pensarti ti arrivo accanto ben più di vicino
77.
In un baccano di altolà il gerundio della sopravvivenza
78.
“Buone vacanze” è un augurio davvero lugubre: vacanza dal cancro del giorno che si dipana in un pagliaccio di tradimenti? le fatiche non hanno mai vacanza né con la danza della gioia né con il chiavistello del padrone che ci attende uso di vita, disuso di libertà
79.
“Buon Natale” è ancora più lugubre: lasciando a chi vuole il significato religioso, ne può rimanere un altro quale le doglie della partoriente con non annesso il sorriso dell’abbraccio: resta la femmina di donna che, forse, piangerà depressione o l’io disgiunto in un unto assioma
80.
Dammi il brevetto che produca valenza, conventicole di baci, anche
81.
Sempre sotto qualcuno e qualcosa la cuna del mondo
82.
Coriandolo d’alchimia starti a guardare a mo’ di falco costumare una pozzanghera almeno in uno sgangherato albergo il grande amarci, comunque in gola all’asfodelo, fiore dei morti
83.
Parve svezzato il coagulo del sangue se dal fondaco delle celle morte uscì la vergine in preda all’estro di solo amore senza concepire
84.
Si faccia gioconda la bora di Trieste
85.
Le curve degli alambicchi intorno al busto a mo’ di abito da gran sera e fumida la perla dentro lo sguardo
86.
Sul tetto delle parabole un tempo si giocò con gli stracci, con la cicale imprendibile, con le cimase seducenti e dalla terra soltanto il più puntuto dei cipressi sembrò capire l’ire del boia dalla botola al cielo
87.
Il petto in gola perde colpi, ma tutti gli schermi della casa stanno accesi festa delle feste
88.
Con una lezione di apostrofo ti bacio, calvario unto quanto un sedativo
89.
Nel quartiere più povero della città, il nonno è uso passeggiare con la merenda che poi scartava al giardinetto buttando la carta nel cestino insieme alla cartaccia che trova lungo i passi.
90.
In un solicello di basto si fa domenica
91.
La luna lo palpeggia come una verissima innamorata ancora non conquistata né stata
92.
Nell’orto c’è penuria di solchi, la lastra piatta della terra gli arreca torto
93.
Tra un domani e un andirivieni preferisco uno scoglio irraggiungibile
94.
Dalla caserma hanno ricavato un museo: e pensare che le sentinelle dalle garitte piansero, disperarono lacrime di piombo con neanche uno scoppio
95.
Partì a morte da un’osteria
96.
Le mani roride lasciano un’impronta per il giocattolo dell’aria
97.
Ottuagenaria la nascita fa la fila per morire
98.
Col tuo colpo d’ascia ho figliato un arcobaleno al teatro del più garbato amore
99.
I capelli li hai tagliati le unghie le hai tagliate eppure la rovina è ben lontana dall’arrendersi e la cerbiatta vigila le rimanenze del silenzio
100.
Sotto il balcone l’edicolante appende calamite non buone per notizie di ferro
101.
Le puntualità degli ultimi, di chi va alla mensa dei poveri o al guardaroba dell’usato con tutte le possibili e pessime esenzioni elargite dal comune
102.
Le bamboline di pezza nate dall’uncinetto fantastico di una donna qualsiasi in estro di picasso
103.
Il vento detestabile che strappa giù i nidi degli uccelli appena nati, il vento ha la bile invisibile come il peggiore dei serial killer
104.
Salva, te ne prego, un orafo che sappia piacere ai coralli che risistema in mare
105.
Un altro numero è andato e la lotteria è la vergine troia di regime senza giacergli accanto
106.
In prigione il bello del viaggiatore, ti viene a trovare solo chi ti ama e senza pietà ti ama, ti rosicchia di baci una mano l’unica toccabile dietro una balaustra di vetro antiproiettile e antivoce. Ma sei contento più dell’isola di pasqua, qui ti passeggi come al liceo quando ripassavi le pagine, dall’altro braccio della prigione ogni tanto ti arriva un lavoretto da fare e ti ci paghi le caramelle senza zucchero, così ne puoi mangiare moltissime senza danno; il lacerto d’uomo che è il secondino arriva a farti pena tanto è pieno di problemi relativi alla libertà; ogni giorno c’è una cosa sicura e buona da fare e tu obbedisci germoglio di te stesso in un soppresso.
107.
A giugno la spiga è senza inganno, gonfia o pudica il grano è senza nord
108.
Dammi un’aureola di corsa, quasi un neo dietro l’orecchio ch’io finalmente possa udire ogni tira tira tra angeli e mode di angeli
109.
Accreditami con lo stampo della luna, dammi un pulviscolo d’inedia come per aver voglia d’incontrarti così dopo, ormai, il tempo concesso
110.
A cielo aperto l’aeroplano ingolfa in goffaggine
111.
Entusiasmi di salsedine quando il tempo era piccolo, accoccolato spasmo del primo amore, eternità del perpetuo tuo stare al cambiamento
112.
Dopo le distanze le riparazioni delle ruote per nessun’altra distanza
113.
Con crudele anfiteatro ho visto scempio la curva a gomito di nascere per scempio
114.
Il tuo bavero sta troppo alto per poter inquadrare la giostra, il museo delle salme, l’orgoglio.
115.
Da adolescente la cresima e le novene: nulla di più luttuoso. La prima comunione con le foto e dopo altre foto con il vestito unico, più bello sul rudere romano vicino casa. Oggi le spose vanno al Colosseo per posare in argini di traffico i sorrisi comatosi.
116.
Se provi a dirmi amore ti rispondo che sono di plastica, stipendio da statale, dio di sottobosco, cosce di fiore, àncora di coma.
117.
Ogni numero è l’occaso dell’unico
118.
Se mi dispiaci ti bacerei ancor di più
119.
Dov’è la luna del tuo soppiatto quando ti amai vedendoti di striscio?
120.
Andai a Praga, andai da Franz, posai un sassolino sulla sua lapide, per poco piansi
121.
Oh, sì, m’innamorai spendendoti per qualunque, qualsiasi cosa, cosetta, cosuccia, grande cosa
122.
I numeri speculari sono morti, sono gemelli morti.
123.
Nel tinello della sfinge si consuma tutta intera la Grecia
124.
Di te il bivacco non avrà abitudine
125.
Mondami da questa perpetua nenia, da questa lamentazione che guarda le traversie del dado
126.
E’ un dolcetto lacrimoso che sa di asfittico: o è un diamante più freddo che lucente? Comunque sia, la noia è nota di calcetto verso la prima lattina
127.
E se domani avrò un cognome bello, e se domani
128.
ho sognato di lanciarmi dal balcone, altissimo, freccia in basso e salva!
129.
sai che c’è? è che ti scommetto e ti prometto in vita di latrare verso lo schifo dell’universo e qui mi fermo perché il sostantivo è troppo impegnativo…!
130.
le caldarroste vendute all’angolo del viale premurano un rituale arreso, un crocicchio sgangherato tra un traffico e l’altro
131.
il mio compagno lavora alle fogne della stazione Tiburtina. quando è pulito e il tempo è la luce o la luce elettrica, scrive poesie
132.
il frammento è il lusso del superstite
133.
Tra un busto di gesso e un lamento di marmo, il museo ci rassomiglia
134.
“Sei il mio fiore all’occhiello, sei il mio dono”: solo poche ore fa così, ora ti supplico
135.
La vergogna è lo iato dell’angelo
136.
a scapicollo ti accorro per dirti che il salario verrà di consistenza aumentato, che sul davanzale il basilico è finalmente riuscito a fiorire, che alla bambola-tata è caduta una ciglia ed ora tutto l’occhio è diverso
137.
Con un agguato da primo della classe, il mio compagno di banco mi salvò dal verdetto dello zero facendone concetto
138.
in un intruglio di comete invento l’angelo che non si fa vedere e che ne divento sorvegliandomi mentre ti bacio e ti lasci andare lisca angelicata
139.
con uno sconfinato candelabro si rateizza l’infelicità della luce divisa
140.
sul far della nottata uno scalino è di troppo, porta verso l’incubo con il botanico parlottio delle serpi con le gimcane a mo’ di fratellanze non attese, improvvise che pare sia squisito il mondo. e invece è solo un parere di ossobuco, un canestro dell’ultimo punto verso il sipario.
141.
Il papiro è delle piante della casa, è lungo ed esile come la carta che dovrebbe preannunciare: ma la biblioteca lo sogguarda ad intruso, è sapientona la biblioteca, è già scritta, ascritta, inscritta senza sapere che ad ogni lettura il papiro è un po’ bianco, un po’ convertito ad altro, sconveniente o conveniente sull’attrito del comunque senza recupero. La schicchera della campana elabora il suono dell’ennesimo morto; la nascita, invece, la annunciano con un fiocco facoltativo appeso al portone: presunzione della sicurezza. Certo anche il morto può non essere annunciato come il nuovo vivo.
142.
le migliori stagioni dell’occiduo sono il duetto delle terme d’acqua con i fagotti di sguardi tutti chiusi.
143.
in un cumulo di addendi il mulo della disfatta, lo sfinimento del lancio del dado: non chiamarmi più dal sottraendo della vendetta senza vedetta.
144.
consunzione e verdetto lo sposalizio che avviene di continuo al costato del crocifisso, l’avvenenza della supplica non basta a largire una cometa allo sguardo domiciliato eremo di pianto, cambusa con la ruggine questo pastrano sciatto, giostrato da ogni tramontana
145.
l’eroe è stato dimesso con prognosi riservata, domani farà il mozzo nel sillabario degli ultimi. l’aculeo del vuoto ha vinto su ogni agguato. nessun mito renderà pingue la lira del poeta che, anzi, finalmente, smetterà la furia di commettere voli con atterraggi di fortuna.
146.
Nessuno e niente è in grado di colmare un vuoto che si postilla quale stima miserrima di sé, attori e attrici professionisti di grado zero affollano la tara del salotto.
147.
Dentro una giara d’olio siciliano, Pirandello sbottò un personaggio, io resto con un’oliva in palmo e mormoro blasfemie infantili quali un rigagnolo di ignominia senza foce né delta di amorose rendite.
148.
E’ bello conoscere un dirupo, sconfinare per porsi irrimediabili, quasi felici verso.
149.
In uno scantinato il verbo di privarsi d’ogni scontento.
150.
E del verbo il cranio, l’io ignudo senza identità, finalmente
151.
Era un mansueto andirivieni di foglie alla caduta all’alzata del ceppo, infine quando non serve badare un corollario di eventi la morte data, ormai.
152.
(Fine. Immagine da: Il genio della truffa, di Ridley Scott)
Ho letto con attenzione le due parti di questa sequenza, e la trovo davvero notevole.
Una cosa che – se posso permettermi – tende a disturbarmi nella scrittura in versi di Marina Pizzi è la sua insistita regolarità metrica, alla quale il mio orecchio si ribella (questo è solo gusto sia chiaro, nemmeno una parvenza di giudizio critico). Mi sembra che la prosa – che sarebbe forse meglio chiamare più semplicemente scrittura lineare – aggiunga forza al fervore astratto dell’immaginario dell’autrice, liberandolo da quel sovraccarico di senso, o di emotività, che un certo uso del verso implica e che, nel caso presente, a me sembra superfluo.
I miei più vivi e sinceri complimenti.
LA RITMITETICA
pertica regolare
gioia consumata
versata
in noia
la gassata bollicina
che legge e regge
greggi
solo un gregge
dato a naso di parola
il senso della nostalgia
è una gallina che mai più
vola
irregolare
b!
Nunzio Festa
p.s. metto qui (dove proprio a questo punto sembra Non si possa giocheggiare)…
“Tra le crepe la lucertola non ha paura del buio, passa dal sole in picchiata alle tenebre con brevetto di felicità […]”
Che squarci incredibili nel tessere quotidiano. Parodia che diviene cronaca, e realtà che si apre al tocco del chirurgo. La solitudine che si fa condizione di possibilità universale, e punto di ri-partenza. Forte potenza ispiratrice, creatrice, demiurgica.
Davvero molto bello.
Interessante, però ci vedo molta voglia di visrtuosismo, troppo compiacimento con le parole: “In un baccano di altolà il gerundio della sopravvivenza” Mah. mi sembri che manchi di cuore.
Tempo fa Arminio mise su nazione indiana dei testi che somigliavano vagamente a questi. Dico vagamente, perché Arminio in questo genere è maestro. La Pizzi è bene che insista. Questi pezzi sono migliori dei suoi versi.
fastidius:
il [mio] cuore è proprio là e sovravvive e/o tenta
mario:
scortesi i paragoni in tal guisa.
in questa scrittura mi diverto un poco, in poesia mai o quasi
Nunzio Festa:
la “connessione”, se c’è, non l’ho afferrata. sorry!
grazie infinite! Andrea Raos e Giuseppe Catozzella
“E’ bello conoscere un dirupo, sconfinare per porsi irrimediabili, quasi felici verso.”
molti belli questi “squarci” Marina, un saluto.
devo dire che anche a me questa tecnica della microprosa (o, secondo la proposta di andrea, questa ‘scrittura lineare’) sembra dare alla dissipazione continua di immagini e metafore (che è l’aspetto – mi sembra – davvero più affascinante dei testi di pizzi) una forza maggiore. o forse non tanto una forza quanto una sua collocazione più propria. come se superato il metro fosse proprio il ritmo la dimensione su cui vengono costruiti questi ‘oggetti’ di senso.
in qualche modo il carattere anodino delle sequenze dà una profondità in più allo ‘spreco’ di materiale immaginario, di paragoni, di scorci, etc. con cui marina costruisce dei testi in continua proliferazione.
la Connessione è nei versi
Grazie, a te
b!
Nunzio Festa