Amare contro
di Tina Nastasi
Ci sono pidocchi attorno a me, e muri. Ci sono ginocchia che si incriccano a ogni piè sospinto e occhi pesti e ricuciti per le cadute. Ci sono schiavitù e vecchiaia sotto il mio cielo: maledetto istinto alla sopravvivenza!
Che posso fare? E’ così. E’ la legge delle cose qui sulla Terra.
E però – ché c’è sempre un però da qualche parte -, se davvero potessi dire a cuore aperto quello che penso, allora dovrei dire, necessariamente, che questa legge mi fa uscir di senno dalla rabbia.
Tuttavia – ché c’è sempre un briciolo di strada già percorso – mi avvio ad avere un’incerta età, mi accorgo che questa legge vale per questa cosa che sono io e vale per le cose che mi accadono.
E la legge dice: c’è un inizio e c’è una fine; c’è un tempo per tutte le cose.
Ma allora – ché c’è sempre una mano tesa contro da qualche parte – anche per me cosa c’è un tempo. Forse anche tre. Stiamo a vedere.
Ancorché la rabbia resti. E si accovaccia tra le mie mani. E l’urlo in gola diviene sordo: pesa dall’alto sul mio torace, polmoni e cuore si fanno piccoli piccoli.
Che posso fare contro il dolore?
Le mie mani si sciolgono da culla della rabbia e si chiudono in un pugno a sostenere il cuore. E il respiro prende e va, liberamente.
Adesso l’urlo è di nuovo a portata di mano: la pura energia del dolore sordo. E io l’afferro e ci modello sopra una parola e poi un’altra, ancora una e una ancora.
E’ così che il mio dolore trova la mia voce e si sprigiona: mi cibo di radici e le scaglio contro la legge delle cose qui sulla Terra.
Che altro potrei fare?
Vediamo.
Forse – ché c’è sempre un dubbio nascosto fra i cespugli – posso invitarvi a leggere una lettera. E magari mi scriverete che ve ne pare. Un modo come un altro per perdere questo tempo che ci è dato per nulla. Se vi piace.
Lettera di Nâzım Hikmet a Joyce Lussu:
Cara Joyce,
Mi domandi perché scrivo delle poesie?
Sarebbe più giusto porre la domanda in un altro modo: Perché e come ho cominciato a scrivere delle poesie.
Cerco di ricordare.
Avevo tredici anni. Abitavamo a Istanbul: Mio nonno era poeta, ma ancora oggi non capisco le sue poesie. Il suo linguaggio: scriveva in un turco che si chiama ottomano, ossia formato per il 75 per cento da parole arabe e persiane; anche le regole grammaticali erano arabe e persiane. Le poesie di mio nonno erano dogmatiche, didattiche, religiose. Non le capivo ma ero il nipote di un nonno poeta.
Mia madre era innamorata di Baudelaire e di Lamartine, e li leggeva in francese, perché in quei tempi le traduzioni in turco erano in ottomano, e molto rare. Mia madre conosceva benissimo il francese, ma l’ottomano lo sapeva meno ancora di me.
Mio nonno, Nâzım Paşa, era poeta e apparteneva alla setta dei Mevlevé, dervisci vagabondi che derivavano il loro nome dal poeta Mevlana. Mia madre adorava Lamartine e Baudelaire, e la poesia, a casa nostra, era sugli altari.
Scoppiò un incendio di fronte alla nostra casa. Era la prima volta che vedevo un incendio. Ne fui stupito ed ebbi paura. Mio nonno, affinché l’incendio non arrivasse a casa nostra, si mise in piedi davanti alla finestra, brandendo il Corano aperto. L’incendio si spense, ma non per la forza del Corano, e nemmeno per quella dei pompieri; si spense da solo, dopo aver incenerito la casa che bruciava di fronte a noi. E io, due ore dopo, scrissi la mia prima poesia: L’incendio. Il ritmo della mia poesia imitava quello della metrica chiusa arabo-persiana che si chiama “aruz”: mi è restato nelle orecchie sentendo recitare mio nonno. L’ “aruz” comporta delle cesure obbligate, che però non sono né sillabiche né toniche; non sapevo allora che vi fossero altri ritmi, o che esistessero i versi liberi. Anche il mio linguaggio era un’imitazione dell’ottomano.
Ecco i primi versi
Brucia brucia con terribile fracasso
quel nemico dell’umanità
che stringe fra le braccia
le case le madri gli orfani…
E’ tutto quello che ricordo: sembra quasi che abbia presentito la guerra atomica. E riscrivendo queste righe, mi accorgo tutt’a un tratto che ero influenzato, più che dalla poesia di mio nonno, da quella di Tefik Fikret. Perché? Non lo so. Forse perché mio padre, che di letteratura non capiva nulla, leggeva qualche volta Tefik Fikret, il nostro primo grande poeta umanista, forse anche un po’ socialista utopista: il nostro primo poeta che scrisse versi contro la guerra e contro la religione. Ma scriveva anche lui in ottomano, per quanto un po’ modernizzato.
La mia seconda poesia la scrissi, mi pare, a quattordici anni. C’era la Prima guerra mondiale. Mio zio era caduto ai Dardanelli. Ero molto patriota e scrissi un poema sulla guerra. E’ strano. Ricordo benissimo di aver scritto quella poesia, ma non mi viene in mente un solo verso: Ricordo anche che non era scritta in ottomano, bensì in un turco purificato in parte dalle parole arabe e persiane ma ancora molto impacciato; e che scrivevo sotto l’influsso del poeta Mehmet Emin, il primo che abbia scritto in turco e con metriche tradizionali turche, sillabiche. Mehmet Emin era considerato il poeta del nazionalismo turco.
A sedici anni, credo, scrissi la mia terza poesia. In quell’epoca un altro grande poeta turco dominava la nostra letteratura. Aveva inventato una lingua poetica tutta nuova e si chiamava Yaya Kemal. Penso che fosse innamorato di mia madre: a casa leggevamo le sue poesie e all’accademia navale era il mio professore di storia. La poesia aveva per argomento il gatto di mia sorella. Perché? Ora che ci penso, credo che sentissi il bisogno di approfondire le questioni di forma, e per questo avevo scelto un tema neutro, astratto. Feci vedere la poesia aYaya Kemal, e lui volle vedere il gatto. Era un gattino rognoso, di colore incerto. Il grande poeta mi disse: “Se puoi fare poesia su quella sudicia bestiola, puoi diventare un grande poeta”.
Adesso capisco che si trattava di tutto un modo di concepire la poesia. C’era una differenza così grande tra la realtà e quello che avevo scritto:
Aveva gli occhi verdi come le onde del mare
con i suoi peli bianchi sembrava una palla di neve…
Pubblicai la prima poesia a 17 anni. Era stata corretta largamente da Yaya Kemal. Suonava così:
Ho sentito un lamento sotto i cipressi
mi son chiesto, c’è qualcuno che piange qui?
o è il vento che si ricorda di un amore passato
in quel luogo solitario?
Un tempo pensavo che i morti ridessero
quando le nere cortine cadon sugli occhi
ma ora mi chiedo se i morti che amaron la vita
piangono ancora sotto i cipressi.
Nel linguaggio e nella metrica era, almeno formalmente, una poesia che esprimeva le nuove tendenze.
Poi mi sono innamorato follemente di varie ragazze e ho scritto per loro dei versi; poi le questioni che riguardano la coscienza, l’onore, l’eternità mi hanno interessato e ho scritto su queste cose. Poi gli Alleati occuparono Istanbul, e io scrissi delle poesie contro l’Intesa inneggiando al movimento di liberazione in Anatolia.
A 18 anni passai in Anatolia, scoprii il mio popolo e le sue lotte. Lottava con i suoi cavalli magri, con le sue armi preistoriche, in mezzo alla sua fame e alle sue cimici, contro l’esercito greco sostenuto dagli inglesi e dai francesi. Ero tutto stupito, ebbi paura, lo amai, lo adorai, compresi che bisognava scrivere tutto ciò in un altro modo. Ma non ne fui capace. Per trovare il modo giusto era necessario, a quanto pare, che passassi nell’Unione Sovietica.
Era la fine del 1921. Fui mille volte più stupito, e sentii un amore e un’ammirazione cento volte più forti, perché avevo scoperto, in quel 1921-1922, una carestia cento volte più terribile, e delle cimici cento volte più feroci, e una lotta contro tutto un mondo cento volte più potente, e una immensa speranza, un’immensa gioia di vivere, di creare.
Ho scoperto tutta un’altra umanità.
E cominciai a scrivere in un altro modo.
E da allora, non posso non scrivere delle poesie.
Nâzım Hikmet
Stoccolma, 20 dicembre 1961
da Nâzım Hikmet, Poesie d’amore, trad. di Joyce Lussu, fotografie di Robert Doisneau, Mondatori, Milano 2006, pp. 273-277.
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Grazie.