Un’orchestra che muore
di Christian Raimo
Con una tempistica quasi violenta, il 15 ottobre, all’indomani della costituzione del Partito Democratico e appena prima del concerto inaugurale della Festa del Cinema, nel momento in cui insomma agli italiani tutti veniva infusa una dose massiva di speranza solida in un futuro di progetto, innovazione, stabilità, ai musicisti di una delle due orchestre stabili (sic) dell’Auditorium Parco della Musica – l’Orchestra di Roma e del Lazio, la sorella minore di quella di Santa Cecilia – veniva recapitata una comunicazione semplice e drastica: la stagione concertistica autunnale è stata soppressa. Niente concerti almeno fino a gennaio. Per cui tre mesi di stipendio in meno. Per cui per i 37 musicisti (di cui 7 part-time), che già negli ultimi anni hanno accettato di non avere un direttore fisso, di arrangiarsi con una pianta organica fluttuante, di avere una stagione (e quindi una retribuzione) ridotta a nove mesi di attività, ora si ritrovano a essere a spasso per più di sei mesi dell’anno. Di fatto, la morte di un’orchestra.
La questione è strettamente locale, c’era un accordo del 31 marzo 2007 tra la Fondazione “Ottavio Ziino” che gestisce l’orchestra e le controparti istituzionali – il Comune e la Regione che a vario titolo l’hanno finanziata negli anni passati. Quest’accordo viene disatteso, non si sa perché, e i sindacati con fatica si stanno mobilitando. Ma il caso, come si intuisce facilmente, è anche fortemente esemplare. L’orchestra di Roma e del Lazio è un complesso che lavora, da anni, nell’ombra. Chi di voi ne ha mai sentito parlare? Rispetto alla giustamente acclamata Santa Cecilia, che ha raggiunto – anche grazie allo spendersi personale del direttore Antonio Pappano – un riconoscimento indiscutibile, un’autorevolezza di livello internazionale, la realtà di questa seconda orchestra è molto più quotidiana. Il che significa: un concerto nella Sala Sinopoli ogni settimana a prezzi bassi (da 5 a 10 euro), spettacoli nelle scuole, piccoli tour soprattutto durante l’estate in tutta la regione Lazio, da Sermoneta a Sesso Aurunca a Sora. Il pubblico che è riuscito a intercettare (non poco: un migliaio di persone nei concerti dell’Auditorium) è quello degli studenti, delle famiglie, dei giovani, degli anziani, di chi vive in paesi di provincia, di chi in genere ha un accesso limitato all’ascolto della musica classica. Perché allora quest’orchestra viene lasciata morire? Perché non si decide di investire anche su quest’orchestra con soldi pubblici e non soltanto su quella di Santa Cecilia?
Capire cosa vuol dire la precarietà dei lavoratori della cultura significa comprendere l’emblematicità di questo caso. Partendo da una domanda banale: se l’attività di un’orchestra viene circoscritta a cinque e mesi e mezzo l’anno, di quale progetto, di quale specificità la si potrà investire? Se lo stipendio annuale di un orchestrale sarà di settemila, ottomila euro l’anno, come lo si potrà considerare un professionista? Con che animo potrà studiare il suo strumento se non una specie di passione suicida?
È la stessa domanda che ognuno può tradurre nel suo contesto: se un assegnista all’università viene pagato per due moduli didattici di due mesi e mezzo l’uno un quattromila euro in tutto, che tipo di ricerca potrà sostenere? Quale sarà la qualità del suo aggiornamento, dei suoi studi? Deciderà di restare all’università, e a quale prezzo? Oppure: se un collaboratore artistico di qualche festival viene chiamato a far parte dell’organizzazione per i due, tre mesi necessari all’allestimento e poi si vedrà l’anno prossimo, ci sarà mai la possibilità di creare un laboratorio permanente, un contesto di formazione, di trasmissione dei saperi, di ricambio generazionale?
Così, sarebbe bello pensare che questa battaglia non fosse soltanto una questione di piccole e giuste rivendicazioni sindacali.
I soldi per la cultura, vanno senz’altro razionalizzati, soprattutto in maniera che non seguano i rivoli della politica e delle istituzioni sclerotizzate.
Ma soprattutto tagliare i già pochi soldi a disposizione della cultura e dell’arte, come per altro non potenziare quelli a disposizione della ricerca, è politica suicida.
Attenzione: occorre molto coraggio. Occorre veramente reintrodurre criteri meritocratici forti, nel senso, per quanto riguarda la ricerca: no a questi baroni!, no a questa università!, per quanto riguarda l’arte: no a miseri potentati che partoriscono topolini, no a chi non fa (cioè crea e diffonde) arte viva, a chi non punta alla qualità, a chi non fa ricerca artistica, a chi non si pone il problema di rendere un vero servizio alla collettività.
E’ giusto tagliare, nel senso di riorganizzare con coraggio, ma è qui, veramente qui che occorre investire per il futuro e sì, spendere di più, molto di più.
Solidarizzo dunque con l’orchestra di Roma e del Lazio (che deve comunque darsi da fare a trovare risorse anche private creando nuove opportunità di lavoro e diffusione della musica… e qui si potrebbe discutere molto, con molte idee: è possibile, credetemi!).
Non solidarizzo con governi e realtà locali che non capiscono un cazzo cosa veramente conta per il futuro economico del nostro paese (in economia va avanti chi è creativo e innovativo).
Del resto capisco anche che in un sistema come il nostro, se semplicemente si aumentano gli stanziamenti per cultura e ricerca, tendenzialmente aumentano solo i ‘mangia, mangia’.
Forza dunque, operare per il cambiamento forte!
Pare che Placido e Tor Vergata marcino e macinino uniti nella lotta. Chiediamo lumi al lumpenproletattoren.
Su quello che succede all’Auditorium Parco della Musica di Roma bisognerebbe aprire un blog a parte. Le Fondazioni che lo “occupano” sono ora salite a tre: Musica per Roma, il cui presidente è ora Gianni Borgna; l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il cui potere assoluto è nelle mani del presidente e sovrintendente Bruno Cagli; e, ultima ma non ultima, la Fondazione Cinema per Roma, alla cui presidenza ritroviamo il “fuoriuscito” di MpR, e stratega – veltroniano DOC – degli ex DS (ora PD?, PDU?), senatore Goffredo Bettini.
L’ORL, l’Orchestra di Roma e del Lazio, con un organico più ridotto rispetto all’ente sinfonico riconosciuto dallo Stato (Santa Cecilia), una volta si chiamava Orchestra Regionale del Lazio e forse ha cambiato nome da quando ha ottenuto i soldi (pochi) oltre che dalla volitiva Franca Rodano (Regione) anche dalla Provincia. In ogni caso non ha mai avuto una sede stabile, è sempre stata considerata un’orchestra in un certo senso nomade. E questo forse è stato l’elemento che ne ha accelerato la crisi. Tempo fa, non molto, in occasione se non ricordo male della conferenza stampa di presentazione della “Festa per il Diritto alla Musica” (sic!), Franca Rodano lamentava che agli enti locali – Regione, Comune e Provincia – era stata tagliata la “spesa corrente”. Tradotto nel linguaggio comune significa meno soldi per le iniziative culturali. L’ORL inoltre, non avendo una sede prestigiosa come quella dell’Auditorium, non può contare sugli oltre 6.500 abbonati di Santa Cecilia e su una stagione spazialmente identificabile. E questo limite non ha convinto gli sponsor – che i politici Rodano e Borgna auspicavano intervenissero per la ORL – che invece continuano a foraggiare abbondantemente Santa Cecilia (ma anche MpR e CpR), soprattutto per l’azione del potentissimo professore (Bruno Cagli), che non a caso siede nei consigli di amministrazione sia di MpR sia, ovviamente, di Santa Cecilia. La ORL non ha un personaggio così autorevole (Cagli è comunque un valente musicologo e storico della musica, uno dei massimi esperti rossiniani) e così politicamente introdotto. Ha solo volenterosi assessori, o ex assessori, che tifano per lei (forse per creare un contraltare allo strapotere di Santa Cecilia a Roma, che è riuscita a mettere in ombra anche la gloriosa Accademia Filarmonica Romana e il glorioso Teatro dell’Opera).
L’Auditorium Parco della Musica di Roma sta diventando sempre di più una gigantesca macchina da guerra della cultura, che sta triturando tutte le altre attività culturali (non solo musicali) a Roma, forse anche ben oltre le aspettative degli attori principali. MpR, col compositore Oscar Pizzo, ha avviato un’interessante programmazione sulla musica contemporanea collaborando in maniera comunque a mio avviso ancora disorganica con iniziative esterne (Meet in Town, Dissonanze, in parte Nuova Consonanza), e poco con Santa Cecilia. Ne risulta che a Roma il famoso “festival della musica contemporanea” sarà un po’ come la metropolitana: si nasce e si muore con i lavori in corso, in un eterno cantiere che attraversa intere generazioni. Ma senza dibattito culturale. Da parte di Santa Cecilia, il direttore musicale “operaio” Antonio (Tony/Tonino) Pappano, grande lavoratore dallo spirito pragmatico anglo-americano (lui è cittadino americano), un po’ ostaggio della EMI, con cui ha il contratto in esclusiva per le sue registrazioni, si dà un gran da fare spaziando dal repertorio della musica classica più “popolare” fino alla contemporanea (meglio dire novecento) in forma però di quasi lezioni-concerto (con una breve introduzione didascalica all’inizio, giusto quel tanto per non far stranire il folto zoccolo duro degli ottuagenari abbonati della Santa).
Concludendo la festa del cinema, in una conferenza stampa, Goffredo Bettini, da consumato e ispirato politico quale è, ha decantato il successo della seconda edizione della Festa del Cinema (ma in giro mi pareva di aver sentito dire che fosse stato un mezzo flop in termini di presenze rispetto allo scorso anno, ma sulle presenze – si sa – è un po’ come dopo i risultati delle elezioni, quando tutti dicono di aver vinto), ma ha anche subito aggiunto che loro (le oltre cento persone che lavorano per CpR, “sotto i ponti” del cavalcavia di Corso Francia adiacente all’Auditorium) continueranno a lavorare per il cinema tutto l’anno. (Per mettere le mani avanti?, mah!) Però prima di ogni altra cosa, un po’ amareggiato, ha detto che quando qualcuno prova a fare qualcosa di costruttivo in Italia gli si spara a zero, soprattutto – ha aggiunto – quando si tratta di iniziative culturali. Sono in parte d’accordo con questo sfogo. In fondo ci sono tanti altri mega sperchi in Italia. Però… però… caro Goffredo, quando si tocca la cultura si toccano in realtà tanti tasti dolenti, e si riaprono tante ferite poco rimarginate, frutto di tutto il ladrocinio che abbiamo subito in Italia negli ultimi 50 anni e oltre. Non mi meraviglio dunque che gli animi si surriscaldino all’argomento.
Il successo dell’Auditorium, e delle istituzioni che vi si riescono a radicare, è in buona parte finanziato da denaro pubblico. E molte sono state le forzature rispetto all’idea originaria di Parco della Musica aperto a chiunque volesse esprimersi musicalmente a Roma. Se una picola e non ammanicata associazione volesse per esempio fare un concerto alla sala più piccola (la sala Petrassi, da 700 posti), dovrebbe spendere per l’affitto di una serata circa 11/12 mila euro! E’ chiaro dunque che si è voluto favorire solo alcune istituzioni. E questo, tutto sommato non ha sortito un risultato negativo, in termini di offerta culturale a Roma. A breve Santa Cecilia aprirà, sotto la mega sala Santa Cecilia, il suo museo degli strumenti musicali che possiede. Ancora viva poi è la polemica sull’apertura della Bibliomediateca di Santa Cecilia, sempre all’interno del Parco della Musica, una biblioteca pubblica e confortevole, con un fondo musicale di oltre 120 volumi e registrazioni totalmente informatizzato. Polemica nata dal fatto che quasi tutto il fondo di proprietà dell’Accademia era il fondo della biblioteca del conservatorio di Santa Cecilia della non distante via dei Greci. E la biblioteca del conservatorio è rimasta una buia, obsoleta, e triste biblioteca, con pochissimi volumi rimasti. Conservatorio peraltro che ha subito negli anni recenti arresti di direttori e commissariamenti.
Ma tutto ciò che gira intorno allìAuditorium di Renzo Piano, in qualche maniera ha rimesso in ebollizione la cultura a Roma, facendo sparire o mettendo in crisi le altre istituzioni più o meno gloriose (e in alcuni casi ingloriose). L’altra faccia della medaglia è che il Parco della Musica, e tutta l’area circostante (si pensi al MAXXI, il Museo delle Arti del XXI secolo, nella vicinissima via Guido Reni, i cui lavori continuano alacremente nonostante i milioni di euro che continuano a divorare), sta diventando il buco nero della cultura a Roma. Tutto ruota e si infrange inevitabilmente attorno ad esso. E questo, per il famoso decentramento della cultura che ha un po’ il sapore stantio degli indiani metropolitani della fine degli anni settanta, non è affatto un bene. Senza parlare poi che in tutte le attività che girano intorno all’Auditorium, sia istituzionali che private, è ancora molto diffuso il ricorso a “contratti pirata” precari. E paradossalmente lì quasi tutti i lavoratori sono precari: i precari propriamente detti e quelli che pur avendo contratti a tempo indeterminato sono legati comunque a carrozzoni o società a loro volta “precarie” all’interno dell’Auditorium.
In questo senso le vicissitudini della ORL, con la quale bisogna comunque solidarizzare, rientrano perfettamente in questo disegno, in parte consapevole in parte frutto di una macchina che comincia a vivere di vita propria. Una sorta di mostro di Frankenstein che non si riesce più a controllare. Una situazione entusiasmante sotto certi aspetti, ma difficile comunque, e delicata soprattutto; che necessita di un coordinamento e di essere governata, per evitare l’accentramento della cultura con conseguente esclusione di vaste fasce della popolazione romana al processo di crescita e emancipazione.
Cristoforo Prodan
Errata corrige: Giulia Rodano e non Franca, e i volumi della bibliomediateca di Santa Cecilia sono 120 mila e non 120…
… e chi se ne frega no?
Il gruppo punk mio non è che lo sovvenziona nessuno però tiriamo avanti lo stesso al grido di my music suck I don’t give a fuck… i fichetti invece stanno sempre a elemosinare soldi (ammanicati come sono in genere li trovano) e poi, tra di loro, si piangono sulle spalle cercando solidarietà. Io lo bombarderebbe l’auditorium tanto è schifosamente classista quel posto: ma guarda un po’ che adesso, invece, il suo problema è la difesa dei posti di lavoro. Una mistificazione bella e buona tutto qua.