Trasumanar, organizzar e traslocar
Forse è vero che a quarant’anni le cose ti parlano diversamente. Perché di cose si tratta, o piuttosto dell’ascolto che si riesce ad avere di esse. E a come metterle nelle scatole di cartone. Anche ora che ripenso alla volta in cui seduto sul futon spacchettavo l’ultimo lotto di libri e mi ripetevo, che finalmente era l’ultimo, di trasloco. Salvo poi ripartire. Quattordici in tutto, e partenze come spartiti, dove collocare, scollocare, spacchettare, impacchettare, riempire svuotare, gettare, conservare, sparadrappare, recidere frammenti di tempo, corredati di didascalie. Aprire ferite e chiuderle. O almeno, cercare di farlo.
Su wikipedia, francofono, ai traslochi viene addirittura dedicata una voce: déménagement.
A proposito delle criticità – parola che è nella mia top five dell’odiato dizionario contemporaneo, insieme a implementare, condividere, interfacciare e resettare, viene stilata la seguente scaletta :
– tempo per effettuare il trasloco
– volume del furgone
– dimensioni dell’ascensore o della tromba delle scale
– numero di piani
e, finalmente,
–stress legato al trasloco
Qualche tempo fa un amico suggeriva di inserire tra le nuove professionalità quella dello psicologo dei traslochi. Perché poi in fondo, ogni trasloco è una psicanalisi selvaggia, ovvero rimessa in discussione e bilancio esistenziale, nostro malgrado, dell’intero arco vitale.
Ci sono traslochi legati alle separazioni, ai lutti, agli sfratti, a tracolli finanziari, e quelli invece che accompagnano nuove convivenze, nuove nascite, un nuovo lavoro che ti porta via in altre città. Ma soprattutto ci sono i traslochi degli amici – perché si è amici solo quando si risponde presente all’appello fissato poche ore prima dai traslocanti. O di uno sconosciuto.
“Mentre attraversava la strada, diretto verso la farmacia all’angolo, girò involontariamente la testa( un bagliore gli aveva colpito di rimbalzo la tempia) e vide – col rapido sorriso con cui salutiamo un arcobaleno o una rosa- che dal furgone stavano scaricando un parallelepipedo di cielo di un bianco accecante, un armadio a specchi su cui, come su uno schermo cinematografico scorreva il riflesso impeccabilmente nitido dei rami, scivolando e oscillando in modo tutt’altro che ligneo: era un vacillare umano, condizionato dalla natura di chi portava quel cielo, quei rami, quella sdrucciolante facciata.”
Vladimir Nabokov, Il dono
Strano e curioso il modo in cui ci ricordiamo dei libri!
Nella mia mente poche frasi di un romanzo amatissimo, erano diventate pagine su pagine di descrizioni dettagliate, minuziose, oltre che delle cose portate via dai traslocatori, delle facce degli stessi. Quasi sempre grossi e rudi. Grossi e rudi, capaci però di gesti sorprendenti, come la volta in cui vidi i due traslocatori ungheresi, di una ditta a Parigi specializzata nel trasporto dei pianoforti, e che dopo aver portato il piano, a braccio, sospendendolo al collo con delle imbracature simili a bretelle, uno di loro, una volta sistemato lo strumento nel salone, cominciò a suonarlo divinamente, per capire se nel trambusto avesse perso la freschezza del suono.
E invece no, un semplicissimo e apparentemente casuale passaggio. Casuale salvo quella nota.
[…]”era un vacillare umano, condizionato dalla natura di chi portava quel cielo, quei rami, quella sdrucciolante facciata.”
E come non pensare allora al diktat stendhaliano che definiva il romanzo come ” un miroir qu’on promène le long d’un chemin. (uno specchio che si trasporti lungo le strade)?
Un vero e proprio manifesto per chi fa letteratura, che di colpo spiazzava ogni finta querelle contemporanea su scrittura serva della realtà o ancella della fantasia. Era quell’oscillare del dispositivo- l’armadio a specchio, occhio del narrante, visione del mondo del personaggio- che liberava il campo della creazione letteraria da ogni dichiarazione di intenti, programma estetico-ideologico della scrittura. Ma non solo questo, mi diceva Nabokov.
Mentre mi accingevo a sistemare la valigia nella camera di mia madre, l’armadio a specchio, aperto, scomponeva i miei gesti, ogni rappresentazione, quasi interpretando il modo in cui ogni cosa della mia vita da qualche giorno era diventato un vorticoso gioco di frammenti, spicchi, frantumi, pezzi. Insomma nulla di cui rallegrarsi, per quanto quella tragica constatazione recasse in sè anche un principio di guarigione.
Strano e curioso il modo in cui ci scordiamo dei libri!
Maneggiare con cura. Handle with care. Attention fragile. Si, vabbè, però, le cose, sempre loro, di te, cura non ne hanno. Insieme alle case. Come sopportare allora l’estraneità dei luoghi che ti erano familiari ancor prima di accoglierti e che ora, a mesi, anni, di distanza, con migliaia di piatti cucinati, milioni di bestemmie esplose in ogni camera, umori e sperma di centinaia di migliaia di amplessi (giuro che è vero) affondati nella calce delle pareti o nei solai dei pavimenti, non ti fanno nemmeno ciao con la mano?
E così le cose, che ti guardano fare. Come negli affondamenti delle navi bisogna ridurre al minimo il bagaglio da gettare sulla scialuppa di salvataggio. E vestiti, libri, appunti, manoscritti nel cassetto vengono passati al setaccio in un’illusione, breve, di trovare qualche petita tra gli insetti, “cafards” annidati tra le altre precedenti vite. Per fortuna dura poco. E quasi ti rasserena l’idea di buttare tutto. Compresi i libri. Con la stessa pena con cui ti era capitato da ragazzo di aver gettato un pezzo di pane senza averlo baciato prima. Anche quelli dei tuoi detrattori odierni, i dedicati inutili, la sfilza di volumi e riviste come croci di un cimitero di case editrici che non erano durate più di una mezza stagione. Il grosso del trasloco in realtà lo fai da un luogo, la casa nativa, al mondo. Insomma nei cassonetti. E in un momento tanto delicato per la città, in cui il rifiuto è più un rimosso freudiano, ovvero presente e non rimovibile,che rumenta, getti le cose con un piccolo pensiero, imbarazzante, di lasciare alla luce del sole un diario di adolescente o un’oscura poesia consacrata agli occhi – o alle tette- della compagna di banco. Una foto compromettente…
Niente a che vedere con la bellissima scena descritta da Walter Benjamin :
“Tolgo la mia biblioteca dalle casse […]: ancora non le aleggia intorno la noia leggera dell’ordine”.
La mia biblioteca è esplosa nell’ultimo trasloco di Parigi. Quella dell’origine con la scomparsa di chi l’abitava, a Caserta, e la custodiva. Così, io.
I commenti a questo post sono chiusi
molto emozionante, effeffe, questo solo mi viene da dirti, ognuno ripensa ai traslochi della sua vita, figli di occasioni diverse e contraddittorie, portatrici di novità e di dolori. Ti auguro che questo trasloco ultimo, causato da tanto dolore tuo, diventi un presagio di meraviglie future. Così. A.
ho avuto solo un trasloco doloroso nella mia vita,
lasciare la casa dell’infanzia
i libri perduti non so dove
con le figure colorate che non scorderò mai
e tante, tante cose in quegli angoli…
e allora ti abbraccio e ti dico
che ogni volta è un riaprire ferite,
ma le ferite sanguinano
come l’amore che non vuole cessare.
Bellissimo pezzo, Franzisko. Me lo stampo e lo affratello o lo sposo con un altro, suo pari, di Manganelli, intitolato neutralmente “Trasloco”, e che dice ad un certo punto cosi:
“E’ difficile immaginare nella nostra cultura un gesto più ricco di implicazioni morali, culturali, affettive; a mio avviso, meglio del matrimonio e poco meno del divorzio. C’è gente che ha in orrore il trasloco: ha perfettamente ragione, me è l’orrore gotico, secentesco, per il lato nero, abissale, terremotato dell’esistenza.”
Diciamo, che una qualità del buono scrittore, dopo quella di saper guardare le superfici, magari degli specchi, è quella di ficcarsi a piè pari negli abissi, con tutto il fegato che ci vuole. E tu sei uno che ci sa giocare bene a cavallo tra inezie ricercate e baratri capitati. Chapeau mon vieux.
“Con la stessa pena con cui ti era capitato da ragazzo di aver gettato un pezzo di pane senza averlo baciato prima.”
Chi non sa niente di quella “cultura”, se non per sentito dire, non può capire il carico devastante, abissale come dice Andrea, che hai stivato in questa frase.
Un pezzo struggente, essenziale. Necessario.
Un abbraccio. A te e al “pezzo di pane” recuperato in extremis. Per il “bacio” che esorcizza l’oltraggio della perdita e rende improfanabile, insieme all’oggetto, la mano che lo stringeva e ancora lo stringerà. Proprio mentre i topi erano/sono già lì pronti ad azzannarlo.
fm
Ma alla fine la cosa peggiore è riaprire i pacchi e scoprire che molto di quello che ci hai messo dentro non ti interessa più, che è inutile esattamente come ciò che hai avuto il “coraggio” di buttare via, perché astratto dall’ambiente in cui era stato accolto o per il quale era stato specificamente acquistato perde ogni fascino e non riesce più ad evocare affetto. Si aprono le scatole nelle quali si aveva avuto la cura di riporre le cose ritenute degne di essere portate con sé e si scopre con disappunto che quelle cose sono state sostituite da oggetti estranei, all’apparenza identici ai propri, ma che si rivelano totalmente asettici. E ti assale la sensazione che la parte di te che aveva apprezzato quelle cose sia inavvertitamente finita anch’essa nel cassonetto. Paccottiglia tra la paccottiglia.
Bel pezzo. Di una suggestiva grazia dolente.
Un pezzo delicato nel sentimento, impronta di malinconia. Nell’età adulta, il trasloco mi lascia indifferente. Non ho nessuno legamo con la città dove vivo: ho il corpo in Picardia, ma non la mente, sono altrove. Il giorno dove traslochero, avrei nessuno rimpianto: una camera senza vita, perché vivo in solitaria della mia propia voglia, non ho potuto vivere nella realtà, nessuno amante, non ho potuto vivere l’amore, perché sono assente.
Invece, ho avuto pena immensa quando ho lasciato la mia terra d’infanzia, vicino a Carcassonne. Ho errato nel giardino, cercando araccoglier qualcosa, ma niente, sempre la vista del ciliego. Ho perso gli amici e ho vissuto la prima pena d’amore. Con il trasloco mi è rimasta il ricordo del primo sangue, lasciando l’infanzia per sempre.
Ora, non ho più legamo, gli amici si allontano e l’oblio ricopre tutto.
***
Io odio i traslochi, eppure ne faccio in continuazione, a volte mi sembra di avere un destino circense, sempre in movimento. Ho un animo stanziale, amo la sicurezza che ti danno punti di riferimento minimi: lo stesso giornalaio che ti tiene via il tuo quotidiano preferito, il bar dove poter chiedere “il solito”, la panettiera che ti riconosce. Anche questa casa, che mi piace e che abito da soli 7 mesi, sembra destinata a non essere l’ultima, e quindi presto dovrò ricominciare a imballare i libri, ora che avevo appena finito di comunicare a tutti il mio nuovo indirizzo. Qualche settimana fa ero a Pistoia, e ne ho profittato per vedere la mostra di Claudio Parmiggiani a Palazzo Fabroni. Le sue “delocazioni” sono l’ombra di librerie appoggiate a parete. Lui le mette lì, poi gli spara fumo e fuliggine e quindi le toglie. Mi danno sempre la sensazione dei traslochi, della casa appena svuotata, che esibisce le tracce mnestiche di un passaggio che presto si perderà irreparabilmente. Quelle ombre sono le sindoni dell’inorganico, il sudario sacro delle cose. Si dice che traslocare sia un po’ morire per poi rinascere altrove, ma è solo un’illusione. La vita è tutto un falso movimento: come per la Regina Rossa di Lewis Carroll (in “Attraverso lo specchio”), che muovendosi si porta appresso il paesaggio circostante, la nostra vera identità ci pedina, ci perseguita ovunque, non c’è verso di seminarla.
“A Napoli il quattro maggio è sinonimo di traslochi, perché in passato avvenivano tutti in questo giorno.
Dire “Fare il 4 maggio” significa fare un trasloco, un riassetto pesante in ambito domestico che comporta dei cambiamenti!”
Quando La città di Napoli affidò Piazza Plebiscito a Kounellis per l’appuntamento di fine anno con l’arte contemporanea, il geniale artista appese sotto le arcate a testa in giù, mobili, tavoli, armadi e quant’altro. La gente, dalle persone più semplici a quelli più avertis si aggirava incredula e meravigliata sotto i porticati. Qualcuno ripeteva ” me pare ‘o quttre è maggie, qualcun altro, io per esempio,partecipavo al miracolo di assistere a un trasloco alzando la testa.
effeffe
Cosi Come: è una storia deliziosa, un po’ sacra. Allora Amiens sorella di Milano? Per Traslocare deve abitare il luogo con la mente, gli ogetti. Niente da prendere con me, quando partiro, tranne libri. I mobili sono giusto funzionali, niente affetto. Parto alle 7, torna alle 18, non ho l’impressione di appicare la mia anima nel appartemento dove vivo da sei anni: dormo (molto), leggo, niente di più, non ricevo: sono nel mio monde altro della realtà. Non vedo più il cielo grigio, cammino senza vedere la città, non ho affetto e mi tengo a distanza, non so perché…
Dunque Di Amiens nessuno ricordo buono o cattivo.
Furlen: mi sembra che nella notte del Capodanno (in Italia) si buttano oggetti per creare una partenza nuovo.
Grazie, Francesco. Andrea e fm hanno detto quello che direi, e molto meglio di me.
Caro Furlèn,
ho letto con molto piacere la tua storia intensa, melanconica e così digressiva, qua e là, che mi son perso per queste case tue e i tuoi cassetti e i tuoi libri,
tra Caserta e Parigi.
E in quello specchio: bellissima immagine.
E mi sono perso bene.
Ho visto due coppie di amici, che non si conoscono tra loro, che per anni hanno tenuto una stanza adibita a magazzino di scatoloni provenienti dalla precendete abitazione, contenenti libri, io credo.
Ne aprivano uno, ogni qualche mese; andarono avanti per anni con questo ritmo.
Io non riuscivo a darmi spiegazione.
Poi una ci fu, una e semplice, le due coppie erano senza figli.
Si sa: i figli riempiono le stanze.
MarioB.
Véronique, da una stanza a Parigi puoi sondare lo stato di salute del nostro continente. Anche solo dormendo. Un privilegio. Se si ha la forza della propria consapevolezza. Spesso non desiderata.
Io quando trasloco ho un trolley e un notebook. Nient’altro. Chiudo la porta per l’ultima volta senza guardarmi alle spalle. Accellera il miocardio. Respiro profondo e giù per le scale a trascinarmi.
Ho smesso di collezionare cataloghi. Li sfoglio alle mostre. Sono cinque anni che non compro più un libro in un bookshop. Nulla di interessante. Ordino prime edizioni su Internet. Spedite nella mia casa d’origine. Dove non torno mai.
Ho vissuto a Parigi per quasi un anno. Della città mi manca la solitudine dignitosa di chi vuole restare in pace. Coltivando il proprio furore.
Buona serata.
Alessandro: molto bello quest’assenza di materiale: straordinaria libertà quando ciascuno ammuchia, colleziona.
Ho riletto il testo di effeffe e lo trovo sublime. Mi colpisce la grazia nell’evocazione appunto nel trasloco pesante: lo rende leggero di tristezza. Il trasloco svela il momento di separazione con la testimonianza di vita anteriore, la metamorfisi dal pieno al vuoto, l’abandonno di una casa reale, fisica. Traslocare è cambiare di corpo, lasciare una cortaccia.
Invece quando non si abita il corpo, il luogo non custodisce niente o solo il risiduo della sporcizia. Per esempio, non sento il mio corpo o meglio sento la brutezza della mia apparenza, fisico senza grazia, né femminile, né maschile. Il luogo segue, non contiene niente di bello, nessuno amore.
Non resterà nulla impronta e allora si potrà vivere la libertà di saltare nel vuoto, senza pena. Perché non ho mai lasciato al fondo la casa natale.
Véronique, in quello che scrivi c’è tutto il mondo dei Catari da cui forse discendi. Sei di Ville o di Cité? Io da turista ho visto in un pomeriggio solo le fortificazioni medievali…
Le stanze a Parigi non vogliono essere abitate. Con loro devi avere rapporti intensi ma brevi: amano essere indipendenti. Vèronique, forse dovresti traslocare. Cambiare stanza. O dipingerla di rosso… Non ti perdonerà.
Tristezza
per favore va via
tanto tu in casa mia
no, non entrerai mai
c’è tanta gente che ha bisogno di soffrire
e ogni giorno piange un pò
invece io voglio vivere e cantare
e devo dirti di no. . .
tristezza
per favore va via
non aver la mania
di abitare con me
ormai dipingerò di rosso la mia stanza
appena parti lo farò
al posto tuo ho già invitato la speranza
e finalmente vivrò.
(Ornella Vanoni, Tristezza)
Non ti sbagli, Alessandro, sono nata vicino a Montségur (Lavelanet) e certo la famiglia del mio padre ha radici lontani nel paese.
Ho vissuto in una piccola città e ogni settimana andavo con la famiglia fare un giro a Carcassonne nelle città moderna. La cité è molto bella e quando la neve cade in inverno, tutto è fiabesco. La regione è sublime, c’è sempre l’orrizonte delle Pyrénées e l’esperanza del mare. Ti consiglio di visitare Les Corbières nella primevera: i ciliegi sono in fiore. A volte si vede encora neve nelle cime. Tu puoi anche fare un giro In Spagna.
Grazie per Tristezza. Dipingere di rosso la stanza, ci pensero…
Buona serata a te!
oh. les Corbières,
che buon vino corposo!
O che vigneti!
E l’esperanza del mare, che bella espressione!
:-)MarioB,