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Ritratto di signora con tatuaggio e pasta alla puttanesca

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di Michele Monina

“Se cercate la ragazza è il campanello più in alto”, mi dice un muratore, con un lieve, impercettibile accento delle montagne sopra Bergamo. Ora, a parte la stranezza di sentirsi chiamare con il Voi, come negli ultimi dieci anni, credo, capita solo ai protagonisti dei fumetti della Bonelli, c’è pure questo mistero di come abbia capito, il vecchio magùt intento a impastare cemento, che in effetti stavo cercando la ragazza, la cantautrice L’Aura, nello specifico. Cos’è, c’ho scritto in faccia che mi occupo di musica? Del resto, a pensarci bene, l’aspetto più strano è che a sentire le sue canzoni, quelle del nuovo album Demian, motivo che mi ha spinto fino a qui, come quelle del suo esordio Okumuki, il termine ragazza proprio non ti viene in mente. Non che sembri vecchia, sia chiaro, piuttosto l’idea, o almeno l’idea che da a me la sua musica, è che lei, L’Aura sia una artista matura, una donna, quindi, più che una ragazza. E dire che ha appena ventidue anni, quindi è praticamente poco più che una bambina per il panorama musicale di casa nostra, se è vero come è vero che, almeno in Italia, un rocker come Manuel Agnelli è il rappresentante della nuova scena alternativa a quarantuno anni suonati. Non parliamo poi di quello che succede nella società vera e propria, perché lì, si sa, l’adolescenza è costantemente portata una tacca avanti man mano che Stefano Benni, l’eterno giovane, invecchia di un anno. Quindi è andata bene che il magùt non mi abbia parlato di bambine, perché, temo, non avrei mai capito che per arrivare a L’Aura avrei dovuto suonare il campanello in alto (e perché, visti i tempi che corrono, mi sarei anche fatto scrupoli comprensibili). Cerco il campanello in alto, invece. Lo suono, e lei, L’Aura mi viene incontro, lungo il cortile. Rispetto all’ultima volta che l’ho vista, qualche mese fa, ha i capelli rosso chiaro, ancora più lunghi. E sulle sue braccia, proprio sopra i polsi, fanno bella mostra di loro due mostriciattoli vagamente timburtoniani, alla Nightmare before Christmas, due tatuaggi, scoprirò di qui a poco, disegnati dalla stessa L’Aura, una che, evidentemente, ama spaziare non solo in generi musicali diversi, cosa che già sapevo ma che di qui a poco mi verrà confermata dall’ascolto delle nuove canzoni, ma anche in discipline differenti, dalla musica alla pittura, appunto. Indossa una t-shirt senza maniche nera, con al centro una scritta di paillette rosse e argento. La scritta è di quelle che spiazzano, se mai ce ne fosse bisogno, Kiss. No, nessun riferimento ai baci, perché, in caso, non ci avrei visto nulla di strano. No, i Kiss di cui parlano le paillette sulla maglietta sono proprio la band hard rock, quella di Gene Simmons e delle maschere fatte col cerone e gli stivali con le zeppe. Musica distante anni luce da quella di L’Aura. “Me l’ha regalata Andrea Bariselli, il mio prodottore,” mi dice mentre mi fa accomodare in casa, “lui è uno fissato con l’hard rock…” Un produttore fissato con l’hard rock, con tanto di passato nella band dei Death SS (perché mi occupo di musica, come anche un muratore intento nel suo lavoro capisce al volo, e quindi un po’ di cose le so anche io…), questo è uno dei primi tasselli per capire il mistero L’Aura, mi segno nella mia agendina mentale. Mi accomodo guardando con sospetto una chitarra acustica che si trova ai piedi di un piano elettrico. Ma di lei non troverò traccia nelle tredici canzoni nuove, e lo dico con sollievo.
Per finire il quadro, visto che questo più che un articolo intervista è quello che tecnicamente viene chiamato un pezzo-ritratto, L’Aura indossa una minigonna a strisce verticali rosso-nere, calze nere e un paio di ballerine rosse. Un piercing spunta sotto l’angolo sinistro della bocca.
Chiaramente con un pezzo-ritratto non si intende un articolo in cui si descriva nei dettagli l’oggetto del pezzo-ritratto stesso. Ma i dettagli, a volte, posso dare una mano a capire.
Ecco i dettagli quindi, è quasi ora di pranzo e sono appena entrato in casa di L’Aura, per ascoltare in anteprima il suo nuovo album e per scambiarci quattro chiacchiere assieme. Come sono vestito io non è importante, non è mio il ritratto di questo pezzo, ma sappiate che solo a vedermi si capisce che mi occupo di musica, chiedete al vecchio magùt per avere conferma.
“Pensavo di fare un primo, tipo una pasta alla puttanesca… ti piace?” Mentre le prime note di Demian, questo il titolo del nuovo lavoro di L’Aura, stanno cominciando, delicatamente, a occupare ogni spazio occupabile nell’appartamento in cui la cantautrice si è trasferita negli ultimi mesi, manco fosse ossido di carbonio, lei si mette ai fornelli.
Se parlo di delicatezza rispetto alla musica di L’Aura, nonostante la palese inquietudine che accompagna spesso le sue canzoni un motivo c’è. Demian comincia con un microbrano per sole voci, in francese. Tipo quelle che si cantano in montagna, giocando con l’eco. Un inizio davvero spiazzante, una carezza laddove mi aspettavo uno schiaffo.
Schiaffo che però arriva subito dopo, con la seconda traccia, One, decisamente più rock. Mentre L’aura fa a pezzetti i pomodorini a ciliegia, cominciamo a chiacchierare di questo nuovo lavoro. “L’album si chiama Demian perché volevo raccontare una storia non tanto diversa da quella che Herman Hesse racconta nell’ominimo libro”. Omonimo libro. Che brutta espressione. In effetti nessuno in questa stanza ha mai pronunciato queste due parole, almeno in quest’ordine, o almeno in mia presenza. Ora, voglio giocare a carte scoperte. Questa cosa di Herman Hesse, per altro vera, ve la racconto solo per giustificare ai vostri occhi il fatto che in giro ci sia ancora qualcuno come il muratore delle montagne sopra Bergamo che ancora, con un semplice sguardo, riconosce in me qualcuno che ha a che fare con la musica. In realtà per tutto il tempo della mezza giornata che io e L’Aura abbiamo passato assieme si è parlato d’altro: di musica, chiaramente, di ispirazione, idem, di concerti, di show business, di libri, anche di libri, sì, come il Demian di cui sopra, ma soprattutto di vita, più o meno in generale. E abbiamo ascoltato le tredici tracce del suo nuovo album, dando vita a questa stranissima (la parola chiave di questo pezzo-ritratto, lo avrete capito, è “strano”) situazione per cui sei in casa di qualcuno che ti fa ascoltare in anteprima il suo nuovo album, che sarebbe come andare a casa di un regista a vedere un film o a casa di uno scrittore a sentirsi leggere le pagine di un libro. Situazione strana in cui, magari, questo stesso qualcuno si mette a parlare sopra la canzone che lui stesso (lei stessa, nel caso specifico) ha scritto e cantato, creando un muro del suono degno di Phil Spector.
Abbiamo parlato di come questo album sia uscito d’urgenza, nel giro di pochi mesi, questi ultimi mesi che ci dividevano dal nostro ultimo incontro, passato a parlare di poesia (perché L’Aura sarà si una ragazza di ventidue anni, ma è anche un’artista eclettica come in giro ce ne sono poche, non scordatevelo mai) e a comprare cartoni animati dell’autore de Il castello volante di Howl nei negozi della Casbah di Milano.
Ma questo è un articolo che prende spunto dalla pubblicazione del secondo album di L’Aura, per cui torniamo in cucina, mentre lei è intenta a tagliuzzare olive nere e sullo sfondo si succedono la ballata E’ per te, in compagnia del vocalist dei Deasonika Max Canotti, possibile prossimo singolo, e il rock barocco e tirato di Beware! The modern eye, una delle migliori canzoni di tutto questo lavoro.
L’Aura è un UFO nel nostro panorama musicale, un oggetto volante non identificato (lo dico perché non vorrei che, visti i poc’anzi citati Kiss, qualcuno pensasse che la sto paragonando all’omonima band tedesca, gli UFO, appunto). Una che si scrive da sola le sue canzoni, e le canta con voce davvero bella e particolarmente educata. Le sue sono poi canzoni complesse, figlie di un rock anni settanta filtrato dal gusto di una ventiduenne cresciuta studiando pianoforte (e quindi assai poco chitarristico, cosa che, visto il riferimento al rock degli anni ’70 potrebbe suonare un po’ strana, ma ascoltate e capirete). Il fatto di cantare in italiano come in inglese (e anche in francese, a questo punto) ce l’ha fatta arrivare come un oggetto ancora più alieno.
Perché se volete fare arrabbiare L’Aura e trasformarla in un clone di uno dei quattro indemoniati cocker di cui indossa la maglietta senza maniche non avete che da tirare fuori due nomi: Elisa e Tori Amos. È a loro, infatti, che certi miei colleghi un po’ pigri e, mi permetto di dirlo, un po’ ignoranti, hanno spesso paragonato la nostra.
Una cantante che usa l’inglese: Elisa.
Una cantante che suona il piano: Tori Amos.
‘Sti cazzi.
Nel mentre sono passate, in successione, la ballata pianisticha I’m pucked un I can barely walk e l’inquietantemente epica Just want to grow old, inframezzate dalla stralunata The river. Noi siamo a tavola che pranziamo, in una tavola apparecchiata con piatti e bicchieri di strana fattura sghemba, struttura di metallo, tipo carbonio, con inserti di vetro.
Elisa e Tori Amos, dicevo. In realtà le due cantanti sono davvero distanti dal pianeta L’Aura. Tanto Elisa è una cantante perfettamente pop, rassicurante come la sorellina minore con cui si saltava sul lettone dei nostri il sabato mattina, quanto L’Aura è un’autrice e interprete “articolata e sfaccettata”, sempre in bilico tra dolcezze e sferzate, tra chiari e scuri, con forte prevalenza di questi ultimi, un po’ come la cugina dark che vedevamo solo durante le vacanze estive, lei sempre immancabilmente vestita in nero e con gli anfibi, quella che ci ha insegnato a fumare di nascosto e per la prima volta ci ha parlato di ciclo mestruale ma anche di Amore. Tori Amos, invece, è una grande pianista, ma ha un modo di cantare talmente distante da L’Aura da spingere a chiederci perché non sia stata tirata in ballo anche, che so?, Diana Krall o Mariella Nava, se solo il fatto di suonare il piano deve spingere a paragoni.
Sfaccettature, dicevo poco fa. Basta passare dal pop anni ’80, vagamente bluevertighiano di Non è una favola, primo singolo di questa nuova avventura, alle delicatezze vagamente jazzy di I’m with you, una delle sue più belle canzoni di sempre, per farsene un’idea.
La pasta non era affatto male come il fatto di essere stata preparata da una cantautrice di soli ventidue anni da poco andata a vivere da sola poteva lasciar presagire. E adesso stiamo bevendo caffè e mangiando frutti di bosco mentre dallo stereo escono le note di Demian, canzone che da il titolo al tutto.
Ora, visto che ormai siamo quasi arrivati alla fine di questo pezzo-ritratto, credo di potermi permettere di trattare i miei lettori con una certa confidenza. Demian è una delle canzoni più belle che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi anni. In assoluto. Una di quelle che a fine anno si mettono nelle classifiche personali (se si è tra quanti a fine anno stilano, per lavoro o anche solo per passione, delle classifiche personali). Non ci fossero anche gli occhi lucidi di L’Aura, mentre dice che questa canzone parla di una persona reale, quella che ricorda il Demian del libro di Hermann Hesse, verrebbe da chiederle di sentirla almeno cinque o sei volta di fila, come mi capita di fare con le canzoni che amo particolarmente. Ma visto che già è abbastanza strano (giuro che non userò questa parola nei prossimi dodici mesi, in una sorta di depurazione post-overdose) ascoltare un album davanti all’autore (autrice nel caso specifico) del medesimo, che per di più sta per mettersi a lavare i piatti su cui hai appena finito di mangiare un piatto di pasta alla puttanesca che lui stesso (ci siamo capiti) ha preparato, figuriamoci cosa potrebbe essere mandare in loop una canzone, per quanto bellissima, con l’autore (…) della stessa in lacrime davanti a voi. Demian è un brano-vita, se anche in musica si può usare un’espressione che di solito si utilizza parlando di libri. Una di quelle canzoni che capitano di rado nella vita di un’artista, figuriamoci di una giovane artista che già ne ha scritte almeno un altro paio della stessa portata (a parere di chi scrive, Piove e Irraggiungibile). E allora poco conta che anche le rimanenti tre tracce dell’album siano degne di nota, in modo particolare Turn around, l’insolito duetto con Gi Kalweit, ballata teatrale in cui le due voci delle interpreti si fondono in maniera tanto naturale da sorprendere, brano che chiude magistralmente questo secondo album. E poco conta che il video preparato per il lancio di Non è una favola sia anch’esso degno di nota, come il booklet del cd e il servizio di corredo al lancio del suddetto. Cioè, tutto questo conta, perché un album va presentato nel migliore dei modi, quindi è ovvio che vada fatto un bel video, che si facciano strategie di marketing adeguate e tutto quanto, ma se vi capiterà di incontrare lungo la vostra strada questa canzone, Demian, capirete, senza bisogno del contributo di MTV, dei servizi sui giornali e dei passaggi al Festivalbar. Capirete che L’Aura c’è e lotta insieme a noi, coi suoi ventidue anni, i suoi mostri tatuati sulle braccia e la sua maglietta dei Kiss. La trovate dentro Demian, l’album e la canzone, anche se, c’è da scommetterci, questa è solo una porzione di quanto potrà offrirci negli anni a venire. Del resto, se cercate la ragazza sapete come fare, il suo è il campanello più in alto.

[pubblicato su Diario della settimana del luglio 2006]

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7 Commenti

  1. Il pezzo-ritratto che diventa il ritratto dell’articolista mentre fa il pezzo-ritratto. Mah. Questa autoindulgenza giornalistica da Sabelli-Fioretti è rivoltante.

  2. Ci fa sempre piacere quando qualcuno ricorda i Death SS.
    Abbiamo sofferto molto quando i finlandesi Lordi hanno vinto l’Eurovision Music Contest (un premio pop) con lo stesso format (costumi horror e musica digeribile). Erano venti anni avanti ma avevano sbagliato genere.

  3. Autoindulgente. Articolista. Rivoltante. Ammiccante. Fastidioso. Quando faranno la carta del gioco Taboo su di me (non dico “se”, ma “quando” per autoindulgenza, ovviamente…) ecco le cinque parole che nessun concorrente dovrà dire per far capire ai suoi compagni di squadra che il nome da fare è il mio. Grazie, amici.
    Saluti, MM

  4. “Autoindulgente. Articolista. Rivoltante. Ammiccante. Fastidioso. Quando faranno la carta del gioco Taboo su di me (non dico “se”, ma “quando” per autoindulgenza, ovviamente…) ecco le cinque parole che nessun concorrente dovrà dire per far capire ai suoi compagni di squadra che il nome da fare è il mio. Grazie, amici”

    :-)

  5. :-) quoto il quote di garufi (ddddddio, come parlo ggggiovane!).
    Anche a me piacerebbe essere ricordato così! Sarà per questo che il pezzo non l’ho trovato così osceno come le prefiche di turno?

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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