Antrim, La vita dopo, e l’estetizzazione del dolore
di Christian Raimo
Perché un libro lacerante, divinamente scritto, narrativamente vincolante come La vita dopo di Donald Antrim (Einaudi, pag. 185, euro 17) è passato quasi del tutto inosservato in Italia, tanto che io, il 15 ottobre, in una delle librerie più grandi di Roma, ne ho comprato la seconda e ultima copia dall’inizio dell’anno, dato che delle ventuno che avevano ordinato a febbraio ne avevano già riconsegnate in resa diciannove? È un problema di iperfetazione del mercato editoriale? (Se vi capiterà mai di lavorare in una casa editrice e di leggere i dati di vendita, vedrete che in genere la curva delle vendite è – può essere – ascendente nelle prime due, tre settimane, e poi crolla miseramente) È un problema di iperconsumo del libro come prodotto da spacciare giornalisticamente? (Se mai vi capiterà di lavorare in una redazione cultura di un giornale, vedrete che di un libro dovete parlarne sempre prima che il libro arrivi in libreria, e sempre più prima degli altri giornali, e le recensioni – vedrete – si concentreranno in quel grumo di giorni che sta tra la l’annuncio promozionale dell’uscita e l’uscita vera e propria, perché dal suo arrivo in libreria il prodotto-libro in un certo senso è già scaduto, già vecchio, ingiallito; e per Antrim il caso è veramente emblematico, perché, a posteriori, a parte una breve segnalazione di Tiziano Scarpa, una citazione di Franco Cordelli, e una di Gian Paolo Serino, non c’è stata una recensione di rilievo, un’analisi del testo, un confronto appassionato con il libro) È un problema di Einaudi, di una casa editrice che non sa far valere i libri che pubblica: e dopo averne acquistato i diritti probabilmente a caro prezzo, dopo averlo fatto tradurre impeccabilmente da Matteo Colombo, lascia Antrim a naufragare in libreria da solo? (Se mai vi capiterà di lavorare come ufficio stampa per una grande casa editrice, svilupperete probabilmente una sorta di raggelamento della percezione estetica accompagnato da una specie di entropia della capacità retorica: dovendo ribadire in modo convinto tutto il giorno per tutti i giorni la centralità, la crucialità del libro appena pubblicato dalla vostra casa editrice che pubblica mettiamo trecento titoli all’anno, per cui praticamente uno al giorno, l’unico modo per far conservare un minimo di criterio di verosimiglianza alle parole che pronunciate, è non crederci, togliervi dal dilemma se quello che dite ha senso o meno) È un problema di difficoltà per il pubblico italiano di aver a che fare con questi oggetti narrativi strani che sono i memoir, che negli Stati Uniti hanno invece una loro dimensione, una loro legittimità autonoma di genere, non sono sentiti come libri ibridi? (Se mai vi capiterà di fare lo scrittore, vedrete che sarete colpiti dalla potenza, dalla radicalità della scrittura di memoir come L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers, Memorie di un artista della delusione di Jonathan Lethem, Zona disagio di Jonathan Franzen, Il velo nero di Rick Moody, per citare quelli che sono chiaramente i fratelli della Vita dopo)
Oppure – e questa è l’ipotesi meno amara – La vita dopo non se l’è filato nessuno perché è un libro che fa male, è un libro sul dolore che taglia le gambe, che fa piangere, che non sa essere consolatorio, ma forse è balsamico, però soltanto alla fine della lettura, soltanto a patto di essersi lasciati ferire, per empatia, da quello che scrive l’autore sulla sua famiglia, a patto di accettare che il solo conforto che può dare la letteratura è lo stesso che ci può dare l’avvicinamento a un qualche tipo di verità.
Cito due pagine, in cui Antrim parla del rapporto con la madre e con il padre, della crescita e dei bilanci della vita.
Pag. 167: “La maggior parte delle storie di mia madre – i racconti rabbiosi che mi riferiva, prima e dopo aver smesso di bere – sulla sua vita con mio padre contenevano, trovo, un’idea di miglioramento di sé attraverso la pratica di accumulare intuizioni sugli altri: se diamo un nome alle colpe di coloro che ci hanno fatto soffrire, saremo protetti dal dolore; se riusciamo a raccogliere prove sufficienti a giustificare la nostra rabbia, supereremo la vergogna: se proviamo pena per chi ci ha tradito, allora non saremo stati traditi, maltrattati, fraintesi, o abbandonati. Ma cosa succede quando il calvario dell’abbandono è – come ritengo sia stato per mia madre, e per me insieme a lei – la vita stessa?”.
Pag. 161: “Perché non racconto a mio padre cosa faccio? Ma cos’è che faccio? Passo le notti sveglio nel letto, eccitato dalle anfetamine, lottando per respirare. Suono Day Tripper dei Beatles su una batteria immaginaria con il mio amico John Covington che finge di suonare la chitarra. Cerco di racimolare il coraggio per saltare dall’alto trampolino della Florida State University, e pedalo sulla mia bicicletta rossa. Faccio ginnastica artistica con i Tallahassee Tumbling Tots, anche se non riesco ad andare oltre la ruota. Mi piace una bambina bionda di nome Susan che fa la terza elementare con me, però poi si trasferisce. Per anni sognerò di ritrovarla. Solo nella mia stanza, costruisco modellini di navi e aeroplani, dipingendo impaziente gli scafi, le mitragliatrici e le fusoliere dopo aver costruito i modellini, perché non vedo l’ora che siano finiti. Vorrei che la mia sedia, la scrivania e per pareti della stanza fossero dipinte di arancione, ma non succederà mai. Nella casa accanto alla nostra vivono un pompiere, sua moglie e il figlio, e la band del figlio, The Other Side, prova nel loro garage, e io vado lì e mi siedo su un amplificatore. La stanza odora di cavi elettrici bruciati. Uno dopo l’altro, i fratelli che compongono la band scompaiono in Vietnam. Io sono nei lupetti. La nostra capobranco ha i capelli neri e ci permette di lanciare gavettoni dal tetto di casa sua sui passanti che transitano al di là di un’altra siepe. Ha un figlio che non vediamo mai, anche se lo sentiamo suonare il corno in una stanza al piano di sopra. Giù in giardino, noi giochiamo e facciano la lotta, sporcandoci le divise azzurre. Un giorno, gli alti papaveri degli scout licenziano la nostra capobranco, e di lì a poco mi ritrovo in un cortile di periferia senza alberi a imparare a fare il nodo scorsoio, oppure seduto al tavolo di una cucina a dipingere bastoncini di zucchero su una tazza destinata a mia madre. In fondo al cuore so che qualcosa non va. Vorrei che mio padre tornasse da noi per sempre, invece che una volta al mese. Sono uno dei «mostri senza collo» in una Gatta sul tetto che scotta allestita al teatro dell’università. Sulla porta di un bagno dietro le quinte c’è un cartello che proibisce di tirare lo sciacquone durante la rappresentazione, e ciononostante io riesco lo stesso a tirarlo, e il rumore riempie il teatro. L’anno dopo, quando interpreto il giovane Madcuff, sul giornale esce la mia foto, accanto a un trafiletto che parla dello spettacolo. Nella didascalia io sono «il piccolo Donnie Antrim». Il fotografo mi ha chiesto di gridare, ma io sono troppo timido per gridare davanti all’obiettivo, però provo comunque a simulare l’agonia della morte, e sul giornale sembro un bambino che ride come uno psicopatico con un pugnale piantato nella schiena […]”.
Che cos’è che si trova in questo libro che non c’è in altri? Secondo me questo. In un epoca altamente letteraria come la nostra, in un’epoca in cui ogni forma di emozione, di esperienza viene altamente estetizzata, persino pre-estetizzata (ossia: l’estetizzazione viene prima dell’esperienza, l’esperienza è possibile solo se è stata precedentemente estetizzata), il luogo in cui uno scrittore si mette dev’essere proprio un altro.
Non quello dunque dell’estetizzazione dell’emozione o del dolore o della verità, ma quello del resoconto di queste due contemporanee, simbotiche, fragilità: la fragilità dell’esperienza e quella della memoria. Ribadire queste fragilità (senza farne per l’eccesso opposto una forma di auto-vittimizzazione) vuol dire praticare un tipo di scrittura il cui stesso tessuto semantico non è certo, non è fondato. Vuol dire esporsi. Ed esporsi per uno scrittore non significa parlare di sé, uscire dal proprio lavoro rilasciando interviste, con la personalizzazione del suo ruolo di scrittore, con la via corta della polemica, o dell’opinionismo. Ma significa: esporre il proprio testo a un continuo, immanente senso di fallimento, di non adesione, di non cogenza con quello che viene raccontato. Dove vuole andare a parare Antrim? Cosa cerca? Come riesce – per dire – a usare uno dei “generi” più in voga della nostra iper-narrazione del dolore, la tumorologia, senza cadere nel ricatto del contenuto, senza attendere alla serialità delle aspettative di quel movimento di “c’era una vita tranquilla / accade un trauma / si ricerca il senso della vita”? Così: smettendo i panni che si tentano ogni giorno di addossare a uno scrittore: quelli del gestore del senso. O qualcuno di voi pensa che uno scrittore dovrebbe avere più profondità, più capacità di qualsiasi altra persona nel dare ordine alle cose?
quello che scrivi a proposito di questo gran libro è tragicamente vero. Il destino editoriale di questo capolavoro(“non c’è stata una recensione di rilievo, un’analisi del testo, un confronto appassionato con il libro”) è però ormai comune a gran parte del pubblicato. Penso, per esempio, a ciò che sta accadendo al libro di Scurati ( che non ho letto): molti ‘recensori’ , liquidando sbrigativamente il plot del kolossal scuratiano ricorrendo al logoro stereotipo della Doppia Passione ( politica e sentimentale) e glissando elegantemente su quello che una volta si chiamava ‘lo specifico letterario’, si soffermano a lungo su ciò che è davvero extratestuale in questo romanzo: la ‘tabula gratulatoria’ in finale di romanzo che, immagino, copra ben poche delle 572 pagine di questo romanzo. In fondo, oltre che non scrivendone, come è accaduto al libro di Antrim, si può eludere ogni autentico confronto critico con un testo interessandosi eslusivamente o quasi, come fa Pacchiano nel Sole 24 ore di domenica scorsa a proposito del libr di Scurati, a ciò che è accessorio ed estraneo al narrato, scomodando poi categorie ( quella di postmoderno) che paiono lontano anni luce dal libro in oggetto. Ma tant’è: e’, un po’, la diluizione, magari più sofisticata e meno brutale, della lectio di Orrico, che magari sul 7 del corriere stronca un libro ‘a prescindere’, magari solo perchè il cognome di un autore assona con un’onomatopea… Così facendo, davvero, i re-censori diventano coloro che ‘la cosa’, invece che mostrarla e squadernarla all’evntuale lettore, la coprono e la nascondono, occupandosi di discorsi a latere, preoccupandosi di sbandierare la loro dottrina tra il sapienziale ed il mandarinesco, piuttosto che di occuparsi seriamente dell’opera. Allora sempre più spesso mi capita, quando leggo quei pochi che mi convincono, di tentare di arguire da certi aggettivi, di ‘divinare’ da certe ‘posture critiche’, dalla ‘passione’ o dal ‘raggelamento’ che aggalla fra quelle righe, se quel libro è davvero bello o no, se davvero va letto o no. Ma questo accade perchè ormai sempre più spesso ritengo che la letteratura o è anticonsolatoria o non è. da questo punto di vista un libro come quello di Antrim è un’opera profondamente anticonsolatoria, che non lascia ‘balsami’, neanche alla fine della lettura e che anzi disturba a lungo ed inquieta. proprio dopo aver chiuso il libro, a lungo , per esempio, sono stato fascinato dalla terribilità di un oggetto che è come il centro della storia di quella ‘zona disagio’ che è narrata nel libro: la storia di una impossibile liberazione da uno spettro familiare che condiziona, per usare un eufemismo, la vita dell’ io narrante. Questo oggetto terribile, da cui non è possibile però distogliere lo sguardo, è un kimono prodotto con le proprie mani da questa madre ingombrante, una donna che riesce a fallire, con feroce ossessività , in qualsiasi dei ruoli che la vita sociale gli assegna: insegnante, artista, alcolista,tabagista, madre, moglie. Quell’abito patchwork pare un condensato, a colpi di stoffe e tessuti, della sua ingestibile follia, del suo inconscio bizzarro e sconnesso, della sua infanzia malata, del suo apparato desiderante: amuleti, gioielli, piume d’uccello, una grande farafalla con tanto d’ali, un gatto a forma di stemma sul cuore,…Lo indossa davanti al figlio, orgogliosa della sua originalissima creazione, in una delle scene più laceranti del romanzo. Questa donna compie con zelo una missione a cui è vocata, quella non solo di devastare se stessa, ma anche tutti coloro che, per scelta o per caso, le orbitano attorno. Così come avviene in tante storie di vita reale che abbiamo sentito. Molti dei personaggi che le ruotano attorno, compreso suo figlio, sono degli eterni ‘borderline’ che, lacerati tra normalità e follia, si sentono avvillupati dal richiamo irresistibile di quest’ultima e scelgono volentieri la tortuosa strada del degrado e della devianza: gli irreprensibili nonni che distruggono un negozio di porcellana, un amico alcolista della madre sulle tracce di un improbabile Leonardo da Vinci, l’ambiguo zio Elridge, il fallimento professionale-artistico del primo marito. A capo di tutto c’è cmq questa donna ingestibile, urticante, irritabile ed irritante: “ La sua risata era abrasiva, talvolta perfino spaventosa. Masticava a bocca aperta, sovente facendosi cadere il cibo addosso. A volte dava l’impressione di tagliarsi i capelli da sola, al buio. O eri con lei o eri contro di lei. Era convinta che suo padre non fosse il suo vero padre; che sua madre avesse tentato di annegarla in un laghetto quand’era bambina; che il suo pneumologo volesse fare sesso con lei; che una volta morta avrebbe trovato ad accoglierla Jung, la vergine Maria e Mago Merlino, era convinta di aver assolto il suo compito sulla terra e di averlo fatto bene…”. Un libro sull’impossibilità della rimozione, sull’angoscia dell’esistere dopo che, chi ci ha preceduto, ha così ineluttabilmente condizionato e pregiudicato ogni nostra velleità e possibilità. Una storia su ciò che può accadere quando non si riesce a realizzare il proprio sogno di bellezza. grazie per averne parlato qui.
A me sembra che in libreria di libri ce ne siano parecchi. Sei sicuro che non ti siano sfuggiti altri libri “anonimi” di grande pregio?
E’ il prezzo che si paga nella società della (in)comunicazione, o (in)formazione.
Cosa ci trovi di così strano, anomalo? E’ normale! anormale sarebbe il contrario.
Occorre ripensare la società della comunicazione e della conoscenza nello sviluppo che ha preso
Iperfetazione. Bleah.
Scusate, ma per amore di chiarezza, quella di Cordelli non è una semplice citazione, bensì una vera e propria recensione apparsa il 21 maggio sul corriere della sera, così come tale (analisi del testo, confronto appassionato etc…) è quella a firma di Daniele Giglioli apparsa su Alias. Grazie.
s.
hai ragione stefano, giglioli che l’ho anche letto e molto apprezzato, l’avevo rimosso. quella di cordelli è una recensione, hai ragione. anche la sua l’avevo letta e apprezzata, ed è effettivamente una recensione. casco forse nelle stesse forme di assolutizzazione che depreco. sta di fatto che comunque antrim è scomparso dalle librerie a sei mesi di distanza, grazie.
Raimo dice: “È un problema di Einaudi, di una casa editrice che non sa far valere i libri che pubblica”.
Trovo la parola “valere” impropria. A me sembrerebbe giusto dire che una casa editrice inserita in un mondo economico, debba sapere come “far vendere” ciò che pubblica (perchè dovrebbe credere nel valere o valore di quel pubblica).
Per ottenere ciò non può non ricorrere che a una retorica della persuasione inserita in una strategia di marketing efficace.
In quanto a ciò che vale o ha valore poi in sé, ciò appartiene, forse, al Tempo (della sua affermazione), come è capitato nella storia dell’editoria e del libro. O, forse, non appartiene né al Tempo, né all’affermazione, perché non mi sembra che ci sia da qualche parte alcuna legge universale, né naturale, né culturale, né artificiale, che codifica il valore in sé di qualcosa ( a parte la sua generica esistenza, esserci, in questo senso un libro che vale può rimanere fino alla fine dei tempi in un cassetto).
Allora, se è così, il discorso di Raimo mi sembra, in parte, moralistico (nel peggior senso), mentre sarebbe più esatto sarebbe fare una critica all’Einaudi (ma potrebbe contare per tanti altri casi editoriali) nei termini di inefficacia nella retorica della persuasione nel contesto del marketing, che invece, in parte, Raimo invece centra intelligentemente. Ma non vorrei che passasse l’associazione per cui se vi è un’efficace retorica della persuasione, quel libro vale (anche se si vendesse a iosa!).
Esatto sarebbe dire che quel libro piace, interessa. Anche al popolo tedesco (la maggioranza) piacque Hitler, ma non applicherei il principio della maggioranza a ciò che vale. Sappiamo, e lo sanno oggi anche i tedeschi quanto valeva il nazismo
Al bel pezzo di christian aggiungo anche, non per amore di pedanteria, che lo stesso stefano gallerani s’è speso assai, in sedi pubbliche di critica e ancora di più in quelle private, per questo libro. Ma insomma, la lista della spesa aggiornata non cambia la sostanza vera e amara dell’intervento di christian.
Io l’ho letto (l’ho rubato a casa di un mio amico, alla festicciola di suo figlio), ed è bellissimo. Ed è scandalosamente vero quello che dice Raimo.
Dicevo che c’è del moralismo insinuante in questo articolo e infatti spunta Massimiliano Governi che ci dice: ” scandalosamente…”
Quando la vita viene ridotta a un libro che non ha avuto il successo che meritava…
Non è più sano, più proficuo, più strategico, più tattico, più vero, più onesto, darsi da fare per parlare del libro in cui si crede? piuttosto che parlare del “metalibro?”
La vita dopo è un gran libro a mio parere e più grande è un libro meglio non sprecare una sola parola per lamentarsi e gridare allo scandalo perché poco si è fatto conoscere e tanto meno individuare spiegazioni sociologiche del tipo pensate da raimo: “Oppure – e questa è l’ipotesi meno amara – La vita dopo non se l’è filato nessuno perché è un libro che fa male, è un libro sul dolore che taglia le gambe, che fa piangere, che non sa essere consolatorio, ma forse è balsamico, però soltanto alla fine della lettura, soltanto a patto di essersi lasciati ferire, per empatia, da quello che scrive l’autore sulla sua famiglia, a patto di accettare che il solo conforto che può dare la letteratura è lo stesso che ci può dare l’avvicinamento a un qualche tipo di verità”, quando le ragioni sono dentro le stanze dell’Einaudi .
E va bene, mi avete convinto; lo leggerò.
Sono soverchiato. Per me comune mortale pensare a tutti i libri che vengono pubblicati e al fatto che non riuscirò mai a leggerli tutti come Marino Sinibaldi o come la Zucconi, mi sconforta (a esser sincero mi sconfortava). Figuriamoci se mi stupisco se ne è saltato uno dalla ribalta, ancorché bellissimo…. (faccio sempre a tempo a ordinarlo e leggerlo anche se non si trova nei primi scaffali in librerira).
E’ da amanti dell’opera d’arte, o da cointeressati al (o condizionati dal) profitto editoriale recriminare per un lancio mancato o mal riuscito?
Un buon lavoro può sfidare le leggi (non letterarie) economiche?
Capisco (si fa per dire, ma come essere ingenui…) l’industria editoriale che deve ‘pompare’ i titoli (tra il lancio e l’uscita) perché, bene o male deve guadagnarci subito per fare il bilancio. E se non riesce (data l’enorme mole) a spingerli tutti ovvio che sacrifica i meno consolatori.
E’ comunque un’industria.
Forse ha ragione luminamenti.
Circa il discorso se lo scrittore deve essere più sensibile degli altri rispetto al senso, dico solo che lo scrittore deve saper raccontare, generando (anche suo malgrado) sprazzi di (non) senso.
Ciao a tutti, ciao Piero, anch’io fui colpito dalla bella rece su Alias, ho cercato di leggerne qualche pezzo in libreria, i libri costano sempre troppo, e poi ho trovato le prime cinque, sei pagine, le posto nel caso qualcuno si voglia fare un idea più precisa del libro. bye bye
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L’inizio di La vita dopo
Mia madre, Louanne Antrim, morì un bel sabato mattina nel mese d’agosto dell’anno 2000. Era avvolta tra lenzuola porpora nuove in un letto da ospedale, accanto a bombole d’ossigeno verdi appoggiate contro una parete, in quello che più o meno era il salotto della sua casa bizzarramente arredata, scura e claustrofobica, non distante dal fondo di una stradina che serpeggiava come un solco accanto a un cantiere fangoso e a giardini chiusi da recinzioni metalliche, e si concludeva nel parcheggio adiacente al malinconico laghetto delle anatre al centro della cittadina in cui aveva vissuto gli ultimi cinque anni della sua vita, Black Mountain, in North Carolina. Il motivo del trasferimento di mia madre dalla Florida in North Carolina era stato la morte di suo padre, Don Self, avvenuta in seguito a un infarto, nel 1995. La vedova di Don Self, madre di mia madre, Roxanne, stava all’epoca intraprendendo il suo declino nella senilità, ed era, ad ogni modo, incapace di gestire la piccola proprietà che mio nonno le aveva intestato. Con ciò intendo dire che mia nonna, divenuta maggiorenne durante la Grande Depressione, e che da quell’età non aveva ricavato alcuna nozione del denaro se non l’idea che non fosse bene darne troppo ai propri figli, difficilmente avrebbe portato avanti la tradizione inaugurata dal marito di effettuare mensilmente sostanziosi bonifici sul conto corrente di mia madre. Don Self aveva mantenuto a galla la figlia per lungo tempo – fin da quando lei aveva smesso di bere, tredici anni prima, stabilendo che era un’artista e una visionaria in anticipo sui suoi tempi – mentre ora, all’improvviso, a mia madre toccava l’incombenza di piegare sua madre tramite avvocato e acquisire il controllo del portafoglio azionario, blitz che avrebbe tranquillamente potuto portare a compimento da Miami, ma che sarebbe riuscita a organizzare meglio mediante quello che nell’ambiente dello spionaggio è noto come «lavoro sul campo».
Quattro anni dopo, Roxanne Self passò a miglior vita. Il funerale si tenne alla Presbyterian Church di Black Mountain nel settembre del 1999. La settimana successiva, mia madre – appena qualche giorno dopo essersi, come la sentii proclamare a più riprese, «liberata di quella donna, e adesso me ne andrò in un posto dove io ho voglia di stare, e vivrò la mia vita»- fu ricoverata in ospedale con un’infezione polmonare, e scoprì che anche lei, di lì a poco, sarebbe morta.
Aveva sessantacinque anni, e da molti tossiva senza sosta. Non c’era mai stato verso di affrontare con lei l’argomento fumo. Scoprire che aveva un cancro non fu una sorpresa. Le era cresciuto nei bronchi e non si poteva operare. Come palliativo le fu offerta la radioterapia – che avrebbe potuto (e per breve tempo così fu) rimpicciolire il tumore quel tanto da permettere l’ingresso dell’aria nel polmone congestionato – ma mia madre non fu ritenuta una candidata adatta alla chemioterapia. Si era, nel corso di quarant’anni di, come si suol dire, vita dura, progressivamente e inesorabilmente deteriorata. La storia del deterioramento di mia madre, durato una vita, è, per alcuni versi, la storia della sua vita stessa. La storia della mia vita è intrinsecamente legata a questa storia, la storia del suo deterioramento. È la storia intorno alla quale ruota costantemente il mio modo di percepire me stesso e gli altri. Sarà questa storia, o in ogni caso il mio ruolo in questa storia, a permettermi di non perdere mia madre.
Partendo da questo presupposto – la storia di mia madre e di me, di mia madre in me -, cercherò di raccontare un’altra storia, la storia del mio tentativo, nelle settimane e nei mesi che seguirono la sua morte, di acquistare un letto.
O, per meglio dire, di riuscire a tenere un letto. Ne comprai diversi. Il primo fu un bel matrimoniale «queen-size» Stearns & Foster al Bloomingdale’s tra Fifty-ninth Street e Lexington Avenue, a New York. La mia ragazza di allora, R., mi accompagnò al negozio, e insieme ci distendemmo e confrontammo. Shifman? Sealy? Stearns & Foster? Morbido? Duro? Multistrato? Guardai R. rigirarsi su un materasso; la vidi rimbalzare su e giù con il sedere per aria, e mi ritrovai a pensare, sconclusionatamente, a proposito di me stesso in relazione a mia madre, morta la settimana prima: «Finalmente mi sono liberato di quella donna! Adesso mi comprerò un letto enorme, scoperò e vivrò la mia vita».
Duemila dollari.
Con tremila mi sarei portato a casa uno Stearns & Foster più grosso (e, per estensione, una più grossa e consistente quantità di comfort, che avrebbe portato a un sonno più soddisfacente, a una migliore vita amorosa e, in generale, a un’esistenza più felice e produttiva), o uno Shifman tra i migliori della gamma. Gli Shifman esercitavano una notevole attrattiva, grazie a una campagna pubblicitaria che descriveva dettagli della fabbricazione tradizionale (anacronistica?) quali la rete a otto molle intrecciata a mano, e alla scelta delle fibre naturali (cotone o lana compressi) rispetto alle schiume sintetiche.
– Che ne pensi, amore? Ti piace quello con lo strato-cuscinetto?
– Quello grosso che c’è lì?
– Sì.
– È fantastico, sì.
– Quanto durerà uno di questi? Il signore l’ha detto?
– Donald, prendi il letto su cui stai più comodo. Più avanti potrai comprarne altri.
– Più avanti? In che senso, «più avanti»? Più avanti nella vita?
– Se prendi un letto e poi non ti piace puoi darlo indietro. Guarda che hai trenta giorni di tempo. La gente restituisce i letti in continuazione. È a questo che servono i grandi magazzini.
– Giusto.
– Donald, dovresti essere tutto contento! Ti stai comprando un letto fantastico. Te lo meriti! Dovremmo festeggiare.
– Già.
– Ti senti bene?
– Eh?
– Vuoi provarli ancora una volta?
E fu esattamente ciò che io e R. – ma a quel punto sempre più spesso io, da solo – facemmo. Comprai il letto n. 1 con la carta di debito all’inizio del settembre 2000, andai a casa, chiamai il negozio e dissi di non consegnarmelo, poi tornai e, verso la fine di settembre, optai per un letto diverso e più costoso (quello con lo strato-cuscinetto), non mi feci consegnare neppure quello, quindi mi imbarcai in quella che risultò essere, a conti fatti, una sorta di ricerca epica, o addirittura, si potrebbe dire, un pellegrinaggio per vari negozi, dove mi distendevo e mi rigiravo e intrattenevo conversazioni ripetitive, ossessive, con addetti ai lavori e, ogniqualvolta mi era possibile, con gli amici che pazienti mi accompagnavano, pubblico di profani, a proposito di letti. Trascorsero tre mesi, durante i quali finii per imparare più di quanto avrei mai immaginato fosse possibile sui materassi e sull’industria del materasso in generale – non solo come e dove venivano fabbricati i letti, ma anche come venivano commercializzati e venduti, e a chi – e, nel mentre, mi feci una cultura anche su altre cose, oltre ai letti. Intendo coperte, cuscini e lenzuola.
Potrebbe essere utile a questo punto dire che, durante il suddetto periodo, caratterizzato e più probabilmente definito da un consumismo compulsivo, avevo un’intensa percezione di me stesso come matricida. Sentivo, in maniera concreta e tuttavia sfuggente, di aver avuto delle responsabilità nella morte di mia madre. E così la ricerca di un letto si trasformò in una ricerca d’asilo, il che significa che la ricerca di un letto divenne ricerca di un posto; e, naturalmente, con posto intendo dire spazio, quel genere di spazio approssimativo e indeterminato a cui talvolta alludiamo quando diciamo a qualcuno: «Ho bisogno di spazio»; e il fatto che in questo contesto lo spazio sia generalmente sinonimo di sentimenti non mi impediva di immaginare che lo spazio – considerato, contro ogni logica, come un luogo reale; nella fattispecie, la mia camera da letto – potesse essere riempito, pressoché alla perfezione, da un sontuoso letto matrimoniale su cui adagiare virili lenzuola a righine bianche e grigie, magari con un copriletto a balze vagamente e studiatamente femminile a rivestirne la mole. E immaginavo, in modo tutto sommato logico, considerato il dolore per la dipartita di mia madre e per il mio coinvolgimento, non solo nell’evento della sua morte avvenuta in quel mattino di agosto, ma anche, da bambino e poi da uomo, nel più ampio contesto dell’annientamento di sé che aveva praticato per tutta la vita, mediante l’alcolismo e quello che dell’alcolismo è il principale sintomo e lascito, la rabbia – immaginavo, o fantasticavo, che, una volta rannicchiato e al sicuro nello spazio riempito dal letto, disteso da solo o con R. su montagne di cuscini ammassati come quelli che si vedono sui letti fotografati nelle riviste di arredamento, avrei forse scoperto chi sarei stato e come sarei andato avanti senza mia madre, una donna che era morta in una casa tetra, e in un letto scomodo.
Non c’era molto che chicchessia potesse fare. Mia madre, negli ultimi anni della sua vita, era diventata drasticamente paranoica. Coltivava o forse era vittima di episodi in cui conversava con figure mitologiche o religiose, tra cui la Vergine Maria. Formatasi come sarta e costumista, confezionava indumenti bizzarri e di pregevole fattura che ricordavano ed erano ideati per essere indossati come vesti per cerimonie spirituali il cui scopo rimaneva poco chiaro. Tutto, in quegli indumenti – gli elementi simili ad ali che adornavano la parte posteriore, i ciondoli e gli oggetti totemici che penzolavano dalle maniche o dai risvolti, le tavolozze di colori dissonanti esibite in brandelli di tessuto cuciti uno sull’altro come pezzi di uno strano collage -, parlava di un simbolismo che era profondamente privato. Indossati in pubblico, quegli abiti e quelle vesti immancabilmente suscitavano disagio in chi era abituato a vivere nella società nel suo complesso. Quando mia madre indossava, per un concerto o un vernissage ad Asheville, una giacca viola scuro chiusa da bottoni grossi come quelli di un clown e ornata sul davanti e ai lati da un reticolo di strisce di seta thailandese in tinte pastello tropicali, una giacca decorata sulla schiena da un enorme medaglione bianco ricoperto di panno dorato pieghettato e drappeggiato in modo tale da ricordare una guarnitura floreale da torta, e completata da ulteriori strisce di seta colorata annodate da cui pendevano nappe di panno di varie lunghezze che scendevano sotto l’orlo, non si limitava a comportarsi da spirito libero facendo le cose a modo suo: ripudiava il patriarcato e si autoproclamava artista.
La sua capacità di allontanare gli altri da sé era stupefacente. Si comportava in modo astioso e tendeva a creare discordia con le persone altrettanto poco allineate che diventavano sue amiche, e con cui intratteneva rapporti di effimera durata. La sua risata era abrasiva, talvolta perfino spaventosa. Masticava a bocca aperta, sovente facendosi cadere il cibo addosso. A volte dava l’impressione di tagliarsi i capelli da sola, al buio. O eri con lei, o eri contro di lei. Era convinta che suo padre non fosse il suo vero padre; che sua madre avesse tentato di annegarla in un laghetto quand’era bambina; che il suo pneumologo volesse fare sesso con lei; che una volta morta avrebbe trovato ad accoglierla Carl Jung, la Vergine Maria e Mago Merlino; era convinta di aver assolto al suo compito sulla terra, e di averlo fatto bene; di essere una delle persone scelte per preannunciare l’avvento del nuovo ordine umano improntato alla bellezza; di essere morta in mare al termine di una precedente vita da schiava a bordo di una galea romana, incatenata ai remi; che gli uomini fossero pezzi di merda e che i suoi figli le fossero ostili; che se fumava erano affari suoi, e quindi fatti i cazzi tuoi; che suo figlio fosse un artista proprio come lei; che io e lei saremmo dovuti andare dall’analista insieme.
Costituiva, per chiunque le stesse vicino, e specialmente per coloro che rientravano nella sua giurisdizione, una minaccia vivente. Aveva di fatto vissuto buona parte della sua vita adulta in una condizione di obnubilamento, “dormendo” tre ore a notte o meno, e senza sognare. La perdita del sonno rem doveva aver avuto conseguenze devastanti sul suo corpo e sulla sua mente. Si lanciava in crisi di urla che si protraevano fino alle ore piccole. Mi capitava, ricordo, di trovarla stesa sul pavimento del salotto al mattino presto, prima dell’alba.
Forse sua madre aveva davvero tentato di annegarla in un laghetto. La verità poteva essere così tremenda, o peggio ancora. Forse mia madre era stata vittima di una sindrome di Munchausen per procura, una perversione delle attenzioni genitoriali che porta a sottoporre il figlio a interventi medici ingiustificati, addirittura chirurgici. I suoi medici in North Carolina, e come loro anche alcuni membri della nostra famiglia, sospettavano che la madre di mia madre avesse avuto il curioso vizio di portare la figlia dal dottore. Non è cosa che possa commentare nel dettaglio: non c’ero. Eppure riesco lo stesso a immaginare mia nonna Roxanne, verso la fine degli anni Quaranta o giù di lì, accompagnare per mano mia madre lungo i corridoi bianchi di un qualche ospedale di campagna, o sedere con lei nella sala d’attesa dell’ufficio di un medico in Florida. Ricordo che mia madre raccontava storie, quand’ero piccolo, di operazioni. Quale fosse l’esatto scopo che tali operazioni volessero ottenere rimane un mistero. Una, mi pare di ricordare, aveva a che fare con la rimozione di una costola. E c’era un famoso aneddoto secondo cui mia madre «si era risvegliata» proprio mentre i medici la dichiaravano morta sul tavolo operatorio. All’epoca della mia nascita, Roxanne era ormai diventata una fondamentalista della nutrizione, dedita al controllo della dieta e degli umori della sua famiglia; somministrava vitamine e consigli ai malati di cancro che venivano a sapere di lei tramite il passaparola dei malati della Florida; prescriveva cibi la cui efficacia in alcuni casi (broccoli, cavolo-rapa) venne in seguito confermata dall’industria sanitaria nazionale. Credo che si considerasse una sorta di eroina popolare. È possibile immaginare il viaggio verso la morte di mia madre come un atto d’odio interiorizzato di stampo masochistico contro sua madre, la quale si serviva della salute per soggiogare chi la circondava; e contro suo padre, che, in un’infinità di frangenti immaginabili, era stato incapace di riconoscere la situazione in cui versava la figlia, o di agire in sua difesa, durante l’infanzia.
Da giovane, mia madre era popolare, nonché un’autentica bellezza. Fu bambina in Tennessee e adolescente a Sarasota, in Florida, dove conobbe mio padre. Insieme, i miei genitori erano, a giudicare dai loro annuari scolastici, una di quelle coppiette di successo che al liceo sono oggetto di invidia. Un loro amico, che si era innamorato di mia madre al college e non ne era più uscito, una volta me la descrisse in termini rivelatori della forza sessuale e caratteriale che lei possedeva all’epoca. Dal momento che era figlia unica, non ho zii materni in grado di ricordarla con precisione da ragazza. E le testimonianze dei vecchi amici dei miei genitori sugli anni successivi – dopo che mia madre se ne andò di casa, sposò mio padre, ebbe i figli e si stabilì come moglie e madre in uno degli appartamenti destinati al corpo docente – sono difficili da reperire, così come i miei ricordi stessi, quel genere di ricordi che contribuiscono a formare una coerente… cosa? Immagine? Impressione? Trama? Io avevo quattro, cinque, sei anni. Mia sorella Terry ne aveva tre, quattro, cinque. Erano i primi anni Sessanta, gli ultimi – perché è così che ripenso a quell’epoca ora, quasi quarant’anni dopo che mio padre si innamorò di un’altra donna, e la nostra famiglia cominciò a disfarsi – di un certo intellettualismo meridionale di stampo ambientalistico-rurale, quando i figli episcopaliani di genitori presbiteriani leggevano, freschi di matrimonio, Finnegans Wake, si rifugiavano nelle tesi di dottorato, bevevano bourbon, martini e birra da poco e passavano le notti in bianco a litigare e a fare scappatelle e a scoprire scappatelle, e quindi caricavano i loro figli sui sedili posteriori di maggioloni Volkswagen per poi guidare di notte su o giù per la costa. Ancora oggi sono incapace di documentare in modo attendibile l’andamento delle migrazioni e degli spostamenti dei miei genitori, dei loro tradimenti e riconciliazioni, dei ricongiungimenti, delle separazioni, degli ulteriori spostamenti, dei ricoveri in ospedale. Basti dire che non c’è fine agli aneddoti folli, molti dei quali ho già fin troppe volte usato per rompere il ghiaccio durante un appuntamento galante.
Ma il letto? A dicembre permisi infine che mi fosse consegnato quello con lo strato-cuscinetto. I fattorini di Bloomingdale’s lo trasportarono su per le scale, e io lo ricoprii con le lenzuola e i cuscini che mi ero procurato per l’occasione. Il letto, paragonato al futon su cui avevo dormito fino a quel momento, sembrava gigantesco. Era gigantesco; non soltanto largo, ma alto, dominava la stanza. Le sue implicazioni falliche erano più che evidenti negli inviti a «venire a vederlo» che rivolgevo a R. La faccenda si sarebbe dovuta chiudere lì, con un po’ di piacevole parapiglia con R. e una graduale accettazione di un nuovo ordine nella mia casa. Perché ciò avvenisse avrei tuttavia dovuto essere una persona diversa, e trovarmi molto più distante nel tempo dalla morte di mia madre. Inoltre, non avrei mai dovuto sentire in alcun modo parlare della Dux.
La Dux è una di quelle aziende che producono articoli esoterici e costosi scientificamente progettati per trasformarti la vita. Quando compri un letto Dux, entri a far parte di una comunità di persone che hanno comprato e credono nei letti Dux. Un letto Dux sembra dapprima curiosamente morbido; standoci distesi sopra per un certo tempo, è possibile sperimentare una sensazione di «rilassamento» che può risultare addirittura allarmante. L’impressione iniziale è quella di adagiarsi su un letto ad acqua ben calibrato: sui letti Dux non si sale, ci si entra dentro. L’azienda promette una quantità di effetti benefici sulla salute, alcuni relativi alla postura, altri legati a una maggiore profondità del sonno, e tutti derivanti dal lattice naturale e dalla miriade di molle descritta nella letteratura Dux come un «sistema» che consente al letto di adattarsi delicatamente alla forma del corpo, riducendo i punti di pressione e di conseguenza il numero di volte che una persona addormentata si sposta o cambia posizione per stare comoda durante la notte. «Hai un Dux?», ho sentito dire dagli iniziati. I letti Dux vengono venduti con una garanzia di vent’anni. Mi pare di ricordare “L’ultimo letto che comprerai in vita tua” tra i loro slogan promozionali. Questi letti sono fabbricati in Svezia, pubblicizzati sulle stazioni radio di musica classica, venduti in negozi di proprietà dell’azienda che sembrano beauty farm, e non vanno mai, mai in saldo.
Non so quante volte, ai primi d’inverno dell’anno in cui morì mia madre, entrai a grandi passi – solitamente da solo, benché quando possibile con R. o con uno dei sopraccitati amici – nel punto vendita Duxiana in East Fifty-eighth Street (comodamente situato vicino a Bloomingdale’s), dove mi toglievo le scarpe e cominciavo a saltare da un letto all’altro, leggendo e rileggendo le brochure e molestando Pamela, la direttrice del negozio, con domande di ogni sorta su un modello piuttosto che su un altro. Sistemavo i cuscini in piuma d’oca. Mi adagiavo. Mi giravo su un fianco. Mi giravo sull’altro. Meraviglioso. Potevi far montare gambe di mogano o di metallo che rendevano il letto ancora più alto, oppure lasciarlo basso sul pavimento, come i letti degli alberghi europei eleganti. Potevi rimboccare le lenzuola così, drappeggiarle cosà. Cuscinetto aggiuntivo in cotone? Oppure lattice? Cominciai a intuire, durante i pomeriggi trascorsi disteso nel punto vendita Dux, che tutte le decisioni che avrei preso da quel momento in avanti sarebbero scaturite in modo fluido dall’acquisto del letto giusto. Possedevo già un letto nuovo (e restituibile) in camera, ma non mi piaceva particolarmente. Non lo avevo desiderato abbastanza perché mi piacesse. Era effettivamente grande, ma sotto ogni altro aspetto lo trovavo ordinario e deludente, perché non stava salvando la mia relazione con R. Non conferiva al mio appartamento una sensazione di casa. Non scriveva il libro al posto mio. Peggio ancora – ed era quella la pecca che più mi feriva -, non mi permetteva di proseguire all’infinito la mia ricerca di un letto.
Sì, Christian, è vero: ci sarebbe molto da scrivere sui labirintici circuiti della visibilità letteraria. E sembra proprio interessante il libro di Antrim. Di te mi fido.
Non ricordo dove avessi letto qualcosa di Antrim. Fatto sta che, casualmente trovato in biblioteca questo suo nuovo lavoro, nel mese di agosto, me lo portai a casa. Libro da applausi.
“È un problema di Einaudi, di una casa editrice che non sa far valere i libri che pubblica”
Li sa far valere eccome, quando vuole.
Vedere “Le correzioni” di Franzen, sbandierato capolavoro, libro noiosissimo e inutile.
Come dire, l’alternativa è scandalizzarsi o provare della sufficienza nei confronti di chi si scandalizza. C. Raimo si scandalizza, e personalmente io empatizzo con il suo scandalizzarsi. E diffido da chi commisera il fatto che ci si possa scandalizzare. Nel mio percorso personale sono arrivato alla conclusione che chi commisera i sentimenti altrui, o comunque esprime della sufficienza, prova in genere delle difficoltà a provare dei sentimenti propri, è insomma molto nevrotico. Ma questo è solo un inciso personale, che può essere condiviso o meno.
Resta il fatto che se in Francia un ottimo romanzo tradotto da un ottimo traduttore vende solo qualche centinaio di copie nessuno si scandalizza. Come dire, capita. E’ normale. Si forma anzi di solito una nicchietta di sufficienti e gongolanti apprezzatori che sotto-sotto gioiscono del flop commerciale/di critica del testo che tanto apprezzano. Perché allora da noi c’è qualcuno che si scandalizza, se succede la stessa cosa? Perché succede troppo spesso, perché succedono troppe cose simili. Nell’animo dello scandalizzato il flop del testo diventa il simbolo di altre “ingiustizie”, di altre ferite. Il suo stesso “ruolo sociale” (intendo: di lettore, di critico, di autore) viene in fondo messo in discussione da questa ridondanza di ingiustizie (“cosa sono io, cosa ne sarà di me, in questa mancanza totale di regole, in questo rovesciamento sistematico delle regole?”). Di lì la passionalità crescente dei suoi toni, il montare verso timbri isterici della sua voce. Nell’animo del commiserante lo scandalizzarsi dello scandalizzato è un’ulteriore riprova della sua ingenuità e della sua scarsa elasticità mentale (con uno slittamento dal piano dei sentimenti a quello della ragione), e anzi la sua scompostezza emotiva diventa un’ulteriore riprova della sua mediocrità cerebrale, o comunque della sua “mancanza di esperienza”.
Queste sono dinamiche tipicissime della provincia. Nelle città di provincia (parlo per esperienza personale, ma chi ha percorsi diversi può per es. rileggersi Brancati) la gente passa il tempo a lamentarsi e a scandalizzarsi della limitatezza della provincia stessa, ma c’è sempre chi si assume il ruolo di fustigatore – in nome di una critica ancora più radicale, di una intelligenza più lucida, o anche semplicemente di una cinica accettazione dello status quo – delle critiche. Come dire, noi lettori, critici e autori italiani facciamo parte di una asfittica e provinciale e consanguinea repubblica delle lettere. Possiamo solo scandalizzarci o fare i sufficientoni. Siamo in fondo così abituati a questi ruoli che in fondo altrove saremmo a disagio.
Ma in moltissimi paesi va molto peggio, intendiamoci. In moltissimi paesi africani i libri stranieri non vengono tradotti, o per meglio dire non arrivano nemmeno, perché sono troppo cari, perché non ci sarebbero lettori che potrebbero capirli e/o pagarseli. In moltissimi paesi africani non ci sono autori, perché in quei paesi non si stampano libri (nessuno li comprerebbe: nessuno li capirebbe e/o avrebbe i soldi per pagarseli): i poveri scrittori e critici di quei paesi – spesso di ottimo livello – pubblicano in altri paesi più ricchi, spesso in lingue diverse da quelle che hanno imparato da piccoli.
Sartori dice: “Come dire, l’alternativa è scandalizzarsi o provare della sufficienza nei confronti di chi si scandalizza”, che è come dire che il sig Sartori non sa (perché cieco) che tra il bianco e il nero ci sono anche molti colori!
P. S. quando chi pratica libri non capisce più niente della realtà!
Sartori poi dice: “E diffido da chi commisera il fatto che ci si possa scandalizzare. Nel mio percorso personale sono arrivato alla conclusione che chi commisera i sentimenti altrui, o comunque esprime della sufficienza, prova in genere delle difficoltà a provare dei sentimenti propri, è insomma molto nevrotico. Ma questo è solo un inciso personale, che può essere condiviso o meno.”
Parto dal finale: “può essere condiviso o meno”, ” questo è solo un inciso personale”, come dire fin qui potete condividerlo oppure no, mentre il resto, che non è un inciso personale dovete condividerlo e basta (anche se lui non lo sa, anche questo è un inciso personale. A meno che non ci sia un’altro ego o terza persona al suo interno che parli. Un bell’esempio di demagogia che utilizzerò all’università. Meglio prendere gli esempi dalla vita reale!) Fantastica come proposizione sensibile all’indipendenza del giudizio altrui, all’autonomia di una differenza di valutazione.
Lui preferisce da una parte mettere gli incisi personali ( i giudizi morali), dall’altra parte quello che non è possibile condividere diversamente da lui ( i giudizi di competenza)! lui, lui… ( non assomiglia forse a qualcosa che lui cita a sproposito?)
Inoltre è pure superficiale e approsimativa la valutazione! e piena di inferenze deduttive che come i logici sanno sono errate se si parte da premesse false! Perché non si tratta di commiserare il fatto che ci si possa scandalizzare, ma di – sulla base di una diversa valutazione che è cognitiva ed emotiva (visto che le due cose non esistono l’una senza l’altra) – dissociarsi. Quando uno psichiatra (sopratutto di impostazione fenomenologica) osserva la tristezza in un suo paziente e sa che quella tristezza paralizza la vita di quella persona, fa il possibile, ricorrendo ai mezzi che conosce, per far superare la tristezza, per elaborarla o anche per porla a distanza (quando non è eludibile). Ma questo non significa che non si riconosca la tristezza (non viene infatti elusa), che non ci sia un etica del riconoscimento in quella operazione, anzi è vero proprio il contrario!
Quindi, pensare che non condividere lo scandalizzarsi significhi commiserare o esprimere sufficienza, è ignorare la possibilità che un sentimento ben riconosciuto (riconoscere un sentimento non necessariamente deve condurre all’empatia, se no saremmo rovinati, e non essere empatici sulla base di una diversa valutazione non significa essere privi di sentimenti e/o non riconoscere ciò che l’altro ci dice pur non condividendone la genesi. Ne riconosco il fenomeno) possa avere una matrice di origine errata; non significa certo negarlo, ignorarlo, disprezzarlo o trattarlo con sufficienza.
Nel caso poi specifico, significa per me anche porre fuori misura un sentimento che trovo mica irreale e da non rispettare, piuttosto inadeguato al fatto, frutto di un processo valutativo e cognitivo errato.
Ovviamente, l’unica cosa opinabile è la valutazione dell’inadeguatezza o meno al fatto preso in esame e non la conclusione che valutare criticamente la relazione del sentimento al fatto sia segno di atarassia sentimentale o emotiva ! Il resto è lavoro di Fantasia e pregiudizio morale (o di valutazione clinica?); ma Sartori lo sa che cos’è una nevrosi? quindi secondo lui chi non prova sentimento è nevrotico, lo scrive pure! è una nuova definizione che le scienze psicologiche ignoravano di nevrosi, ora si aggiorneranno!)
Ma questa è un’altra storia, su cui è meglio stendere un lenzuolo e fare finta di non avere capito!
Avete visto l’articolo sul domenicale de Il Sole 24 Ore del 14 ottobre pag.39: “Besteller a caro prezzo” ?
No, beppe: qual era il succo?
Praticamente era il resoconto della recente borsa (editoriale) di Francoforte. Tra l’altro sosteneva l’articolo (è di Stefano Salis) che i nostri agenti letterari e le nostre case editrici… “eh sì: gli italiani sono pronti ad aprire il portafoglio ben più degli editori stranieri, a volte offrendo il doppio dei colleghi europei per lo stesso manoscritto. Colpa di una concorrenza spietata tra grandi gruppi editoriali, ma anche tra case editrici appartenenti allo stesso gruppo. Colpa di una frenesia dell’affare che potrebbe rivelarsi anche, a pubblicazione avvenuta (spesso quasi un anno dopo), un mezzo flop… A Fiea conclusa, ciascun editore, valuterà con calma i propri acquisti e cercherà di far quadrare i conti…”.
(Questo, visto che si lamentava di come un bel libro non sia stato adeguatamente promosso dalla casa editrice, a proposito del rapporto affari-letteratura, nel bene e/o nel male).
Se può interessare, una corposa recensione su La vita dopo, seppur non di matrice italiana, è uscita sulla «Rivista dei Libri» di questo mese (avrebbe potuto farlo a ridosso della pubblicazione del libro, ad aprile-maggio, essendo già stata tradotta, ma non so perché si sia aspettato tanto), quindi magari è ancora possibile trovarla in edicola o in qualche libreria. È a firma di Joan Acocella e s’intitola La mamma è sempre la mamma (pp. 26-29). Un assaggio (p. 26):
«Ora, se dovessi dirvi che Antrim, dopo aver scritto […] tre ottimi e ossessivi romanzi, ha pubblicato un libro di memorie dicendoci, fondamentalmente, da dove proveniva quel materiale — come egli abbia passato l’infanzia provando pietà e terrore per una madre violenta e alcolizzata, e come lei non fosse da sola; come, nella sua famiglia, egli abbia assecondato un ubriaco dopo l’altro, dicendo “Sì, sì” alle loro folli idee, nel frattempo ridendo e nutrendo anche il timore che, risucchiato nel loro mondo immaginario, non sarebbe mai stato in grado di trovare una realtà decente, no sarebbe mai diventato un uomo — dunque, se dovessi dirvi questo, che cosa pensereste? Lo so: pensereste che il libro di memorie sia molto meno interessante dei romanzi. E invece non è così: finora è il libro migliore di Antrim».
Vedo che Raimo ama dialogare solo con chi batte le mani, mentre con chi non condivide certe valutazioni evita di approfondire la sua posizione
E’ sempre un rompicapo il destino di un libro. Però ciò che dice Christian è che l’uscita di un libro dovrebbe intanto essere sostenuta (condivisa?) dal suo editore. Questo non accade sempre. Anzi non accade mai. Non accade più. Se avete dimestichezza dei bracci di ferro degli autori coi loro editori, saprete allora che l’editore crede di essere il padre dell’autore (di qui il suo disdicevole paternalismo): in realtà l’editore senza l’autore non esiste: ma questa verità esistenziale che lo riguarda, come direbbe Fitzgerald, non lo riguarda. Eppure l’editore dovrebbe stendere il proprio cappotto di vigogna (se Nesi legge sa di che parlo) sotto le scarpe sporche di cacca di cane pestate dall’autore durante una delle sue passeggiate con il proprio lupo nero (avendo l’autore peraltro, poiché creatura civile, raccolto e cestinato come è buon uso, poco imitato, le di lui, cioè del lupo nero, deiezioni): perlomeno chi cammina col cane a Roma ne pesta di dimensioni qualsivoglia, ce n’è tappeti. Essergli grato, dovrebbe l’editore, all’autore. Invece, protervo com’è, ne fa carne da catalogo. Carne da catalogo, capite? Ce l’ha in catalogo, come un taglio di carne in vetrina, appeso al gancio ferroso per il collo. L’autore, dopo la stampa del libro, scompare all’orizzonte dell’editore: a volte non gli appare all’orizzonte neppure prima della stampa del libro. A volte l’editore rifiuta la stampa perché lui non è uno stampatore o un servo sciocco, lui è un vero intenditore! Sì, ma l’autore è un artista! Cazzo, un artista. Artista, capito? Non artiere! Artista. Ergo pubblicatelo, e poi accompagnatelo nel cammino. Proprio perché aver stampato il libro non è ancora nulla. Dopo averlo stampato, l’editore lo deve far conoscere, ed è lì che si parrà la sua nobilitate, la sua vera adesione al progetto libro. Einaudi ha sposato l’autore? Il responsabile per la narrativa straniera conosce Antrim, di persona dico? Come fa a convivere con l’immagine in testa della sua faccia, e il suono nell’orecchio della sua voce, e non avere il minimo rimorso tutte e volte (molte) che lo tradisce perché non lo sostiene? Come fa il responsabile per la narravtiva straniera di Einaudi a non sentirsi come quelle cacche di cane che pestiamo passeggiando alacremente ciascuno col proprio lupo nero? Come si fa a essere traditori senza increspature nell’anima? Delle facce di cazzo che si riesce a continuare a esibire non parlo neanche.
Aggiungo che ravviso segni di genialità in Massimiliano Governi il quale ha rubato il libro a casa di un amico… Anche Bob Dylan, per la verità da adolescente attempato ancora in cerca di sé come musicista totale in erba (!), andava rubacchiando dischi (qua e là) soprattutto per farli arrivare in mani ben più adeguate: le sue!