La Bianca di Santa Elisabetta

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di Giuseppe Rizzo

«Sai come facciamo?», mi chiede.
Io di fronte a questa sicurezza frano. Sudo, anche se qua dentro fa freddo. Siamo in un garage buio, e fa freddo. Cioè, forse solo io sento freddo. Mentre lui ride. E questa è una prima differenza. È tutta una questione di differenze, tra me e lui. Siamo cresciuti nello stesso schifoso paese. Ma. “Ma” è tutto quello che mi viene da dire quando ci penso. Io non so se lui si è mai posto il problema quando mi guarda. Lui è qui per dare. Vendere, più che altro. Io lo so, mi ci ha mandato un amico comune dicendomi che con lui avrei trovato quello che cercavo. E infatti, mentre cerco di controllarmi, mi indica con gli occhi un copertone di camion. L’amico aveva ragione.
«Non so nemmeno perché la tengo ancora qui, sono convinto che in qualunque altro posto…», dice, alzando le spalle a completare la frase.
Poi va al copertone e ci infila una mano dentro. Lo scotch si straccia, la mano viene via. Tiene un grosso pacchetto di stracci ricoperto di grasso nero.
«Dicono che i cani così non la sentono».
Io non sono sicuro che questa non sia un’altra leggenda metropolitana, ma mi fido. Su un tavolo apre il pacchetto con due bacchette di ferro. Fa mosse rapide, sbroglia tutto in fretta, poi si pulisce le mani.
«Arriva da Palermo», butta via il fazzolettino di carta e tira su col naso. È inverno. Fa freddo. Fuori le luci delle case sono già quasi tutte spente. A Santa Elisabetta non si tira tardi la notte. Non ce n’è motivo. Fuori, la luce soffocata di un lampione illumina la coda tagliata di un cane. Mentre la osservo scomparire, lungo il budello di strade che costeggiano il garage dove ci troviamo, lui mi fa:
«È strano, io a Palermo non ci sono mai stato».
Sorrido, ma a me stesso. Lui neanche mi guarda. Sta parlando da solo.
«Sono stato dappertutto, ma mai a Palermo: non mi piace», conclude.
Si chiama N. e devo credergli. So che è stato in giro parecchio. A Parma, a Bolzano, a Vicenza, a Milano, a Padova, a Belluno, a Torino. Dovunque ci fosse qualche emigrato pronto ad ospitarlo. Che cosa ci sia andato a fare, poi, non lo sa neanche lui. Lì la gente che si lascia alle spalle Santa Elisabetta ci va per lavorare e a lui lavorare fa schifo. Non gli è mai piaciuto. Da bimbo non gli piaceva neanche giocare. La fatica non la capiva, allora come oggi. Da ragazzo s’è comprato tutto quello che s’era potuto comprare coi soldi dei genitori e poi li aveva salutati, ciao ciao. Era capitato che avesse alzato le mani su sua madre e suo padre lo aveva buttato fuori di casa. I vecchi presto erano tornati sui loro passi, ma a lui ormai la cosa non interessava più.
Aveva conosciuto D. e D. gli aveva spiegato perché lavorare fa schifo. Lui non ci aveva mai pensato, ma D. aveva ragione: «Che dignità c’è a spaccarsi il culo per tutta una vita e poi morire schiattati dalla fame?». D. gli disse che la fame era tutto nella vita, e che lui doveva sempre starci attento. Questa cosa non l’aveva capita subito, nonostante, mi ha detto, ci avesse pensato parecchio.
Intanto si fruga nella tasca di dietro dei jeans. Un dragone argentato è ricamato lungo la coscia fino al culo.
«Dici che sarà buona?», sorride, ma ancora non mi guarda.
Con un coltellino ha già tagliato il pacco della Bianca. L’eroina la chiama così perché D. gli ha detto che quelli giusti la chiamano così. A differenza della coca, che è coca e basta. E che a lui non piace.
«Il difetto della Bianca è che è sempre buona – mi dice –, se non è buona non te ne accorgi perché sei già crepato. Con la coca è diverso. Troppo sbattimento. A me piace rilassarmi. Forse è più pericolosa ma questo io non lo so per sicuro. Certo, nel giro di poco può mandare tutto a merda, ma questo capita ai rotti, gente che non serve a un cazzo e perciò anche se crepa è lo stesso, tranne che poi i cazzi da cacare con gli sbirri aumentano».
Per fortuna, per ora non è morto ancora nessuno. Ma la Bianca a Santa Elisabetta se la compra solo C., che morirebbe comunque perché ha già il corpo ridotto uno sfascio e non ci farebbe caso nessuno. Il resto va fuori. La provincia s’allatta con la Bianca del paese. Millecinquecento anime scarse. Per lo più vecchi, e impiegati, e qualche disgraziato che non se ne può andare. Le strade sono vuote, il corso è pieno di case cadenti come tanti molari cariati. Ci stanno anche le pecore, ma quelle non sanno dove andarsene.
«Vuoi provarla?», mi chiede guardandomi per la prima volta negli occhi.
Faccio di no con la testa e allargo le labbra in un sorriso.
«È per amici», dico.
Mi guarda, sta per dire qualcosa ma gli serro subito le labbra con la domanda che mi aveva fatto all’inizio:«Allora, come fate?».
Nel rigirargliela mi ricordo di quello che mi aveva detto l’amico che mi ha mandato da N.: «Se cerchi qualche storia prova con lui, è uno che parla, quello che fa lo fa senza pensarci su, come se stesse facendo una partita col computer o una gita».
E così gli indico il copertone con un leggero movimento della testa verso destra e gli ripeto: «Allora, come fate?».
«Arriva con quelli», mi fa, e anche lui adesso guarda il copertone. «Con quelli e tutto il resto».
«Gli autobus?», chiedo.
«Gli autobus».
Sto zitto, capisco che non è il mio turno. E infatti:
«Hai presente come viaggiavano i pizzini di Provenzano? Allo stesso modo».
La semplicità del suo ragionamento mi stordisce un po’. Faccio mente locale. Pochi mesi fa, prima che arrestassero l’ammazzacristiani di Corleone, gli sbirri avevano fermato uno degli autobus della linea Palermo-Joppolo per un controllo strano. Avevano fatto scendere l’autista e lo avevano perquisito. Cercavano qualcosa ma quello addosso non aveva niente. Trovarono quello che cercavano in un borsone nel fondo-pancia dell’autobus. Tra stracci vecchi e mutande pescarono un pizzino che diceva: «Fondo S. tutto apposto. Ok 21». La grammatica della nuova lingua mafiosa voluta da Provenzano era chiara. L’autista era un corriere. Il messaggio era ancora chiuso nella tipica forma dei pizzini: piegato fino all’estremo, avvolto nello scotch e con il numero 12 scritto a matita nel lato più lungo ad indicare a chi doveva essere recapitato. I mafiosi di oggi sono prima dei numeri, e poi delle facce. Se è possibile nascondere nomi e facce è possibile arginare il cancro del pentitismo. È la sfida che Provenzano ha tentato lungo gli anni della sua latitanza. Lui lo hanno arrestato ma l’idea è destinata a sopravvivergli. L’autista-corriere però è stato arrestato e poi scarcerato immediatamente. Non c’erano prove che quel borsone fosse suo, né che lui potesse essere uno dei qualsiasi riferimenti indicati nel pizzino.
Rigiro i miei pensieri a N. e lui:
«Noi da allora ci siamo fatti furbi. Le cose piccole le portano due tre ragazzetti dentro le suole delle scarpe o dentro dei libri bucati apposta. Pensa, sono un paio di pivelletti che studiano a Palermo e che si sono proposti di farlo spontaneamente, per arrotondare. Noi non li abbiamo nemmeno cercati. Un giorno eravamo qui, loro pigliano un paio di panetti di haschish e mi fanno: “Ma lo sai come fanno in America”. Io dico: “No, come fanno in America?” E loro: “I ragazzi bucano i libri oppure le suole delle scarpe e la roba se la portano appresso”. L’hanno visto fare in un cazzo di film, capisci, e credono di saperla lunga. Noi gli diamo cento euro a viaggio e loro restano contenti, ci si pagano la birretta il sabato sera o la discoteca per la pupa. Il patto è che se c’è un posto di blocco e però ci sono solo gli sbirri se la tengono addosso, zitti e muti, tanto quelli non la trovano, anzi non la cercano neanche. È già raro che fermano gli autobus dei pendolari, figuriamoci se si mettono ogni giorno a far scendere venti trenta persone per perquisirle tutte. Se ci sono i cani è diverso. Mollano tutto sotto qualche seggiolino o dietro negli ultimi posti. Non hanno paura perché sanno che gli altri, anche se li hanno visti, non parleranno. In genere sono tutti paesani oppure di paesi vicini, e perciò sono abituati a farsi i cazzi loro, non ci prova nessuno a fare l’eroe. Comunque, se li beccano sono cazzi loro, devono stare muti e basta, e questo lo sanno fare. Fino a oggi non ci sono stati problemi».
Provo a immaginarmi di che genere di problemi sta parlando N. ed è chiaro che problemi non ce ne sono, almeno per lui, altrimenti non rischierebbe. I ragazzetti sono due tre studenti con la fedina penale pulita. Viaggiano sempre con pochissima roba addosso, ma lo fanno spesso, così evitano i carichi grossi e le condanne pesanti. Rischiano poco e guadagnano sicuro. Da parte sua, N., e con lui la famiglia di Santa Elisabetta che gestisce il traffico, evita i soldi per le staffette e gli staffettari. Prima che saltassero fuori gli studenti erano l’unico modo per far arrivare la droga al paese.
Si usavano due macchine. Una partiva una mezzoretta prima e funzionava da staffetta. Appena incontrava un posto di blocco bastava uno squillo all’autista della seconda macchina, quella col carico di droga, perché questa infilasse una delle tante deviazioni lungo l’autostrada Palermo-Agrigento e facesse marcia indietro.
«Per i carichi grossi ora è tutta un’altra storia. Abbiamo un nostro uomo. Lo paghiamo, è un nostro stipendiato. Fa l’autista sulla linea Palermo-Santa Elisabetta. Il giorno che c’è lui, con la corsa delle 7 di sera, il carico viene messo dentro una scatola di metallo e piazzato sotto l’autobus. Quando arriva al paese è già notte. Il viaggio dura tre ore, tre ore e mezza. All’arrivo l’autista scende al bar, c’è sempre qualcuno che lo conosce e che gli offre da bere, oppure do qualche euro a qualcuno per offrirgliene. Io non lo avvicino mai, lui neanche mi conosce e non sa nemmeno per chi lavora. I contatti sono mantenuti sempre da un’altra persona, fin dall’inizio della faccenda. Mentre lui è al bar, un altro nostro uomo smonta la scatola da sotto l’autobus parcheggiato poco sopra il bar e controlla che sia tutto apposto, ci mette i soldi e la rimonta al suo posto. Poi l’autista si riprende l’autobus e lo riporta alla rimessa. L’indomani, alle 14 riparte per Palermo e il cerchio si chiude. Noi abbiamo la roba e loro hanno i soldi. Noi non sappiamo chi sono loro, e loro non sanno chi siamo noi».
Tranne il fatto che il carico non arriva a gente qualunque ma a uomini della famiglia di Santa Elisabetta: è chiaro che questo è il discorso di un imprenditore, non di un delinquente. Le cose si sono evolute. Cosa Nostra ha fatto proprie le strategie di esternalizzazione delle grandi imprese. Mantiene per sé la gestione dei servizi (droga, armi, rifiuti e quant’altro), ma ne appalta all’esterno molti passaggi, in genere agli avvicinati, gente fidata ma non affiliata. Si potrebbe dire che ha esternalizzato le responsabilità penali mantenendo intatti i guadagni materiali. E anche per le cose grosse ci sono uomini esterni all’organizzazione che se ne occupano.
«È semplice, no?», mi fa N.
«Fila, fila», rispondo io.
«Allora lo compriamo, ‘sto capolavoro?», taglia secco.
«Certo», dico io, e caccio fuori il portafogli.
Ci mettiamo d’accordo su dosi e denaro. Poi, inaspettatamente, mi dice:
«Guarda che lo so che devi fare».
Ho un attimo di mancamento. Mi afferra per la giacca e mi guarda. Guarda che lo so che devi fare. Ma che vuol dire che lo sa che devo fare? Che devo fare?
«La scrivi ancora quella robaccia sui giornali?», mi chiede, ma è una di quelle domande che si rispondono da sole.
«Si», dico, ma non sono tanto sicuro.
Mi lascia stare.
«Ma ormai i giornali non li legge più nessuno», mi fa, «è carta straccia». Si mette a ridere. Mi prende per un braccio e mi accompagna al portone. Non mi saluta, mi dice:
«Se ci metti il mio nome t’ammazzo».
«Va bene Nicola».

[Giuseppe Rizzo è nato ventiquattro anni fa in Sicilia. Ha una laurea in Giornalismo conseguita a Palermo e una specialistica in corso alla Sapienza. Ha scritto per il Giornale di Sicilia, per Il Mucchio Selvaggio e per il Quotidiano della Sera.]

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5 Commenti

  1. Bello leggere un pezzo di un mio corregionale e coetaneo così ben scritto.
    Triste constatare che la malavita organizzata si evolve molto più velocemente dei mezzi per combatterla.
    Avvilente sapere che molti ragazzi credono che, come è scritto su un muro a Messina, “il lavoro mortifica l’uomo e lo rende simile alle bestie”…

  2. Hai ragione, Lunkhead, quando dici che la malavita si evolve molti più velocemente dei mezzi per combatterla. Io credo che da qui ad un paio di anni, se non si scaccia definitivamente la testa al serpente, ci ritroveremo di fronte alla sua mutazione definitiva: quella di un organizzazione che non avrà neanche più bisogno dell’aspetto di segretezza e illegalità, perché perfettamente annidata nel legale dei salotti che contano.

  3. Sì, sottoscrivo. Trovo che sia ormai necessario sostituire la vecchia iconografia del boss, ancora dominante nell’immaginario collettivo, con quella dell’uomo d’affari. La malavita organizzata è parte del mercato, anzi, di più, lo domina; e ciò rende il lavoro d’indagine quanto mai difficoltoso e incerto.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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