Brevemente, un appunto sull’amare Mari
di Giorgio Vasta
Leggere un libro di Michele Mari vuol dire, per me, muovermi all’interno di uno di quei tunnel che c’erano, e forse ci sono ancora, nei luna park. Quei tunnel nei quali, traballando su un carrellino cigolante, ci si inoltrava nel buio lungo un percorso ironicamente enfatico, enfaticamente ironico, nel buio che cigolava, punteggiato dal balenare improvviso di mascheroni in teoria orrorifici, in realtà suscitatori di risate, di una paura che si convertiva in gioco e in tenerezza. Ogni mascherone – la cartapesta modellata a comporre un ghigno clownesco, a fissare in un rictus, a dilatare occhi e bocca in un’espressione straziata – una messinscena della morte.
Enfasi, dunque. Ironia. Tenerezza.
Le tonalità che galleggiano nei libri di Michele Mari. Da Euridice aveva un cane a Io venia pien d’angoscia a rimirarti, da Filologia dell’anfibio a Rondini sul filo. Fino, adesso, a Verderame.
L’enfasi è assunta da subito come condizione della lingua. Un’enfasi non subita ma scelta, intesa come strategia espressiva e come tale perseguita. I colpi di grancassa, gli ottoni in grande spolvero, l’allestimento di un suono che nel complesso rimanda alle orchestrine sgangherate in giro per i paesi la domenica, perché tutto il carico da undici dell’eccesso sta all’interno di un dispositivo intenzionalmente malridotto, fatiscente, come mettere un urlo all’interno di una bocca tarlata.
L’ironia, allora, affiora quando l’accelerazione enfatica mostra che il tessuto è in tensione, che non resiste più, sta per strapparsi. Quando cioè il parossismo raggiunge il culmine svelando le fondamenta vuote e chiarendo che, parafrasando Benn, le parole sono sempre e atrocemente lo smalto sul nulla.
A questo punto il tessuto si apre e la tenerezza esplode, viene fuori come un’irruzione dall’interno verso l’esterno (come l’irruzione lenta del pulcino che viene fuori dall’uovo). Ci sono, sparse nella lettura, improvvise spirali di silenzio che si spalancano come baratri in uno spazio, quello del discorso narrativo, che come detto è fabbricato con materiali strepitanti. Tanto più intensa, allora, la tenerezza che contrasta con un movimento ininterrotto. Leggendo si trovano alcune di queste radure del linguaggio, piccoli luoghi nei quali le parole si fanno docili, rallentano e si fermano, punti dai quali osservare, intorno, la fuga continua, in avanti, del racconto.
Il legante, il materiale che tiene insieme questa enfasi, questa ironia e questa tenerezza è l’intelligenza (che, se è vera intelligenza, lega). Qualcosa che ha la capacità di prendere l’italiano, la lingua italiana, e di rivoltarla, di frugarne il versante letterario, torcerlo, scuoterlo, strizzarlo, cercargli ancora dentro, nella coscienza che il tunnel nero è quello della lingua, più esattamente quello della lingua che si organizza per fare narrazione.
In Verderame, il “fare narrazione” è, come ogni volta in Mari – e come sarebbe bello scoprire in ogni libro – atto d’imperio. Comprendendo, all’interno dell’imperio, tanto l’arbitrio quanto la prepotenza, quanto il sapersi costruire libertà. Mari scrive e nella sua scrittura si avverte non l’assecondare un movimento collaudato (un movimento della lingua e della narrazione, un allinearsi al canone, al tempo presente), non l’omaggiare un sistema espressivo consolidato, ma l’invenzione, ex novo, di un contesto. Per dirla in un altro modo, ci sono libri prima dei quali ci sono altri libri, e ci sono libri prima dei quali – ma anche dopo – non c’è niente, c’è solo la capacità della scrittura contenuta in quel libro di estendersi nel tempo, avanti e indietro.
Leggo Verderame e avverto, nel comporsi della scrittura, lo scomporsi di una determinata idea di narrazione.
“Non si dà narrazione senza verosimiglianza”, recita la precettistica e sostiene chi fa delle tecniche narrative non un filtro bensì un fine (chi, cioè, cerca nelle tecniche, nella loro “applicazione” – qualsiasi cosa questo voglia dire – il conforto di una qualche specie di logica). E in questa prospettiva, a partire cioè dal dominio delle tecniche e di un’idea rigida di verosimiglianza, il verosimile di Verderame implode e il romanzo si sgretola. Come possono, del resto, essere posti in relazione – prevalentemente sotto forma di dialogo – un ragazzino enfatico, iperletterario, gioiosamente millenarista e indomitamente mitopoietico, Michelino, e un giardiniere sessantenne semianalfabeta, fatto come un orco, avvitato a una vita biologica e messo sotto sequestro dal dialetto?
O – recita la precettistica – consenti loro un livello di comunicazione intermedio, un italiano corrente (come l’acqua del rubinetto), oppure tra questi due personaggi non c’è legame che tenga.
Poi però arriva Michele Mari, arriva il fare scrittura come sereno imperio sulle forme e sulla logica, tutto si scompagina, il legame si crea e la nozione – o meglio il fenomeno – di verosimiglianza si imbizzarrisce, si scatena, si libera dalla subordinazione alle tecniche e va a collocarsi molto più in là di quanto mai si sarebbe immaginato. E a guadagnarne è proprio l’idea di libertà compositiva.
Perché Michelino e l’orco parlano tra loro, ognuno nella propria lingua, ognuno nella propria forma, logico e immaginifico uno, biologico e involuto l’altro. E chi legge non si preoccupa della stortura, dell’impossibilità, del non si può fare, del non si può dire, della regola intesa nella sua accezione più piatta, ma gode del mescolarsi delle forme, gode di una gioia primitiva, quasi prelinguistica, nonostante a suscitarla sia proprio lo spettacolo del linguaggio che accade.
[questo pezzo non è una recensione; l’immagine raffigura soffietti per il verderame]
Non si può non amare M.M.
E non dimentichiamo Tutto il ferro della torre Eiffel. E il “montaliano” canzoniere a Ladyhawke? E Tu, sanguinosa infanzia ? Gemme.
Non dimentichiamoci mai che in Italia i grandi scrittori continuano ad esserci, e a scrivere, anche molto bene.
Per d (che aveva scritto e che ho cancellato): se ti va di discutere, discuti. Se ti interessa semplicemente l’insulto, fai a meno.
Nonostante il senso di questo post fosse quello di parlare di Michele Mari, o meglio di quello che la lettura dei libri di Michele Mari può far scaturire, mi permetto ancora una considerazione su una cosa che non avevo mai fatto, ovvero cancellare un commento.
A me va bene che i commenti partano da un contrasto, persino – del resto qui dentro sembra inevitabile – da un’intenzione distruttiva. Ma non riesco ad accettare chi commenta facendo il cecchino – e sempre qui dentro ce ne sono tanti – appostato dietro un cornicione in attesa del post giusto da fare sinteticamente a pezzi. Da un certo punto di vista, commenti di questo genere definiscono se stessi, definiscono un’idea di relazione tra le persone e – volendo esagerare – un’idea di mondo. Però producono anche altre conseguenze. Per esempio modificano in negativo un contesto, forse possiamo chiamarlo “ecosistema”, ovvero quello che riguarda la discussione, che è già in sé particolarmente precario. Nel sostituire il ragionamento con lo slogan elementare, più o meno offensivo, si descrive una prassi che non condivido e che quindi espello. Non per trasformare la colonna dei commenti in un luogo depurato, o peggio ancora in un luogo autistico che non vuole tenere conto del fatto che il mondo non è e non sarà mai un ecosistema civile, ma perché mi interessa mettere chi ha voglia di discutere realmente – e, lo ripeto, anche nel contrasto – nelle condizioni di farlo senza doversi armare di un’antologia di insulti per sopravvivere tra le parole degli altri. E perché la manutenzione di uno spazio di parola che sia civile, pur nella consapevolezza del fatto che si tratta di un tentativo destinato a fallire, credo sia una cosa che abbia un senso.
Condivido la tua analisi sulla degenerazione dello spazio dei commenti, che è a mio avviso il motivo per cui diversi lit-blog hanno scelto di farne a meno (Carmilla, Primo amore). Oltre ai cecchini, un altro fenomeno degno di essere segnalato è quello dei controconferenzieri, che fanno somigliare la colonna dei commenti al momento delle domande del pubblico dopo una conferenza. C’è sempre qualcuno che non fa una domanda, ma propone un’altra conferenza, forse insofferente all’implicita gerarchia che lo relega fra il pubblico e non sul palco. Ecco, a me pare che a volte qui certi conferenzieri impostino la loro relazione come se gli unici ad ascoltare fossero gli acidi e frustrati tuttologi che si divertono a fare i cecchini nello spazio dei commenti, forse temendo preventivamente i loro strali. E li si cerca addirittura di ammorbidire inserendo i loro blog nei link consigliati, oppure ospitando qualche loro pezzo in home page. In questo senso, vorrei ricordare agli indiani che i dati mostrano chiaramente che ci leggono anche altri, commentatori pacati o lettori silenziosi, e che questi sono gli unici che meritano considerazione e rispetto.
Non sono d’accordo sulla pratica dell’espulsione di un commento, fosse anche un insulto gratuito. A prescindere dalle buone intenzioni di Giorgio Vasta (su cui non ho nulla da ridire), la selezione del ‘pubblico’ e delle forme di accesso al dialogo resta a tutti i livelli quello che è: una forma di censura, o comunque di determinazione unilaterale delle condizioni alle quali un dialogo può avvenire. Credo che i lettori di NI debbano essere messi in condizione di giudicare da sé se un commento è idiota, inutilmente offensivo, puramente autoreferenziale e via dicendo. Quanto alle modifiche prodotte dal commento ‘cecchinesco’ nell’ecosistema/discussione, anche adesso che c’è stata un’esclusione dichiarata di un commento giudicato offensivo (di cui non si conosce peraltro il contenuto), di cosa si finisce a parlare? Dei cecchini e dei controconferenzieri, di gerarchie implicite, di acidità allo stato diffuso…. Non si parla del pezzo di Giorgio Vasta….Voglio dire: le censure non sono affatto idonee, di loro, a riportare la discussione sui contenuti. Si tratta alla fine di usare il buon senso (categoria ambigua, che amo poco, ma tant’è). Si tratta, in altre parole, di avere qualcosa da dire e tirarala fuori. Quanto ai toni accesi o meno accesi di una discussione ‘letteraria’, bisogna forse allargare il campo di indagine e riconoscere che potrebbero essere generati da toni altrettanto arroganti o paternalistici, presenti in alcuni pezzi. Insomma il conflitto anche forte, quando si parla di temi vicini alla propria anima, secondo me ci può stare e non vedo perché chi scrive un post su nazione indiana sia legittimato a giudicare anche ferocemente il ‘mondo’ e ciò non possa avvenire in un commento. Massima libertà di espressione e massimo senso critico nel giudicarsi e giudicare gli altri. Censure no, per piacere…Saluti
Sono d’accordo con Giorgio. Si tratta di eliminare il rumore che impedisce di parlare alle persone che hanno qualcosa da dire. perché non si tratta, appunto, solo di giudicare. Ma gli è che ogni volta che c’è un commento spernacchiante, la discussione va in vacca. Questo è un fatto, e vi si deve porre rimedio.
Poi, certo, adesso non stiamo parlando del pezzo di Giorgio ma della modalità che ha scelto. Quando però questa modalità sarà una pratica normale, non se ne dovrà più parlare.
@Marco M.
Quel che dici è vero se la postilla di Giorgio non ottenesse, come spero, l’effetto voluto. Ovvero quello di “limitare” i danni, in futuro. rendendo così a Giorgio uno spazio autentico- non importa quanto sereno- di discussione. Comunque non si tratta di censura, perchè il nulla non si censura. se uno scrive sei una testa di cazzo, lasciare una frase del genere o toglierla, non si pone come questione di censura si censura no. ma come sensibilità dell’autore del post, nella percezione della Bêtise.
E poichè la sensibilità di Giorgio mi sta a cuore gli dico: bravo.
@giorgio
mi ha molto divertito il tuo ” questo pezzo non è una recensione”. Mi ricorda il magrittiano ” ceci n’est pas une pipe”.
effeffe
Avevo scritto un commento, probabilmente in contemporanea con Forlani, che senza volerlo mi ha dato una spallata. Amen.
Io credo che gli spazi e le forme di una discussione si difendano commentando i post nel merito, se su questo siamo d’accordo, il fatto di togliere un commento (che magari contiene solo insulti) non vedo che vantaggi possa arrecare. Se l’espressione censura non piace (a me sembra invece che un problema di censura, al di là delle buone intenzioni di Giorgio Vasta, si ponga), si tratta pur sempre di una forma di ‘preselezione’ e allora viene da chiedere: quali solo i limiti di questa preselezione? Chi stabilisce quando un commento ‘non dice nulla perché offende’ e quando invece ‘offende perché magari dice cose vere, anche con toni violenti o accesi? Certo uno potrebbe rispondere: è un problema di forme, di modalità attraverso cui ci si esprime, non di contenuti ma anche qui il confine tra ‘forme’ e ‘contenuti’ è spesso labile, guardate che è un tema insidioso, questo, non facile. Reputo pericoloso autoattribuirsi, in quanto ‘autori’ di un post, un diritto di definire le condizioni minime di una ‘discussione civile’. Quando in un contesto come quello di NI si rende ‘pubblico’ qualcosa, ci si espone al giudizio di tutti, anche di coloro che vengono definiti come stronzi, mitomani, o matti in base a parametri di senso comune. Personalmente farei così: se un commento lo reputo inutile od offensivo, ecco magari non rispondo, valendo anche la reciproca, nel senso che un ‘lettore’ che reputa un pezzo non interessante, in genere non lo commenta. Cominciamo a parlare di Michele Mari?
il bello di NI sono i commenti, io ci vengo per questi, e mi domando quanti lettori avrebbe NI se non ci fossero i commenti, cecchini o non cecchini. Mi divertono, immagino le loro vite, e talvolta mi istruiscono.
” I dati mostrano chiaramente che ci leggono anche altri, commentatori pacati o silenziosi…” prova a chiudere i commenti o anche solo a neutralizzare i più acidi per un mese. Già che ci siamo spiegami anche come si manifesta il commento silenzioso.
Io mi interrogherei piuttosto sul perchè gli articoli più seri e interessanti vanno invece deserti di commenti. Che non significa vadano deserti di lettori. Ecco, mi piacerebbe vedere una statistica dei soli visitatori lettori per articolo, distinguendo fra quelli “puri” e quelli drogati dal cecchinaggio
Quante storie, come se questo blog non avesse una sua precisa linea editoriale: dentro qualcosa e fuori altro. Quindi perché scandalizzarsi tanto per un commento in più o un commento in meno? (Certamente non sarà quello del dottor Garufi, a sparire di soppiatto).
Mi permetto di dare un consiglio all’autore del pezzo; cancellando un commento non fa altro che attizzare la curiosità di chi legge solo quelli, voglio dire i commenti. O pensa davvero che a divertirci sia (unicamente) la sua recensione? Se fosse così, mamma mia, che malcelata voglia di autorialità. Siamo pur sempre in un dialogo, o no? E i wreaders adorano sfancularsi.
1) https://www.nazioneindiana.com/netiquette/
2) propongo a jan reister di pensare a un forum esterno ai post, in cui ci si manda maledizioni a vicenda off topic. Potreste chiamarlo Dannazione Indiana. La censura che Vasta ha reso esplicita dovrebbe essere intesa didatticamente – cancellerei tutti i commenti precedenti, fossi in lui, quello in cui spiega la censura e il presente inclusi. Però anche quella che lui pone nel commento mi pare più una questione di grammatiche, di strutture interne del dialogare: se uno posta un pezzo, se uno parla in pubblico, non è per fare da tiro al bersaglio, ma per condividere. Chi risponde dovrebbe tentare l’intelligenza (anche qui, attenzione, vedi il senso in cui viene usato nel post su Mari) di legare la propria risposta al post, almeno grammaticalmente, anche spingendo al massimo i propri limiti linguistici, logici e dialogici. Come succede in Verderame, o in quel tentativo di dialogo che poi si attesta su cinque note sole in Incontri ravvicinati del terzo tipo. Chissà che si sono detti, qualcuno obietterà. E’ il rischio che si corre quando si dialoga, sempre, e quando si legge Mari, pure. Chissà dove andrà a parare con queste esagerazioni, adesso è troppo, sta rovinando tutto. Chissà che sta dicendo Felice a Michelino, mi dicevo io alle prime pagine. E allo stesso tempo: chissà cosa ho fatto fino ad ora, in Lombardia, da dieci anni quasi qui e ho solo un’idea approssimativa della lingua di queste persone, della loro forma mentale. Perché il protagonista del romanzo di Mari parla esclusivamente in dialetto, mentre il piccolo narratore risponde in un italiano alto, imprevedibilmente corazzato da letture di classici, didascalico e aulico insieme. Ma non ci si trova a chiedere come faranno i due a far germogliare quella comunicazione (la comprensione c’è, almeno nella competenza passiva dei rispettivi linguaggi): e questo perché è innanzitutto del lettore lo sforzo di torsione linguistica. Si arranca tra due linguaggi diversi per capire dove stia il mistero della storia, e questo pare basti per farci dimenticare la fatica dell’ascolto, l’enfasi della parola, forse perché è proprio in quella oscillazione tra le due lingue che riposa il vero mistero, la storia raccontata, la storia personale di Michele bambino, la storia trasfigurata, la storia del paesetto, dei paesi e delle rivoluzioni, delle famiglie. Il fatto sconcertante per chi legge è però l’integrazione progressiva, inversamente proporzionale alla perdita di memoria, e quindi di elementi della fabula personale di Felice, della propria lettura di entrambe le lingue. Come dice Vasta, si accettano entrambi i linguaggi.
Tuttavia è un processo affatto dissimile da quello della comprensione del gramelot: non è un linguaggio misto, non un pidgin, né un’inserzione più o meno sapiente di termini dialettali o calchi dal dialetto all’italiano che ricrei un’atmosfera, come da qualche tempo pare piaccia scrivere e leggere in giro (vedi anche N.I. qui https://www.nazioneindiana.com/2006/09/11/la-cinquina-del-premio-campiello-2006/ sul reperto numero uno). E’ una sfida durissima, di parole e grammatiche nuove e intere, di oggetti e parole dimenticati dal lettore e da Felice, di cose viscide e striscianti che emergono dalle cantine, di un rapporto di forza tra il ragazzino e il mostro dell’orto, di interi sistemi linguistici che non hanno che se stessi per sopravvivere e non sono strumenti, ma oggetti essi stessi, e labili.
Amare Mari (sempre così, nei suoi romanzi) vuol dire anche leggere le prime pagine e trovarle bellissime, ma sapere che dietro l’angolo, al secondo capitolo ci saranno le dodici fatiche d’Ercole, andare avanti illuminati di tanto in tanto, e finire che ti sembra di avere qualcosa in mano, un puntino di sospensione di piombo, il nome proprio del suo rivale in amore, una lingua nuova di cui si sono capite di nuovo o per la prima volta le forme, le parole, ricordate le cadenze, che sia l’italiano o il lombardo non ha importanza. Alla fine c’è sempre una reductio alla semplicità, dalla complessità della lingua al silenzio, dalla molteplicità di storie e ricordi alla perdita della memoria, dalle forme di vita più complesse alle lumache senza guscio, fino alla felce, una non-pianta, le cose come souvenir delle parole.
3) “Questo non è un nano” era mi pare il titolo provvisorio di “Tutto il ferro della torre Eiffel”. Anche questa non era una recensione.
Personalmente sono contrario a ogni censura per ragioni non di natura libertaria, ma sistemiche. Si crea una maggiore audience all’insulto a causa di un meccanismo di feedback negativo.
Non mi sembra che l’analogia di garufi sia accettabile quando pone il probema delle domande a una conferenza che si trasformano in controconferenze. E’ ovvio che a una conferenza reale, chi si alza per fare domande o esprimere un parere, un’idea deve essere sintetico e contenuto. Ma su Internet è assolutamente inaccettabile questo critiero. Il tempo e lo spazio sono diversi, nessuno ne viene danneggiato, anzi dovrebbero esserci più commenti approfonditi come densità e volume.
Chi non li vuole leggere perchè ama i Bignami li può semplicemente scavalcare.
Rimane la mia solidarietà a Giogio Vasta e ai suoi sempre significativi articoli che sono in tanti ad appprezzare
il modo in cui scrivi è irritante… spirali di silenzio che si spalancano come baratri… sei solo a un passo da genna e tipi così. quel che dici dei dialoghi di verderame mi sembra ancora più irritante: non è mica vero che i due personaggi non tentano una lingua comune. il ragazzino, almeno all’inizio, cerca invece di farsi comprendere scendendo al livello del contadino. ma poi mari si dimentica e i due continuano a parlare ciascuno la propria lingua e non è vero che chi legge non si accorge della stortura: salta proprio agli occhi. è una delle cose che da fastidio in questo romanzo. sarà anche una scelta deliberata, ma attribuirle un valore positivo solo perchè va contro la “verosomiglianza” e le regole del narrare mi sembra sciocco quanto dire che un romanzo è bello perchè non si conclude, o comincia dalla fine. a me piacciono molto i racconti di mari, meno i romanzi: questo è forse il peggiore.
Bene, d, ti ringrazio del chiarimento e dell’analisi.
Qui di seguito breve intervista di Ade Zeno a Michele Mari apparsa su “Queer” – supplemento domenicale di “Liberazione”, un paio di mesi fa.
D: Sul risvolto di copertina, a Verderame viene attribuito lo status di “romanzo d’avventura”; però a me pare che questo sia solo un dato apparente, una specie di pretesto per parlare d’altro, ossia del valore delle parole, del loro rapporto esoterico col mondo.
R: Valore magico delle parole, sì, ma anche degli oggetti. Io vivo metà della mia vita a Roma e tutte le volte in cui vedo luoghi legati alla Roma di Fellini o Pasolini, per esempio, mi illudo sempre di suggere, di carpire qualcosa della magia, dell’incanto di questi luoghi per quanto di per sé inerti… In Verderame il protagonista cerca di costruire un alfabeto, una sorta di enciclopedia oggettuale, con il risultato imprevedibile che si vengono a creare nuovi ricordi, nuove vite. Come in un gioco virtuale, avendo tante tessere-tarocchi, a seconda di come si spostano ogni volta la vita del vecchio analfabeta viene ricostruita, sempre plausibilmente, in modi diversi.
D: Felice parla in dialetto, una lingua sgrammaticata, senza codici scritti che rispetto alla lingua nazionale è sicuramente meno capace di astrarre, di concettualizzare…
R: È vero, sì, ma più che altro l’idea di fondo era quella di creare uno scoglio in più tra i due personaggi (in aggiunta, s’intende, alle altre barriere come l’età e le condizioni sociali); ostacolo che mi è sembrato vitale anche perché mi ha dato modo di mettere in bocca a Michelino delle domande, interrogativi indispensabili per un vero scambio e per portare avanti l’indagine sul mondo mentale devastato di Felice. In ogni caso mi capita spesso di marcare la diversità tra personaggi linguisticamente.
D: Tra l’altro il modo in cui Michelino si esprime è molto forbito, analitico, a tratti perfino didascalico…
R: Questo perché non ho una grande passione mimetico-realistica: per il vecchio bifolco non mi sono preoccupato di usare un vero varesotto, ma una sorta di idioletto più simile al milanese; ho utilizzato lo stesso criterio con Michelino: ha tredici anni, e a rigor di logica dovrebbe ancora usare l’indicativo, però alla fine ho scelto il congiuntivo, è stato più forte di me, del resto non stiamo parlando di un romanzo realistico, è un romanzo fantastico… e se un congiuntivo suona fantastico, ben venga.
D: Lei ha dichiarato, anni fa, di rifiutare una certa concezione molto giornalistica della scrittura, soprattutto l’idea dello scrittore come testimone del proprio tempo. Mi sembra di capire che il suo punto di vista sia ancora lo stesso.
R: Da ragazzino avevo questo pensiero in testa: ma come sarebbe il mondo se non ci fossero i libri? Perché il mondo mi sembrava un inferno e i libri erano proprio la mia salvezza. Quindi con la letteratura ho fin dall’inizio avuto un rapporto quasi religioso, di conseguenza per me la scrittura è indiscutibilmente un linguaggio altro, rituale, quasi araldico. In questo sono assolutamente d’accordo con Manganelli quando diceva che vero argomento della letteratura è la morte. La letteratura è comunque un ramo della teologia, quindi deve parlare di cose non mondane e in un ottica ultra-manierista che deve usare strumenti inattuali… Ecco, io sono sempre rimasto affascinato da questo punto di vista, e poi ho scoperto che mi era anche congeniale scrivere così perché per una sorta di pudore classicistico, o meglio neo-classico, io mi sono accorto che attraverso la complicazione della scrittura, l’arcaismo, riuscivo a dire di me cose molto più scabrose, intime, delicate. Sentivo che quanto più erano basse, tanto più meritavano una sorta di solennità stilistica. Nei momenti in cui più mi commuovo, ovvero quelli in cui metto le trippe, le viscere sulla pagina, tanto più elevo il mio stile. L’idea secondo cui basta l’impegno, basta fare i conti con la realtà per essere un bravo scrittore, mi lascia incredulo. Quello che conta alla fine è se il libro è scritto bene o scritto male.
D: Cosa vede intorno a sé? Nel mondo letterario attuale, intendo, “nuovo” o meno.
Premetto che io leggo poca letteratura contemporanea, anzi la leggo ma con parecchio ritardo, quando ormai il libro in questione è già stato rimpiazzato dai successivi, e quindi non appartiene più alla sfera delle novità. Per me l’inattualità è un valore, io sono uno che si incanta quanto per strada vede una vecchia millecento, un taxi a forma di uovo… fossi un costruttore non modificherei nemmeno mezzo paraurti. Quest’idea del rinnovamento a tutti i costi è una cosa che è al di là della mia struttura cerebrale. Anche quando gli editori cambiano la veste editoriale. Come i tascabili Einaudi, per esempio… Ma perché, mi chiedo! Hanno paura che il pubblico si spaventi di fronte all’obsoleto, invece alla lunga queste cose acquistano fascino, prestigio.
D: Qualche nome?
R: Beh, escludendo queste ondate di giallisti, e noiristi che mi tediano profondamente… a me piace molto, per esempio, Eraldo Baldini, perché trovo che abbia una forza visionaria e scrive storie terrificanti. Poi i primi libri di Cavazzoni, e Picca, Voltolini. Uno che credo abbia moltissimo talento è Tiziano Scarpa. Fra i più giovani, invece, Antonio Pascale, che ha scritto dei racconti molto belli, e Marcello Fois. Sono i primi nomi che mi vengono in mente.
D: Ha mai coltivato rapporti di tipo collaborativo, artisticamente parlando, con altri scrittori?
R: Devo dire che sono molto restio alla collegialità. Io una cosa tipo Wu Ming non potrei mai farla, anche se arrivassero i miei migliori amici e i miei scrittori preferiti e mi dicessero scriviamo, imbastiamo un progetto comune. Se il discorso fosse che ognuno elabora il suo pezzo e alla fine si collaziona tutto, allora va bene, ma se mi dicessero studiamo insieme, progettiamo, scriviamo insieme, allora no. Io sono uno molto individualista e ho una testa molto dura, quindi so che alla fine tenderei a imporre la mia volontà, e la mia idea di collaborazione sarebbe lo schiacciamento degli altri.
“L’idea secondo cui basta l’impegno, basta fare i conti con la realtà per essere un bravo scrittore, mi lascia incredulo. Quello che conta alla fine è se il libro è scritto bene o scritto male.”
Su questo sono assolutamente d’accordo con lui. E’ banale, ma è vero.
E anche su quando dice, con Manganelli, che “vero argomento della letteratura è la morte”. Alla fine tutto va a finire lì, moriamo, e la vita sta dentro a questo orizzonte.
Su questo invece “La letteratura è comunque un ramo della teologia, quindi deve parlare di cose non mondane e in un ottica ultra-manierista che deve usare strumenti inattuali…” ho i miei dubbi.
E’ il suo modo, e non vale per tutti, né sempre.
E forse è il lato di lui che mi piace meno, la mia riserva su Mari, che non riesco ad apprezzare incondizionatamente, anche se i suoi libri sono scritti più che bene, benissimo.
questo pezzo non è una recensione
Per averne una, una volta tanto, di grazia cosa si deve fare?
Accendere ceri, portare capponi in coppia come al Dottor Azzeccagarbugli?
Qui tra “carrellini cigolanti” e “urlo all’interno di una bocca tarlata” e “spirali di silenzio” e “radure del linguaggio” ed altre enfatiche amenità, che sgomitamdo superano in barocchismo la supposta enfasi di Mari, abbiamo il solito scriversi addosso. Il solito pretestuoso mettersi al centro.
Non male ‘sta dannazione indiana.
“…frugarne il versante letterario…”.
quindi esisterebbe un versante della lingua italiana che non è letterario?
spero di essere stato sufficientemente sobrio (quasi un “commentatore silenzioso”) da soddisfare le regole di gradimento esposte da garufi nel suo incredibile commento (sul quale nessuno pare aver nulla da dire e amen).
Suppongo che per versante letterario s’intenda la capacità e la necessità che Mari dà al recupero di linguaggi che sono consolidati come storia della letteratura e che evadono dal linguaggio corrente contemporaneo (in gran parte omologato). Un esempio: io venia pien d’angoscia a rimirarti edito da marsilio.
non esistono molti saggi critici sulla narrativa di michele mari. per questo motivo, senza vergogna, segnalo un mio saggio dal titolo “‘Tutta la mia vita nella letteratura’: un circolo di scrittori nella narrativa di michele mari”. E’ contenuto nel volume “Auctor/actor : scrittore personaggio nella letteratura italiana” a cura di G.Corabi e B. Gizzi, Bulzoni editore, Roma 2006.
mari lo lesse e, forse in un momento di benevolenze, apprezzò.
In socaietà delle menti scrisse un bel pezzo su Tutto il ferro della torre eiffel, Michelangelo Zizzi
amo i linguaggi non-letterari, quelli che si situano sul versante opposto a quello letterario.
mi piace la lingua “omologata”, qualsiasi cosa ciò voglia dire.
anzi, mi domando se l’omologazione non sia una conditio primaria dell’essere lingua di un insieme di suoni organizzati e simbolizzabili.
mi piace chi riesce ad estrarre la forza e l’efficacia di una narrazione da una lingua allo stato di assoluta normalità.
non dico che la scrittura DEBBA essere tutta così, dico che mi piace così.
di Mari ho tentato di leggere La stiva dell’abisso, senza riuscirci.
ho impattato contro l’arcaismo secondo me troppo voluto del testo e ho lasciato perdere.
forse per “scrivere bene” si intende quel modo di scrivere.
in questo caso mi piacciono quelli che non scrivono “bene”.
L’omologazione della lingua è la condizione prima del fascismo mentale (come mostrò con una bella analisi Deleuze in Millepiani).
Se ti piace l’omologazione ti puoi proporre per il giornalismo
Sono d’accordo con te sul non scrivere bene. Ma chi non scrive bene è proprio chi non è omologato!