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Quelli che vengono dall’altro mondo. Tolleranza o uguaglianza? (1)

images-alien.jpg di Andrea Inglese

L’inciviltà a venire

Una certa sinistra, sia di governo sia di cittadini, ripete da tempo che la “sicurezza” non è una questione che si può lasciare alla destra, anche perché la “sicurezza” non è una questione connaturata alla destra. Su questo punto, sono perfettamente d’accordo, a patto che si definisca preventivamente quali fenomeni siano compresi sotto il concetto di “sicurezza”. (Dovremmo, allora, fare l’elenco delle varie voci connesse all’insicurezza sociale: l’insicurezza formativa, salariale, abitativa, delle condizioni di lavoro, sanitaria, ecc.) Ma la convinzione che lo straniero sia innanzitutto una “minaccia”, da cui bisogna difendersi con urgenza, in modo istituzionale o informale, con leggi d’emergenza o vigilanza cittadina, questa convinzione può essere situata legittimamente da qualche parte, nell’arco delle opzioni politiche e ideologiche della nostra repubblica? È una convinzione solo di destra? O è qualcosa di “trasversale”, per usare un termine oggi molto rassicurante? Ad una semplice analisi di realtà, questa convinzione si rivela per ciò che veramente è: un’idea basata su presupposti razzisti ben radicati. Ma il razzismo non è un’opzione politica, per minoritaria e reazionaria che sia. Esso è solo l’estrema inciviltà, la barbarie. Ma una barbarie che può, oggi, insediarsi nel normale funzionamento di stati che si definiscono democratici.


(Prima di proseguire, vorrei dare una definizione di razzismo. In termini correnti, il “razzismo” è un’ideologia che si accompagna a specifiche pratiche politiche, ossia la convinzione, sostenuta da argomenti più o meno sofisticati, che ci siano razze inferiori alla propria, e che quindi siano giustificate misure discriminatorie, di asservimento e di persecuzione. Il razzismo è quindi un dispositivo d’opinioni ma anche di norme, d’idee e di leggi, di convinzioni soggettive e di attività istituzionali. Studiosi marxisti, come Immanuel Wallerstein, hanno ricordato che il segreto del razzismo, la sua ragion d’essere strutturale, sta nella divisione del lavoro su scala mondiale e nell’esigenza propria all’economia capitalistica di giustificare su base etnica lo sfruttamento della forza-lavoro. Il razzismo non è qui concepito come un increscioso fenomeno, che si produrrebbe in circostanze eccezionali, quali grandi ondate migratorie. Il razzismo è strategico, è un dispositivo di carattere economico, in grado di soddisfare le esigenze razionali dei grandi sfruttatori, i detentori di capitale, e i bisogni emozionali di certi gruppi sociali, classe media, piccola borghesia, o fasce di proletariato. (L’emozione razzista non ha classe né frontiere.)

Scrive Wallerstein, in Il capitalismo storico (Einaudi, 1985): “Quelli che definiamo «gruppi etnici» sono gruppi di persone di dimensione piuttosto grandi a cui sono state riservate certe funzioni lavorative/economiche, rispetto ad altri gruppi analoghi che vivevano nella stessa area geografica. La simbolizzazione esterna di tale distribuzione della forza-lavoro era costituita dalla specifica «cultura» del gruppo etnico – la sua religione, la sua lingua, i suoi «valori», il suo particolare insieme di modi quotidiani di comportamento. (…) sto sostenendo che vi è, e vi è sempre stata, una correlazione piuttosto altra tra etnia e ruolo economico-professionale, e che tale correlazione ha attraversato tutte le varie aree spazio-temporali del capitalismo storico.”

Sul piano soggettivo, il razzismo si costruisce abitualmente attraverso un’indebita generalizzazione. È una questione, se mi si permette un’estensione semantica, di cattivo uso di quelli che in logica si chiamano “quantificatori”. Questa generalizzazione avviene in due sensi, muovendo dal particolare al generale ma anche dal generale al particolare. Nel primo caso, estendo a un’intera categoria di persone aventi qualche aspetto in comune una proprietà che non posso sapere a priori se hanno in comune. Data l’esistenza di un individuo ladro – che per altro è anche di religione musulmana, o di provenienza rumena – sostengo che tutti gli individui che sono di religione musulmana o di provenienza rumena devono essere anch’essi ladri, ossia avere in comune non solo alcuni aspetti (la religione, la provenienza) ma tutti gli aspetti. Nel secondo caso, posto che esistano statisticamente delle correlazioni tra certi gruppi sociali e certe caratteristiche negative, si attribuisce a priori ad ogni individuo di quel dato gruppo quella caratteristica negativa. Qui cito un passaggio di Primo Levi tratto da I sommersi e i salvati: “Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che è ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere”.

Ora, quelli che appena descritto sono due meccanismi diffusi di produzione del pregiudizio a cui tutti siamo quotidianamente e spontaneamente sottoposti. Il problema è che in certi contesti sociali, abbandonarsi a questi meccanismi è altamente pericoloso. D’altra parte, è insensato sottovalutare queste “vie soggettive e spontanee” al peggiore razzismo estremista o istituzionale. Se il razzismo strategico non potesse fare leva su meccanismi diffusi e spontanei, non riuscirebbe mai ad imporre, nelle istituzioni, i suoi dispositivi di discriminazione, asservimento e persecuzione.)

Il razzismo pone le premesse per quanto di peggiore in Europa, e in Italia in particolare, abbiamo conosciuto. Una mentalità razzista condivisa da una maggioranza di persone è la premessa di una discriminazione istituzionalizzata, ossia della segregazione. La segregazione a sua volta pone le premesse della pulizia etnica (per allontanare il corpo estraneo dalla comunità, bisogna prima isolarlo e renderlo appunto “estraneo”). La pulizia etnica istituzionalizzata e accelerata pone le premesse per lo sterminio, per il genocidio (all’allontanamento forzato si sostituisce la sparizione immediata del corpo estraneo). Con questo non dico che chi ragiona in termini razzistici sia consapevolmente un’apologeta del genocidio. Intendo solo sostenere che chi esprime il razzismo, così come colui che lo giustifica e lo tollera, hanno smesso di credere in un mondo civile, e fanno un passo decisivo nel fascismo e per il fascismo.

Per chi, da qualche anno a questa parte, frequenti luoghi pubblici, o legga semplicemente i quotidiani nazionali, dovrebbe essere ormai evidente che ragionamenti o slogan razzisti sono riscontrabili un po’ ovunque e con grande frequenza. Non è insomma necessario stringersi agli ultrà con la celtica tatuata sul collo o far parte delle Guardie padane per sentire frasi insopportabili. Basta trovarsi a cena con parenti, amici, colleghi di lavoro, persone “di sinistra”. La mia riflessione, d’altra parte, non si rivolge certo al razzista convinto e coerente, di fede padana o neofascista. Ma a quella “zona grigia” sempre più ampia, di brave e moderate persone, che si sentono vieppiù minacciate dalla presenza di stranieri sul loro territorio, e che giungono alla conclusione che è proprio lo straniero in quanto tale a costituire un problema. D’altra parte, nel giro di pochi anni, lo straniero è divenuto il “nome” che legittima ogni confusione. Intorno alla sua presenza s’intrecciano le ombre di questioni minacciose e irrisolvibili: l’esistenza illegale, l’economia irregolare, il degrado urbano, il delitto efferato, il terrorismo, l’invasione islamica, la barbarie dei costumi. È in virtù di questa confusione, alimentata dai media e promossa dalle forze politiche di destra, che si rafforza la xenofobia.

D’altra parte, dovrebbe esserci oggi chiaro, che la democrazia, a differenza dei regimi del terrore, ossia delle dittature e dei totalitarismi, si conserva attraverso la moltiplicazione delle paure. Noi non viviamo nell’ordine del terrore unico e centralizzato, ma in quello plurale delle fobie. The Culture of Fear era d’altra parte il titolo del libro di Barry Glassner, sociologo statunitense, che offrì alcuni spunti fondamentali al documentario di Michael Moore Bowling for Colombine del 2002. Ci siamo dentro anche noi europei, adesso, nella cultura della paura. Ed essa ha nello straniero il suo punto di sistematica e unificante applicazione. Ma la xenofobia non è che la fase “passiva” di un movimento emotivo del corpo sociale che sfocia da ultimo in una fase “attiva”: la paura immagazzinata prepara la reazione aggressiva, ossia la piena realizzazione politica del razzismo come esclusione e persecuzione. C’è un legame tra certi discorsi, le emozioni che essi veicolano, e le legislazioni che pretendono di rispondere ad essi. O più precisamente, usando le parole di David Bidussa, “sono i linguaggi delle ideologie che nel tempo permettono che si strutturino e si costruiscano coerenti prassi politiche” (Il mito del bravo italiano, Saggiatore, 1994).

Ora, il non piccolo paradosso che oggi ci troviamo ad affrontare, con grande sorpresa di molti opinionisti “democratici”, è che l’inciviltà è tra noi, ossia che esiste una barbarie sub specie democratiae. Strana scoperta per chi dimentica che Hitler nel ‘32, come molti altri dittatori in seguito, fu democraticamente eletto. Il feticcio della democrazia, tanto agitato dagli USA e da una parte dell’Europa per giustificare guerre nei confronti degli stati anti-democratici, non è sempre al riparo da inquietanti contraddizioni. Come si fa ad essere democratici, ossia “buoni” per definizione, e nello stesso tempo simpatizzanti per il fascismo, ossia affascinati dai “peggiori”?

Qualcuno potrebbe non condividere questo nesso tra razzismo e fascismo, ma esso appartiene alla nostra storia, a quel passato fascista che sembra avere, dopo più di sessant’anni, ancora e sempre un futuro, in virtù di continuità sotterranee o di revisionismi recenti. La denuncia di questa implicazione tra razzismo e fascismo non è dunque da leggere come una proiezione esasperata e nel futuro di fenomeni d’attualità inquietanti ma minoritari: le ronde anti-islamiche o anti-rom. L’implicazione tra razzismo e fascismo ci sta alle spalle, anche se essa trova oggi una sua forma di aggiornamento democratico: le ronde sono l’anticipazione spontanea e dal basso, di decreti promossi dall’alto e in forma istituzionale.

Uno sguardo retrospettivo ce lo offre ancora David Bidussa, uno studioso che è più volte ritornato sulla questione della legislazione razziale del ‘38 e sulla visione autoindulgente che il senso comune nazionale ha sviluppato nei confronti di questa vicenda. Essa è stata “scaricata sul nazismo, guardata e analizzata come un evento non correlato alla storia nazionale”. Bidussa ci ricorda, invece, come il salto dal razzismo come cultura diffusa al razzismo come sistema istituzionale di discriminazione avvenga con la guerra italo-etiopica. E scrive:

“Il razzismo in Italia, come discorso politico coerente, non come cultura, invece già presente, non nasce preliminarmente contro gli ebrei, ma in risposta al timore del “meticciato” come esito della vittoria militare in Etiopia. In altri termini: il razzismo ha il suo primo banco di prova nelle leggi promosse tra il 1936 e il 1937 riguardanti le popolazioni indigene africane appartenenti all’Impero italiano – ma ‘non facenti parte della nazione italiana’. (…) Le leggi razziali sono il frutto di una cultura e di una politica che in prima battuta non assume il sangue come criterio discriminante della classificazione, ma che fa della nazionalità il perno della questione della piramide gerarchica dei sudditi, suddividendoli tra cittadini italiani con diritti e cittadini senza diritti, ergo servi.” (Le radici profonde dell’antisemitismo, n° 2 sul 25 aprile de il manifesto, 1995)

Il razzismo fascista, insomma, ponendo l’accento non “su un dato biologico” – come quello nazista – “bensì su uno comunitario” si riserva un radioso futuro. L’unico razzismo veramente legittimato, nel XXI secolo, è infatti un razzismo “comunitario”, che ragiona in termini di determinazioni culturali (la religione, le tradizioni, la cultura nazionale) e non di patrimonio genetico. Oggi, senza troppa difficoltà, potremmo ritradurre quella disgiunzione tra sudditanza all’impero e cittadinanza nazionale, riservata ai colonizzati africani, con una disgiunzione tutta interna alla logica del capitalismo. Ne parla in modo molto chiaro il filosofo Alain Badiou nel suo libro dedicato al neoeletto presidente francese, De quoi Sarkozy est-il le nom? (Come già il titolo annuncia, poco si parla di Sarkozy, e molto degli interessi e della visione del mondo che egli difende, come appunto “prestanome” di una certa minoranza della sua nazione.)

L’unico mondo

Per Badiou la questione politica centrale che oggi affrontiamo è quella dell’esistenza di “un unico mondo”, laddove il capitalismo nella sua forma democratica e “occidentale” ci offre un mondo unificato di merci e segni monetari a patto di escluderne di volta in volta delle persone per ragioni di reddito o provenienza. Ognuno è potenzialmente consumatore nell’illimitato e unico universo della merce, in quanto le merci vanno ovunque ed egli ne può essere ovunque il signore. Ma in quanto cittadino, ognuno è relegato da una parte o dall’altra di una metropoli, di un muro, di una frontiera difesa militarmente. Tutte le persone, in quanto consumatori, appartengono all’unico mondo della merce, ma non tutte le persone, per nazionalità o risorse, appartengono allo stesso mondo. Ma non solo la circolazione delle persone, sul pianeta, è impedita e impietosamente controllata. Coloro che riescono a passare nella zona ricca e tentano di sopravviverci, accettando i lavori meno pagati e più pericolosi, meno rispettati e più usuranti, sono considerati come “provenienti da un altro mondo”. Scrive Badiou:

“La convinzione più diffusa, e che le politiche di governo non smettono di voler rafforzare, è che queste persone vengono da un altro mondo. Ecco il problema. Esse sono la prova vivente che il nostro mondo democratico e sviluppato non è, per i sostenitori dell’ordine capitalista dominante, il mondo unico delle donne e degli uomini. Esistono da noi donne e uomini che, pur vivendo e lavorando qui come ognuno di noi, sono comunque considerate come giunte da un altro mondo.”

È una frase che spesso ho sentito ripetere, e inizia con “Questi che vengono qua…”. C’è immediatamente una sorta di extraterritorialità assegnata d’ufficio allo straniero in quanto straniero: è qui tra noi, ma non dovrebbe esserci. Si constata un fatto, lo si tollera, ma partendo dal presupposto che così non dovrebbe essere. E come dovrebbe essere? “Ognuno a casa sua.” Questo è il sogno impossibile a cui l’abitante del paese ricco vorrebbe ancora credere. Sogno impossibile, non perché egli non possa più realizzarlo, ma perché egli per primo non vorrebbe mai più realizzarlo. Chi dispone di denaro nei paesi ricchi deve aver anche la possibilità di viaggiare ovunque per il mondo, divertendosi o facendo affari. Egli, insomma, come consumatore o investitore, deve poter circolare dappertutto, andare a vedere gli elefanti che non vivono nelle sue campagne, o le barriere coralline che non ci sono nei suoi mari, oppure deve investire senza vincoli il suo denaro. A volte, può addirittura sodomizzare ragazzini o ragazzine minorenni, che non sono disponibili nei viali della sua città. Può inquinare le acque o il territorio altrui con maggiore facilità di quanto accadrebbe a casa propria. Può assumere e licenziare personale a suo piacimento, imponendo salari impensabili nel suo paese d’origine. L’occidentale, se ha denaro in tasca, è signore del mondo: la sua sete d’affari e di divertimento non conosce limiti geografici. Non sarebbe mai disposto a rinunciare a questa mobilità. Ma trova incomprensibile che gente venga nel suo paese per poter semplicemente lavorare. Si tratta per lui di un’anomalia, di un fatto opprimente e minaccioso. Qualcuno viene a casa sua spinto dal bisogno di sopravvivere o di vivere meno miseramente. Questa condizione suscita in lui una grande diffidenza. Ma trova del tutto normale passare ogni frontiera, penetrare nelle zone più belle e intatte di paesi lontani, o appropriarsi di risorse in territori stranieri per il suo personale profitto.

Il punto da cui partire non può essere che questo: coloro che vivono e lavorano qui, anche se stranieri, sono del mio stesso mondo, sono assieme a me, con me, con tutto ciò che questo implica in termini di accordo e conflitto, cooperazione e competizione. Scrive Badiou:

“queste persone che sono qui, differenti da me per la lingua, i costumi, la religione, il cibo, l’educazione, esistono nello stesso mondo, esistono come me, semplicemente. Poiché esistono come me, posso discutere con loro, e allora, come con ogni persona, ci possono essere degli accordi e dei disaccordi. Ma solo a condizione che esistano esattamente come me, il che vuol dire nello stesso mondo.”

Quale tolleranza?

Queste affermazioni, che possono sembrare così innocue, hanno in realtà delle conseguenze importanti. Per prima cosa, se il nostro obiettivo è quello dell’unico mondo per tutti, possiamo finalmente abbandonare la fissazione per la “tolleranza”, problema di una certa sinistra e di un certo mondo cattolico. Per costoro, infatti, l’immigrazione si definisce ancora una volta come “problema”. E la soluzione di esso consisterebbe nell’aspirazione di noi cittadini a “rispettare”, “comprendere”, “tollerare” i costumi delle persone provenienti da paesi e culture diverse che vivono ormai tra di noi.

In effetti, io non capisco bene che cosa sia questa “tolleranza” verso lo straniero e perché debba essere una virtù della sinistra. Se essere tollerante significa non avere atteggiamenti discriminatori e razzisti contro una persona, allora non stiamo parlando di nessuna virtù, ma della semplice decenza, del minimo di civiltà richiesta per vivere in società. Che io non mi metta a gridare “Schiava del fanatismo patriarcale mussulmano” ad ogni donna con il velo che incontro, non mi sembra un indizio di grande tolleranza, ma di moderata salute mentale. Che non mi metta a gridare “Rozzi animali primitivi” contro i vicini senegalesi che scopro, dalla porta socchiusa, mangiare con le mani, neppure mi sembra una gran virtù di sinistra, ma un segno di una mia pur elementare alfabetizzazione. Se poi non dovessi segnalare ai miei vicini peruviani, alle tre di notte di un venerdì, che non è nei nostri costumi mettere a palla lo stereo e rotolarsi tra le sedie, allora più che tollerante sarei un cretino.

Ma forse si intende “tollerante”, nel senso di chiudere un occhio se nel cortile vedo lapidare una giovane adultera o scopro che dei genitori impediscono al loro figlio di andare a scuola? Bisognerebbe, in questo caso, parlare di complicità criminale o di omertà. Insomma, la tolleranza potrebbe davvero essere una questione non particolarmente pertinente per la questione che stiamo affrontando.

Coloro che in questi anni hanno parlato di “tolleranza” hanno in definitiva oscillato tra due significati del termine. Il primo di questi significati (secondo il Palazzi Folena) sta per “politica di non repressione di opinioni religiose o politiche difformi dalla maggioranza”. È importante notare che si sta qui parlando non di azioni, ma di opinioni. E così intesa la “tolleranza” è semplicemente uno degli assunti fondamentali di ogni democrazia liberale. In un’ottica storica la questione nasce nel XVII secolo e in risposta agli esiti distruttivi delle guerre di religione. Nessuna virtù specifica della sinistra, quindi. Semplice allineamento con i alcuni dei principi costituzionali più indiscutibili, tanto a destra come a sinistra. Il secondo significato, però, è così definito: “qualità di chi mostra rispetto per le opinioni diverse dalle sue e accetta che siano professate e praticate; per estensione indulgenza per le mancanze altrui”. Qui c’è un’interessante slittamento, che si nota anche in altri dizionari. La comprensione delle opinioni diverse diventa, ad un certo punto, l’accettazione o l’indulgenza riguardo agli errori altrui. È chiaro che in questa seconda prospettiva la “tolleranza” non è una caratteristica istituzionale, ma un’attitudine personale. E, innanzitutto, il rispetto per opinioni altrui dovrebbe essere conseguente al mio rispetto per i principi costituzionali che la libertà di opinione sanciscono dal punto di vista dello stato. Insomma, se mi definisco democratico, non posso nel contempo essere intollerante nei confronti delle opinioni altrui. Ma il punto più delicato della questione è un altro: ammesso che io riconosca il diritto dell’altro di sostenere un’opinione diversa dalla mia, e che io comprenda come mai lui la sostiene (comprendo la storia di quell’opinione nella sua vita), non è per nulla detto che io debbo accettarla o giustificarla, nel momento in cui reputo che sia un’opinione errata o dannosa per me o per altri. La tolleranza, sia istituzionale che individuale, non è dunque la dimensione in cui tutte le opinioni convivono serenamente ignorandosi. (Possono infatti convivere serenamente solo a patto di ignorarsi.) La tolleranza è il dispositivo istituzionale che permette, individualmente, il conflitto delle opinioni. Se le opinioni di minoranza sono represse e condannate dalla legge, non vi è più spazio per il conflitto: esse semplicemente scompaiono dalla sfera pubblica, e perfino dai discorsi privati.

Tornando ora all’idea dell’unico mondo, appare chiara una cosa: che io sono pronto ad aprire un conflitto d’opinioni con tutti, anche con uno straniero, anche con una persona che mi è lontana culturalmente, ma a patto che questa persona sia considerata sotto ogni aspetto come me, con lo stesso diritto di esprimersi, di seguire delle sue pratiche religiose, di essere garantito e difeso dall’istituzione come lo sono io. Ora questo non accade ancora per un gran numero di lavoratori stranieri presenti in Italia, che siano regolarizzati oppure no. Si accetta (e si vuole) di queste persone la forza lavoro, ma non la loro complessa realtà di persone. O meglio, questa loro complessa realtà la devono cancellare. Devono muoversi come fantasmi. Sparire di giorno, nelle fabbriche o nelle cucine, confusi tra gli altri grazie all’uniforme da lavoro, e poi rendersi invisibili e silenziosi nel tempo libero, sui mezzi pubblici o nelle piazze. Questo è lo straniero da molti italiani desiderato. D’altra parte, l’ostruzionismo istituzionale, ostacolando l’ottenimento del permesso di soggiorno, produce illegalità, e quindi maggiore invisibilità sociale dell’immigrato, che è quello che in definitiva la gente vuole.

(Continua)

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49 Commenti

  1. Parlare di questi argomenti è assolutamente necessario. Concordo pienamente che oggi nella “sinistra” si sia insinuato il germe del razzismo e che una versione apparentemente temperata di xenofobia sia universalmente diffusa, nonostante esibizioni continue di “tolleranza prêt-à-porter”. E tutto questo mi spaventa. Sicuramente qualcuno troverà i riferimenti al fascismo e alla cultura del genocidio eccessivi, ma è incontrovertibile che in Italia serpeggi una mentalità che prevede le equazioni: straniero = diverso, diverso = negativo. Da ciò non può che discendere un atteggiamento di sospetto e di implicito biasimo nei confronti di chi è straniero-diverso, che porta a considerare tali individui esseri umani di serie B, irrimediabilmente corrotti e che, pertanto, devono essere emarginati e ricacciati in luoghi rimossi dalla nostra vista. Ciò che davvero spaventa, è che nella nostra società non sia messo in discussione il rispetto per gli animali e quello per l’ambiente (cose sacrosante, che non contesto), ma si possa mettere tra parentesi quello per gli esseri umani. Così, un cane abbandonato ci ispira tenerezza, ma un rom che vive in una baracca in condizioni miserrime viene bollato automaticamente come delinquente, o, nel migliore dei casi, come “invasore”.

  2. Catastrofico quasi quanto il nobile Gore. Chissà se il Wallerstein aveva cognizione del marxismo applicato, quello che ha trasformato qualche decina di milioni di contadini dell’europa orientale in operai disoccupati. E subito dopo in migranti mobilitati. Discorso similare per la Cina Popolare, ma lo sappiamo, questi paesi non sono più comunisti (probabilmente qualcuno direbbe che non lo sono mai stati). Ecco perché c’è una intellighenzia che può permettersi di salire in cattedra: è sradicata, senza punti cardinali. Storicamente al verde. Sulla “certa sinistra” italiana, invece, possiamo anzi dobbiamo concordare. E’ la sinistra manettara dei sindaci pistoleri, dei grilli e dei travagli, dei comici accattoni e delle tv di scarto, la sinistra democratica che prima di pensare al razzismo o ai ro-ru-romeni pensa a come sfangarla in finanziaria, sollevando la pugnetta chiusa e assumendo qualche decina di migliaia di ‘precari’ in più. E gli altri (precari) che fanno? Invece di ribellarsi dormono, aspettando il loro turno. Fino a quando regge, qualche elemosina arriverà.

  3. Al di là di tutto, resta il problema: mettiamo che lo stato italiano assicuri accoglienza, casa, lavoro, dignitose condizioni di vita a chiunque ne varchi i confini, compresi quelli animati dalle peggiori intenzioni (sta dilagando il mito dell’Italia come paese dell’impunità), quale popolo non si trapianterebbe all’istante in tale piccolo paradiso, dove, per contro, pare che il diritto alla casa, al lavoro, alla pensione sia tutt’altro che assicurato alle nuove generazioni native? Bando al razzismo, certo, ma occhio ai numeri. Lì sta il busillis, almeno OGGI, non in diebus illis:-/

  4. “Su questo punto, sono perfettamente d’accordo, a patto che si definisca preventivamente quali fenomeni siano compresi sotto il concetto di “sicurezza”. (Dovremmo, allora, fare l’elenco delle varie voci connesse all’insicurezza sociale: l’insicurezza formativa, salariale, abitativa, delle condizioni di lavoro, sanitaria, ecc.)”

    Non intervengo sul resto, perché sono d’accordo. Solo una cosa, il concetto di sicurezza principe è quello della vita, e subito dopo dei beni.
    L’insicurezza sociale, pur importantissima, viene dopo, perché senza vita e senza beni primari l’insicurezza formativa ecc. non si dà.
    Su questa sicurezza, sui fantasmi che comporta la percezione della sua assenza, sull’adrenalina che parte quando la paura è reale o anche soltanto immaginata e sfruttata da chi la usa per politiche repressive, è però vero che la sinistra non ha mai riflettuto a fondo e – partendo al traino – si livella su chi l’ha posta in modo emergenziale e strumentale.
    E’ sempre sulle paure, terreno fertile, che si sono innescate le guerre all’altro.

  5. a Alcor, che dice:”il concetto di sicurezza principe è quello della vita, e subito dopo dei beni”

    Hai ragione, giusta distinzione. La ricorrego solo un poco, ricordandoti che la sicurezza della vita riguarda anche le condizioni di lavoro e la salute, in senso ampio. C’è rischio della vita, in chi vive nei tuguri, o in abitazioni fatiscenti, come quelle in cui sono bruciati delle persone di origine africana a Parigi, in questi ultimi anni. La sicurezza alla vita, è quella che scompare in città o paesi dell’Italia quando gli equilibri di potere della criminalità organizzata saltano. E allora uscire a fare compere puo’ costare la pelle. Ed è certo la sicurezza di non essere vittima di un assassino, italiano o straniero che sia.

    Ma a questo punto il discorso deve farsi molto lucido. Ci sono dati che dimostrano una correlazione evidente tra incremento degli omicidi e flussi migratori? Ci sono diversi gruppi di studio che indagano in tal senso? Quali sono le riviste o le sedi specialistiche dove questa discussione viene portata avanti?
    Ormai, si pensa, secondo l’adagio di Jannacci, che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro. Con una buona trasmissione di Santoro abbiamo fatto il punto della situazione, e via possiamo andare.
    Primo punto. (Ci tornero’ comunque su nella seconda parte del post.)
    Secondo punto, quali sono delle soluzioni efficaci? C’è bisogno di usare in modo discriminatorio la giustizia per garantire la sicurezza alla vita? E funziona poi davvero?
    O rimettere in discussione la nostra organizzazione sociale, per ridurre l’ineguaglianza, e quindi la violenza che ne deriva, non continua ad essere una delle opzioni razionalmente più valide, anche se più difficili da condire in salsa parlamentare attuale?

    Se fossero domande retoriche, ovviamente non saremmo qui a parlarne in questi termini. Sono vere domande, ed è proprio il prenderle sul serio che ci puo’ distinguere dal disorientamento diffuso, che tanto è utile alla destra.

  6. a Lucio Angelini,
    nel tuo ragionamente vedo la solita confusione e deformazione, che regna nella zona grigia. Confusione: lo stato non ha da garantire ad una lavoratore straniero, che vive e lavora in Italia, che quanto garantisce a un lavoratore italiano. Questo è il principio non discriminatorio e razzista da cui partire.
    Quanto a colui che viene qui con le “peggiori intenzioni”, nulla puo’ la legge contro le intenzioni, ma molto puo’ contro gli atti. E queste leggi già esistono, e si applicano.
    Che trattare un lavoratore straniero come uno italiano, sia offrirgli il paradiso, e non i semplici diritti di un paese civile, rientra nella concezione che “loro” non sono di questo mondo. La “normalità” gli è preclusa, non se la meritano. Restino pure all’inferno, alla mercé dello sfruttamento ilegale, della ronda razzista o del prefetto di turno.
    Sulle cifre, che esistono, e non sono da film dell’orrore, basta andare a leggersi il Dossier Migranti: http://http://www.december18.net/web/docpapers/doc5720.pdf

  7. Me lo sono anche riletto, ma mi pare il solito minestrone rafforzato con qualche citazione (datata e fuori tempo) e il solito accoppiamento razzismo/fascismo (sì perché i comunisti ai rom e agli omosessuali, tanto per citarne due, li mandava in viaggio premio alle Maldive).

    Si continua a dimenticare che la lotta al razzismo si fa con atti concreti, non con le citazioni autocompiacenti. Un esempio su tutti: stiamo ‘allevando’ un popolo di apolidi a nessuno se ne cura, nessuno ne parla. Cosa ne sarà di tutti quei bimbi, arrivati in Italia con i genitori, che parlano italiano e il dialetto della città in cui vivono, giocano con gli altri, vanno a scuola con gli altri, quando si accorgeranno che… semplicemente non sono italiani, non sono africani, non sono asiatici, non sono nulla?

    E che dire della giunta di centro-sinistra della città in cui vivo che organizza convegni per l’integrazione, scaglia anatemi contro le classi ghetto di un noto quartiere e poi… non trova niente di meglio da fare che spedire tutti gli immigrati in quel quartiere e autorizzare piani per abitazioni di lusso in altre aree della città?
    Che senso ha lamentarsi della mancata integrazione e di classi ghetto quando il 97% degli abitanti di quella zona non è italiano?

    Nel frattempo hanno rimosso il posto di Polizia Locale, spostato a 6 km l’ambulatorio che seguiva le vaccinazioni dei bambini e tolto la linea del bus che portava direttamente all’ospedale cittadino: non più una fermata, ma tre.

    Questo è razzismo, senza se e senza ma: e dei peggiori! Il resto? Seghe mentali per sentirsi buoni e bravi.

    Blackjack.

  8. a black jack,
    i tuoi esemmpi mi sembrano molto calzanti, a illustrazione di quanto dicevo nel minestrone. (E dico sul serio.)

    “Cosa ne sarà di tutti quei bimbi, arrivati in Italia con i genitori, che parlano italiano e il dialetto della città in cui vivono, giocano con gli altri, vanno a scuola con gli altri, quando si accorgeranno che… semplicemente non sono italiani, non sono africani, non sono asiatici, non sono nulla?”
    Ne sarà più o meno, peggio o meglio (e sforziamoci che sia meglio) di quei figli dei 27 MILIONI di emigranti italiani, che se ne sono andati dall’Italia tra il 1876 e il 1976.

    Citazioni “datate e fuori tempo”? Basta con i complimenti…

  9. Pezzo bello e necessario. E’ molto facile sentir parlare di un “loro”. Non ragazzini, non vecchi abituati alla mentalità chiusa da paesello, non incolti neofascisti. Persone con cui è facile discorrere dell’ultimo romanzo o saggio letto, evento rarissimo in Italia. Anche questi parlano di un loro. Chi sono loro? Lo sappiamo tutti. E’ ovvio. In una vecchia canzone del divinizzato cantante del popolo (un pò come è del popolo il nuovo partito del Miliardario) Vasco Rossi, “Colpa d’Alfredo”, si diceva candidamente: “E’ andata a casa con il negro la troia!” e “l’ho vista uscire mano nella mano con quell’africano che non parla neanche bene l’italiano”. Canzone che ho sentito cantare spesso da tante illuminate persone autoelettesi di sinistra, senza neanche un riferimento sarcastico, una leggera presa di distanza da queste due frasacce. Recentemente ho sentito Beppe Grillo, in un suo spettacolo, consigliare ai poliziotti di menare gli immigrati non in pubblico, non davanti a tutti belìn!, ma al riparo dalle luci mediatiche! E’ facile poi sentirsi spiegare da conoscenti di CENTROsinistra ( non di sinistra per carità che poi diventi estremista!) che la si butta sul razzismo perchè non si abita davanti ad un campo rom! Non sono leghisti, semplicemente respirano il clima all’interno del quale parlare del tema della sicurezza (altra parola desemantizzata) significa badare a non essere espropriati dagli zingari. Un clima culturale inquinato dall’aura di rispettabilità conquistata dai vari criptofascisti come Fini, Casini, Berlusconi, Amato; un clima in cui si è estremisti se non si riconosce che la coperta è corta e “loro” ci stanno sempre più scoprendo. Stiamo facendo il naso al letamaio, non riconosciamo più come barbarie la politica dell’esclusione e dell’espulsione. Lo schiavismo implicito della Bossi-Fini è stato accettato, anzi con un verbo che piace anche alla sinistra, “tollerato”, sanato. Non basta dire che la sinistra si sta lasciando contaminare, che la sua vera essenza, il suo volto oscuro ed autentico, è la destra. Il razzismo culturale (non più etnico) è l’anima di una politica ritenuta realista, responsabile, concreta. Bisogna conservare e tutelare il fuori, la sua nullificazione per opera della globalizzazione è inaccettabile. Che restino in vita il fuori e la casa, ed in questa rifugiamoci contro le tenebre dell’incontro con l’altro.

  10. @Andrea Inglese. Eh, no. A me pare che gli equivoci nascano proprio dal confondere il libro dei sogni (accogliere tutti quelli che arrivano, senza limiti, fossero anche due miliardi) con le reali capacità recettive di un paese. Tutto il resto – compreso il dilagare della xenofobia – è un effetto essenzialmente collaterale. Ti rimando, comunque, ai miei due post sull’argomento del 9 e 10 novembre nel mio blog (il secondo contiene un chiarimento di Valerio Evangelisti). Detto ciò, non è chi non veda – almeno finché ce la raccontiamo tra noi – la ragionevolezza del principio: tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali, con pari dignità eccetera eccetera.

  11. Andrea, sono disposto a votare a vita il partito che proporrà la cittadinanza italiana per i bimbi residenti in Italia da almeno 5 anni o per quelli che qui sono nati. L’unico problema che vedo è che, di questi argomenti basilari, non gliene frega nulla a nessuno e tutti preferiscono ignorarli e fare ‘grandi’ discorsi o spostare gli ambulatori, togliere i posti di Polizia, obbligare a cambiare autobus 3 volte per andare in ospedale invece che una.

    Il razzismo non è della ‘gente’, che è molto più saggia e tollerante di quanto la si dipinga, ma di chi pretende di ergersi a interprete, da posizioni di forza, di esigenze proprie che non rispecchiano i reali bisogni. E lo fa solo per difendere la propria posizione di privilegio.

    E’ razzista quello che pretende di far entrare tutto e tutti, così come quello che non vuol far entrare nessuno. E’ razzista quello che trancia la storia e abbina razzismo a fascismo, dimenticando il comunismo. E’ razzista il Sindaco che sposta gli ambulatori per compiacere gli elettori, di sinistra, che lo hanno eletto. E’ razzista continuare a discutere di razzismo e a riproporlo senza indicare mai una via. E’ razzismo non capire che anche la costruzione più complessa è fatta di piccoli mattoni, ma qualcuno deve posarli, uno sopra l’altro quei mattoni.

    Le citazioni? Mai piaciute e mai sopportate. Preferisco chi propone senza citare.

    Blackjack.

  12. a jackleopardi
    “che la si butta sul razzismo perchè non si abita davanti ad un campo rom!”

    io ho le carte in regola, a Milano:
    sullo sterrato di fronte al mio appartamento piccolo accampamento nomadi, poi distrutto dalle ruspe (e addio nonno che di mattina suonava il violino), di fianco peruviani che ubriachi mettevano musica a palla alle tre del mattino (come documentato), sopra due coppie di rumeni, una delle quali quando litigava duro volavano bottiglie sul mio terrazzo, nell’altra scala gruppo di travestiti brasiliani, che comparivano in pailletes
    alle due di notte con cliente ombra al seguito, il tutto peggiorato dalla mia presenza, e dallo scarso contenimento alcolico e baritonale mio e dei miei amici. (Taccio per pietà sugli inquilini “connazionali”.) Io posso buttarla sul razzismo….

  13. ho dimenticato, sul mio stesso piano, ma in un appartamento rivolto sul cortile (casa di ringhiera), gruppo di senegalesi, alcuni dei quali incrociavo quando tornavano di sera dal lavoro con enormi borsoni sulla spalle; in un locale a pianoterra, sulla strada, saracinesca sempre abbassata e gruppo di cinesi (non so quanti) che si alternavano alle macchine da cucire, e la scarica della macchina la si sentiva a qualsiasi ora del giorno e della notte… E c’erano anche i vicini marocchini, con parabola sul balcone, e uno di loro si faceva bello riparando la bici alla mia ragazza, poiché io ero il solito imbranato…

  14. il punto che mi tocca di più nel discorso di inglese – oltre l’aver rimesso al centro la lettura evidentemente classista di qualsiasi fenomento di razzismo – è l’accumulo della frustrazione, del risentimento che diventerà aggressione. la politica di un veltroni per dire nei fatti è molto meno razzista che a parole. si dice intransigente con i campi rom, però poi di straforo cerca di aggiustare la maggior parte delle situazioni di conflitto e disagio sociale. non risolvere, ma aggiustare, tappare appunto. tipo – cose che conosco: sgombero a villa pamphili (troppo in vista) e richiesta a vari assessori locali di dove mettere gli spiantati: due qua, due là, etc… questa politica sul brevissimo raggio si potrebbe anche criticare meno di quello che si fa. facciamo finta di essere fermi e sottobanco aggiustiamo le cose. battiamo subdolamente la destra sul terreno della retorica sicuritaria. sembra una pratica situazionista ma è la scaltra ipocrisia – e funzionante – politica veltroniana. Un successo, ribadisco, dal punto di vista della tenuta sociale. La gente non si scanna per strada. Dal punto di vista culturale, quindi sul medio e lungo raggio, un disastro. A Roma c’è un inflorescenza di scritte e manifesti di un razzismo rivoltante. E i cripto-fascisti che trovano qualcuno che fa il lavoro pulito, si preoccuperanno di fare quello sporco. Smetteranno di essere cripto. Amato e Veltroni dicono tolleranza zero. Noi allora ci spostiamo un po’ più a destra, prendiamo le forche e usciamo a fare qualche ronda.

  15. un caro amico mi ha consigliato la visione di: Dogville, Lars Von Trier
    potrebbe aiutare a vedere, forse
    un caro saluto a lui.

  16. @ Giocatore d’Azzardo
    Solo una domanda. Fammi capire… Un bimbo che nasce in Italia non è automaticamente cittadino italiano? Cos’è, un film di fantascienza?

    @ Andrea Inglese
    In Italia, a destra come a sinistra, vige un regime televisivo. Nazionalpopolare. Pur avendo vissuto per circa trent’anni in Italia, non ho mai capito quali siano i valori fondamentali della cultura della nostra nazione. Molte isterie da estetisti e poco altro. Come quella del velo, ad esempio.

  17. Trovo molto condivisibile il contenuto dell’articolo. Sono convinto dell’imprescindibile attualità del marxismo come metodo di analisi storica e del pericolo fascismo. E’ vero che viviamo in un momento di crisi profonda del sistema democratico, almeno in Italia e che laddove la democrazia è vacillante sorgono degenerazioni pericolosissime. Il nazismo è nato da Weimar.
    Ho trovato illuminante la differenza, rispetto al razzismo, tra nazismo e fascismo.
    Mi permetto di segnalare per chi non lo conoscesse,

    Come si diventa nazisti
    William Sheridan Allen
    prefazione di Luciano Gallino
    Tascabili Einaudi
    num. di catalogo 194

    Un’analisi puntuale e dettagliata, di rigore sociologico e ricca di dati del passaggio lento e tranquillo dalla Repubblica di Weimar al nazismo.
    Ci fa riflettere.
    Un saluto

  18. “sto sostenendo che vi è, e vi è sempre stata, una correlazione piuttosto altra tra etnia e ruolo economico-professionale, e che tale correlazione ha attraversato tutte le varie aree spazio-temporali del capitalismo storico.”

    Non capisco la forza di questa tesi. O meglio, l’originalità. Guardata sotto un certo profilo, la questione della “specializzazione professionale su base etnica” suona certamente l’allarme razzista (penso ai minatori italiani in belgio negli anni cinquanta, o ai tassisti sikh di los angeles, penso ai centrafricani che raccolgono pomodori in puglia, ma anche agli ebrei dei centri finanziari nel seicento se non oltre).

    Ma dall’altra parte, generalizzando, potrei dire che tale specializzazione è proprio la ragione dell’esistenza dell’economia di mercato. Nel senso più lato e condivisibile: economia come scambio di beni, come commercio di prodotti non altrimenti producibili, e quindi come soddisfazione di un’utilità che altrimenti non potrebbe essere raggiunta in altro modo.

    Cosa porta due differenti paesi a commerciare se non la differenza in termini di disponibilità di determinati beni/risorse? la cosa funziona con beni fisici, come pomodori o maglioni di lana (il popolo di un’isola sperduta nell’artico potrebbe importare pomodori in cambio di maglioni di lana), ma anche con skills, risorse umane, conoscenze, abilità tecniche: beni, quest’ultimi, più legati alle condizioni culturali, sociali, a volte anche religiose, piuttosto che a quelle “geologiche”, “geografiche” e “politiche”.

    Per cinquanta anni nel mio paese, in Lombardia, il 90% degli abitanti ha fatto il calzolaio, lavorando in un calzaturificio. In piccolo, ed ironicamente, questa è una specializzazione su base “etnica”. Ad omegna la specializzazione è nella produzione di rubinetti; così come per cento anni gli abitanti di sassuolo hanno lavorato in fabbriche di piastrelle e quelli di fabriano in stabilimenti dove si producevano mobili e cappe aspiranti. C’è un paesino, nel polesine, famoso per i suoi giostrai; un altro, in veneto, per le sedie. l’italia è piena di esempi del genere, dato l’enorme numero di distretti industriali.

    Una cosa è la specializzazione su base etnica, che non vedo come nulla di nuovo, e nulla di male. Un’altra cosa è lo sfruttamento professionale che sì, è vero, trova linfa nel razzismo degli sfruttatori e della società che li ospita, ma che mi pare trasversale rispetto a qualsiasi specializzazione economico-professionale.

  19. Morgillo: sei proprio così sicuro che un bambino, figlio di extracomunitari, che non abbiano ancora acquisito la cittadinanza italiana, e che nasce in Italia sia… italiano? Io non ne sarei così sicuro….

    Blackjack

  20. Morgillo, non so se scherzi o no. Comunque in Italia, come nel resto dell’Europa continentale, lo ius sanguinis domina sullo ius soli. Se non erro, la Repubblica riconosce come suoi cittadini

    1. Chi nasce da madre o padre italiani.
    2. Chi nasce in Italia da genitori apolidi o ignoti.
    3. Su domanda e dopo sei mesi in Italia e tre anni all’estero, chi sposa un italiano/a.
    4. Su domanda e dopo dieci anni (con sconti in casi particolari), chi risiede legalmente in Italia.

  21. a beccalossi
    “Ma dall’altra parte, generalizzando, potrei dire che tale specializzazione è proprio la ragione dell’esistenza dell’economia di mercato. Nel senso più lato e condivisibile: economia come scambio di beni, come commercio di prodotti non altrimenti producibili, e quindi come soddisfazione di un’utilità che altrimenti non potrebbe essere raggiunta in altro modo.”
    Il tuo discorso è chiaro e ragionevole. Per altro corrisponde all’idea dello scambio economico che ci facciamo nella società del libero mercato. Il punto è che questa immagine dello scambio economico “normale” è “ideale”, ossia astratta, e in definitiva falsa. Chi lo dice questo? Quegli storici, sociologi ed economisti che nel solco di Marx, e con strumenti storiografici nuovi come quelli offerti da Braudel, hanno analizzato lo sviluppo del capitalismo in una prospettiva di lunga durata (dai banchieri fiorentini del XIII secolo in poi). Questi stuiosi si chiamano Wallerstein, Samir Amin, Giovanni Arrighi, ecc. Una dello cose fondamentali che queste analisi mettono in luce è la questione dello “scambio ineguale” e delle “polarizzazioni” in una dato sistema economico tra un centro forte, generalmente in termini militari oltre che economici, e una periferia debole (ma ricca di manodopera o di risorse).
    E’ la storia dell’intreccio tra capitalismo degli stati nazione, imperialismo e colonialismo. Non dico che sia una faccenda semplice, e sopratutto non è una faccenda intuitivamente evidente. Senno’ non ci sarebbe stato bisogno di tanti studi affinchè emergesse.
    Qual è oggi la soluzione per ottenere maggiori margini di profitto in un paese che conosce delle rivendicazioni sociali forti (che ha un passato di lotte per i diritti dei lavoratori)? Assegnare certi lavori a una manodopera di cui mi è possibile tenere basso il costo. Ecco allora che si creano delle opportunità per certi gruppi etnici, i diversi gruppi di extracomunitari, a cui si puo’ imporre un salario più basso, anche perché li si tiene in uno stato di “inferiorità”, dal punto i vista giuridico (immigrato illegale, lavoratore senza cittadinanza, ecc.), materiale e simbolico (il razzismo di cui parliamo).

  22. Se questo non è un film di fantascienza…
    Mi verrebbe quasi da scrivere che l’Italia fra qualche anno avrà una popolazione senza popolo. Nonostante tutti continuino a professarsi nazionalpopolari. A chi si rivolgeranno i conduttori televisivi? Necrofili al cittadino archetipico. Mummificato. Mummificati. Botulinici.

  23. P.S. Biondillo, questa mattina sulla mia schermata non erano visibili i vostri pensieri oziosi. In ogni caso, mi sono documentato su Wikipedia, prima ancora di fare la battuta sul film di fantascienza… Fonte attendibile. Lunga vita alla Francia dove dal 1515 vige lo ius soli.

  24. Alessandro: il PROBLEMA dei bimbi apolidi sarà il PROBLEMA dei prossimi anni e nessuno sta muovendo una foglia. Chi glielo spiega a questi, quando avranno 18 anni e anche prima, che, semplicemente: NON ESISTONO. Questo è razzismo!

    Su questi temi dovrebbe muoversi il dibattito sul razzismo e su questi temi fondamentali si dovrebbe generare un movimento d’opinione; se non eri a conoscenza tu, di questa vicenda (e sei uno informato), prova a immaginare che livello di conoscenza esiste fra la gente comune.

    Blackjack.

  25. Blackjack, posso solo dirti che sei arrivato al nocciolo del problema. Senza fronzoli. L’immagine dei bimbi apolidi è fortissima. Per me era scontato che questo non potesse mai accadere in Europa. E invece…
    Sì, questo è razzismo. Non stiamo parlando di isterismi da estetisti (donne col velo, donne senza velo) ma di razzismo. Di sangue.

    Gli intellettuali italiani, invece di scrivere fiction per il lettore archetipico, sognando un’intervista barbarica dalla Bignardi, dovrebbero fare previsioni sullo stato di salute del nostro paese fra venti anni. Forse meglio evadere le scadenze a medio-lungo termine, continuando a crogiolarsi nella merda.

  26. Chi sono gli intellettuali italiani che scrivono fiction per il lettore archetipico?

    A dire il vero non so neppure cos’è un lettore archetipico.

  27. Sulla cittadinanza per nascita (dal sito http://www.stranieriinitalia.it)

    È cittadino italiano per nascita:

    1. il figlio di padre o madre italiani;

    2. il figlio nato in Italia da genitori entrambi ignoti o apolidi (cioè “senza patria”);

    3. il figlio nato in Italia da genitori stranieri, ma solo se di uno Stato in cui la legge prevede che i figli non seguano la cittadinanza dei genitori (invece NON ACQUISTA LA CITTADINANZA chi è nato in Italia da genitori stranieri di uno Stato che prevede che i figli nati all’estero seguano la cittadinanza dei genitori, anche se attraverso dichiarazioni di volontà o formalità amministrative);

    4. il figlio di ignoti trovato in Italia, se non venga provato il possesso di altra cittadinanza.

  28. sono d’accordo con te, andrea (inglese: quindi anche tu sei straniero?) con quanto dici. ma non è una risposta alla mia domanda.

    quanto dici rispetto al razzismo, che giustificherebbe l’attribuzione di lavori sottopagati a determinati gruppi etnici, è ragionevole e veritiero, ma, di nuovo, non spiega la faccenda della specializzazione professionale o economica su base etnica. Spiega lo sfruttamento, ma non la specializzazione tecnica.

    Piuttosto, lo vedo come una ennesima forma di imperialismo (capitalista): nè di esportazione, nè di importazione. Semplicemente imperialismo capitalista casalingo. Che distingue tra un mondo sviluppato e mondo “sottosviluppato”, ma senza distinguere all’interno di quest’ultimo.

    E’ vero che quanto ho dipinto (il concetto smithiano e ricardiano di scambio) è pressochè ideale, e che esistono forti contaminazioni al concetto, di più: distorsioni, falsità. Messe in luce da una certa economia filo marxista (ma non solo).

    Ma allora come spiegare, di nuovo, l’esistenza di aree metropolitane, regioni, distretti, nazioni, e quindi di popoli, di gruppi etnici, specializzati tecnicamente? (è una domanda che lascio vacante, altrimenti andiamo fuori tema). E non è questa specializzazione una risorsa?

    Dall’altra parte, anzi, credo sia abbastanza rischioso enfatizzare questa correlazione tra etnia e ruolo professionale: tradirebbe l’universalità del sindacalismo, e potrebbe diventare di per sè pure razzista. Una vera sfida sindacale dovrebbe guardare al lavoratore sottopagato “del mondo”, non solo a quello rumeno o ivoriano. All’idraulico sottopagato (ne esistono?), non solo a quello polacco. Allo stagista sottopagato, non solo a quello italiano. Il che presupporrebbe una revisione del concetto di “sindacato dei lavoratori”, e l’adozione di nuove forme di sindacati internazionali: sfida, questa, a cui i sindacati nostrani, fondati su una base di consenso locale e circoscritta, mi sembrano del tutto impreparati.

  29. Le connessioni tra razzismo e i processi della produzione sono innegabili, ma la corrispondenza non è necessariamente biunivoca.

    Nel razzismo c’è qualcosa di più. I padroni (oggi si dice imprenditori) non sono razzisti nei confronti dei loro operai, né Marx ha fatto della lotta di classe uno strumento di liberazione raziale (proletari di tutto il mondo). Lui dava per scontato che la posizione economica determinasse l’uguaglianza di tutti gli sfruttati.
    Sfruttare non è però necessariamente razzista. Potrebbe essere paternalistico, opportunistico, o giocoforza nelle relazioni economiche moderne.

    Il razzismo è qualcosa che coinvolge necessariamente anche e soprattutto la sfera esistenziale e psicologica di chi prova il sentimento (il raziato lo subisce).
    Arroganza, paura, superbia, chiusura mentale…

    Che dire poi del nazismo che degli ebrei non voleva nemmeno fare dei lavoratori sfruttati, ma semplicemente voleva eliminarli tutti (qual’era il senso economico dell’operazione?).

    Infine Andrea Inglese è vero che un lavoratore straniero ha li setssi diritti al lavoro di un lavoratore italiano, il problema è il livello di sostenibilità del sistema. E’ inutile dire che ci dovrebbe essere trippa per tutti: e se non c’è? che si fa?

    La preoccupazione sull’incapacità del sistema economico italiano di essere in grado di reggere l’urto provocato dall’arrivo di grandi masse di stranieri sul sistema, non è razzismo.
    La domanda è: ma un sistema economico è incapace o lo si rende incapace di recepire i flussi migratori? E se fosse incapace, forse significherebbe che non è un sistema moderno capace di cogliere le opportunità e di crescere?
    In questo caso essere razzisti significherebbe perdere il treno dello sviluppo.

  30. il problema fondamentale è che l’uomo è capace di movimenti migratori, ma non è naturalmente portato a migrare. in altri termini, l’uomo non è il capitale: il capitale è capace di migrare, anzi è nato per questo.
    questa distinzione rende superflua ogni possibilità di libero mercato, ovvero di libero movimento degli input. gli input offrono diversi gradi di resistenza al movimento: ma l’inerzia dei fattori produttivi non è mai stata granchè presa in considerazione dalla teoria economica.

  31. a beccalossi, in breve
    “Dall’altra parte, anzi, credo sia abbastanza rischioso enfatizzare questa correlazione tra etnia e ruolo professionale: tradirebbe l’universalità del sindacalismo,”
    non travisiamo il discorso, è evidente che la correlazione tra etnia e attività professionale ha senso all’interno di un’analisi dello sfruttamento e dello scambio ineguale; il razzismo è una forma che accompagna sempre, legittimandolo, lo sfruttamento, anche all’interno di uno stesso popolo: il borghese si sente “per natura” superiore al proletario. Andate a vedere come venivano descritti gli ambienti operai dell’Inghilterra durante il XIX secolo… Come ambienti “bestiali”, di dissoluzione, immoralità, ecc. Seguire questo tuo discorso sarebbe come dire che la diversità delle diagnosi mediche non aiuta la missione universale della medicina che è quella di curare tutti i malati. Rimane comunque vero che la specializzazione in sé è uno degli elementi propri in generale delle società moderne basate su una crescente differenziazione del lavoro.

    a beppe:
    “Infine Andrea Inglese è vero che un lavoratore straniero ha li setssi diritti al lavoro di un lavoratore italiano, il problema è il livello di sostenibilità del sistema. E’ inutile dire che ci dovrebbe essere trippa per tutti: e se non c’è? che si fa?”
    Una più completa risposta provo a darla nella seconda parte del post, ma in definitiva tutto il discorso che ho iniziato dovrebbe smontare la domanda cosi come la poni.
    Com’è ^possibile non rendersi conto che il sistema è sostenibile per l’imprenditore che usa la forza lavoro dell’immigrato e DIVENTA di colpo insostenibile quando bisognerebbe considerare questo lavoratore come un qualsiasi altro lavoratore. Tu, e tutti gli altri, parlate come se gli stranieri venissero qui in massa a girarsi i pollici. Ma state scherzando?

  32. @ Andrea Inglese

    sono d’accordo, il problema della trippa che manca e dunque della attuale insostenibilità del sistema riguarda la classe imprenditoriale italiana e quella di governo. La prima perché deve fare il proprio mestiere con coraggio e professionalità (mi risulta che nel leghista nord-est gli imprenditori sono ben contenti di assumer extracomunitari), disposti a stare sul mercato della competizione con tutte le armi, prime tra tutte qualtà e innovazione, la seconda smettendola di rinviare sine die un profondo cambiamento strutturale e di sistema dell’Italia (ricerca, università, scuola, infrastrutture ecc).
    Mi sembrava comunque di aver concluso il mio intervento con la frase “In questo caso essere razzisti significherebbe perdere il treno dello sviluppo.”.

    Ma non mi hai risposto circa il razzismo nazista e lo sterminio degli ebrei e la sua inspiegabile connessione con l’economia (nei termini da te ipotizzati).

  33. e’ evidente, non intendevo quello, anche se non capisco il tuo paragone con la diversita’ delle diagnosi mediche.
    piuttosto, non sono certo che oggi il “borghese” veda il “proletario” come nell’inghilterra del XIX secolo. chi e’ il borghese, chi e’ il proletario. se i borghesi sono gli italiani, e i proletari gli immigrati (il che gia di per se’ e’ criticabile, dato che spesso questi ultimi non possono ricongiungersi con la prole), allora si, il borghese e’ razzista col proletario. e quindi l’equazione razzismo=classismo, che per certi versi mi pare implicita nel tuo post (che comunque, se non te l’ho ancora detto, mi e’ piaciuto), e’ giustificata e confermata. ma non sono certo che la sovrapposizione classe-etnia funzioni. e’ un discorso lungo, andrebbe approfondito e di sicuro io non ne granche’ di strumenti.
    perche’ – come spunto – non scrivi qualcosa sul rapporto tra classismo e razzismo? ne verrebbero fuori delle belle, sopratutto su NI.

  34. Provo a buttare sul piatto un altro EVIDENTE segno di razzismo che non dipende dalla società (la gente) o dal mercato, ma dallo stesso versante politico che genera i bambini apolidi.

    La ricerca. La ricerca è fondamentale, lo sarà sempre di più in futuro, ed esiste un’unica via alla ricerca: fare in modo che le Università diventino dei catalizzatori in grado di attrarre teste ANCHE da Paesi diversi dall’Italia.
    Un simile percorso, che è una chimera nelle Univesità italiane, è un gancio potentissimo contro il razzismo perché contribuisce a consolidare (in modo visibile e palpabile) il contributo dello ‘straniero’ non più solo in termini di ‘manodopera a basso livello’ o ‘fastidioso nullafacente’.

    Crea una ‘percezione’ diversa dalla quale tutti gli stranieri presenti in Italia, potrebbero trarre vantaggio.

    Anche qui, come nel caso dei bambini apolidi, non esiste una sola forza politica che abbia mosso un sopracciglio e il tentativo del passato Governo, pur se mal imbastito, di far rientrare ricercatori/ricercatrici italiani/e che ora lavorano all’estero, si è tradotto in un fallimento: i migliori se ne sono già andati e le Università continuano a rimanere il regno dello scambio reciproco di piaceri per pochi eletti.

    Anche su questo fronte, come il precedente, è tremendamente, orrendamente silenzioso il mondo ‘intellettuale’ italiano: tutto. Non si intravede nemmeno l’ombra sbiadita di un movimento di opinione che faccia pressione, renda evidenti le storture, cerchi di mutare lo status quo; anzi, quasi sempre succede il contrario: agisce da cassa di risonanza ai soliti noti.

    Blackjack.

  35. a beppe,
    giusta allusione quella al nazismo, ma il nazismo, nell’ottica della questione di cui stiamo parlando, è proprio l’eccezione. Levi e altri l’hanno mostrato bene. Questi stavano perdendo la guerra, avevano fronti aprti da ogni parte, e ancora stavano li a far rientrare i treni di deportati dal fronte orientale verso l’interno. Il nazismo è andato al di là di ogni logica di sfruttamento. Cio’ nonostante utilizzava i deportati nei campi per lavori di ogni tipo. Mentre li sterminava, utilizzava comunque anche la loro residuale forza lavoro.

    a beccalossi,
    grazie per lo spunto, ma è evidente che sul nesso classismo/razzismo ci sarebbe parecchio da dire, e anche solo da un punto di vista storico (ma qui mancano pure a me gli strumenti)

    a blackjack,
    su quanto dici, stavolta, sono perfettamente d’accordo;
    c’è davvero da ridere: noi che dovremmo fare limmigrazione selezionata, quando nelle nostre università non ci entrano più neppure i portaborse più zelanti e tenaci

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andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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