Strada a senso unico
I diktat della memoria
Guardo un programma alla televisione. Un vecchio signore barbuto, con spessi occhiali da miope, muove lentamente le labbra. Sta raccontando gli «ultimi dieci giorni nel bunker di Hitler».
A quel tempo, «messaggero di guerra e di morte», percorreva in lungo e in largo la città di Berlino. Oggi è un pacifista convinto e sorridente che ha appena pubblicato negli Stati Uniti, riscuotendo un grande successo, la propria autobiografia: L’ultimo postino di Hitler. Tutti lo ascoltano attentamente: lo storico, il filosofo, il medico, lo psicanalista, il testimone (un amico di Eva Braun). Si interrogano sulla personalità «deviata» di Hitler e sulla sua morte «misteriosa». Noto sul volto del protagonista un’eccitazione diabolica. Ho l’impressione che il doveroso compito di ricordare, assunto e ostentato dagli «esperti» che partecipano alla trasmissione, alimenti progressivamente la sua volontà di spogliarsi di un passato ingombro di cadaveri. Come se l’avidità della memoria di quel piccolo gruppo di «specialisti» nutrisse l’avidità del vecchio postino hitleriano di liberarsi del suo fardello affinché l’avidità del grande pubblico del teleschermo possa a sua volta essere soddisfatta grazie a quel ricco pasto di carcasse in cui nel frattempo la Storia si è trasformata.
L’indomani, a Venezia, sfogliando un giornale all’aperto, scopro una grande foto di Hitler. Sorride davanti alla folla. Il titolo dell’articolo è: «Hitler, l’incubo del secolo». In occasione del settantesimo anniversario della presa del potere del Partito nazionalsocialista c’è un’intervista con uno dei suoi biografi. Ha appena pubblicato un libro: La disfatta. Gli ultimi giorni di Hitler e la fine del Terzo Reich. Il giornalista, dopo qualche schermaglia, pone allo studioso la domanda che ha serbato per anni nell’intimo del suo cuore: «Chi inflisse al mondo la ferita più grave: Hitler o Stalin?». Risposta: «Quanto al numero di vittime, sicuramente Stalin […] Ma Hitler rappresenterà per sempre il male per antonomasia, grazie anche alla lugubre scenografia del suo regime: le parate, le feste con il fuoco, le uniformi delle SS».
Nel pomeriggio entro in una libreria. Il settore «Storia» è ingombro di opere dedicate alle dittature del XX secolo. Non c’è posto per gli altri avvenimenti di quel secolo né per gli altri secoli. Il passato si è trasformato in una strada a senso unico: Einbahnstrasse. Vedo almeno tre dizionari del fascismo, cinque esemplari del Libro nero del comunismo, dieci esemplari del Libro rosso del fascismo, una pletora di saggi sulla vita intima di spie naziste e burocrati stalinisti. I volti di Mussolini, di Stalin, ma soprattutto quello, eccitato e sorridente, di Hitler mi spiano da tutte le copertine. Si direbbe che quest’ultimo sia altrettanto celebre che nel 1938, quando un piccolo gruppo di francesi propose di attribuirgli il premio Nobel per la pace.
Il diktat morale della memoria è imposto dovunque dai media, che fanno a gara per non dimenticare Hitler e i suoi crimini. Del resto, è del tutto naturale. I media trattano il passato storico come se fosse il loro regno, ossia l’attualità, e nell’attualità mediatica un fatto per esistere deve trasformarsi in un fatto di cronaca nera, trasformarsi in un fatto delittuoso: tutto ciò che non è criminale tende, nell’attualità, a non esistere. I media, inoltre, hanno bisogno di mostrare il vero volto del Crimine Assoluto, affinché gli abitanti del mondo del crimine odierno non possano credersi troppo sfortunati: «Guardate nello specchio della Storia e non disperatevi troppo: il Crimine Assoluto è alle vostre spalle. Non dimenticatelo».
Ulisse e Calipso a Ostankino
Asar Eppel’, nato nel 1935, è un scrittore russo di origine ebraica. Dopo aver vissuto la lunga stagione sovietica in un anonimato tanto assoluto quanto creatore, ha pubblicato nel 1994 una raccolta di nove novelle, scritte tra 1979 e 1980, con il titolo Via d’erba.
Tutte le novelle hanno come sfondo le vie di Ostankino, una baraccopoli nella periferia di Mosca. Qui, durante gli anni quaranta e cinquanta, un’umanità di «studenti falliti, gentaglia di ogni genere, nonché di persone per bene» sfida le sofferenze dell’epoca. Tutte le novelle si presentano come ricordi. Di più: il ricordo è la loro forma. Del ricordo hanno l’amore scrupoloso per il dettaglio. Ciò non significa che l’autore descriva con pathos la sua infanzia durante la guerra né che la sua immaginazione abbellisca attraverso il filtro della memoria un’adolescenza miserabile. Per Eppel’ ciò che si è perduto non è mai migliore di ciò che con il tempo si è guadagnato. È la legge non elegiaca di ogni arte romanzesca del ricordo.
Nella prima novella un giovane studente incontra l’affascinante compagna di un agente del KGB. Trovare un luogo per fare l’amore è un’impresa. Lo studente si vergogna della propria condizione. Per di più la donna è appena giunta dalla Germania dell’Est con un carico europeo di lingerie e gioielli. Per fortuna c’è zia Dusja, una vecchia che ogni tanto dà la chiave del suo minuscolo alloggio agli amici del «geniale Samson Eseic» (Eseic lo si ritroverà, nelle vesti di fisico, in un’altra novella. L’arte del ricordo vuole che le novelle siano legate fra loro non solo dal luogo dell’azione e dalla presenza del narratore, ma anche dall’apparizione fugace degli stessi motivi e degli stessi personaggi). La coppia finirà sul letto di zia Dusja. Si tratta di una grande fortuna, poiché:
Finire sul bitorzoluto giaciglio di zia Dusja mentre era fuori a fare pulizie in casa d’altri o per i fatti suoi, era una rara fortuna perché chi ha buona memoria si ricorderà senz’altro quale impresa disperata fosse a quei tempi trovare un angolo per portare a termine gli strazianti mezzi incontri iniziati tra i cespugli, dietro ai portoni, sulle panchine, o nei pensionati studenteschi, in attesa che le compagne di camera, eccome!, prima o poi si addormentassero.
Il problema della mancanza di alloggi e la promiscuità endemica della vita sono messe alla berlina grazie a una digressione storica sull’eterno stato di abbandono delle latrine sovietiche:
Come è noto, il nostro popolo tratta i cessi con rara noncuranza e trascuratezza. Disdegnando le più elementari nozioni in materia di mira, alla nostra gente non costa niente lordare il bordo dell’apertura, bagnare il pavimento, lasciare sulla parete l’impronta del dito.
L’amore vince. Ed è un «amore libero», perché in grado di vincere la miseria e la paura dell’epoca (le latrine sporche, le soffiate degli agenti del KGB) e di trascendere la totale assenza di intimità nella quale i due amanti sono costretti a celebrare i loro appuntamenti:
Un incontro senza pudore, o meglio: al di là del pudore, che celebrava con i suoi sommessi singulti la vittoria sulla squallida periferia e sul keghebista, il massimo rappresentante di quello squallore.
Tuttavia questa vittoria non ha nessuna enfasi. Alla fine della novella, lo studente esce dalla baracca e incrocia Nasibullin, «un ragazzotto timido e modesto» che gli annuncia di essere stato a una mostra di quadri proveniente da Dresda: «Sapessi quanti nudi!». La libertà erotica conquistata dal protagonista ha come contrappunto il rossore di Nasibullin. Così come l’assenza di pudore della società sovietica ha come pendant una coppia di amanti clandestini che immaginano di vivere su un’isola
dove si regna in due e dove il pellegrino Ulisse, calpestando umide spiagge, dirige i propri passi verso la chioma languida e arruffata di Calipso.
Il presente che sempre si nasconde nel passato
Eppel’ mette a nudo la realtà, ne scopre il ventaglio comico, senza spingersi mai fino al sarcasmo. Inoltre, ciò che ho chiamato la sua arte del ricordo non dimentica mai di far coesistere il passato e il presente. O meglio, di svelare il presente che sempre si nasconde nel passato.
In un’altra novella i nazisti avanzano verso Mosca. D’un tratto, in periferia, gli adulti cominciano a sparire. Gli aerei cadono come uccelli. L’esercito russo fa fuoco giorno e notte. Ma gli adolescenti, compreso il protagonista, si dedicano alla loro attività preferita: lanciare vasetti di senape contro la fontana pubblica:
A parte il fatto che per il suo color cacarella la senape fa morire dal ridere, essa ha un odore appetitoso e forte e la puoi lanciare per ore senza che i grandi ti dicano niente. E poi i vasetti di senape non scarseggiano mai.
Il narratore, un ragazzo, è a sua volta creato da un narratore onnisciente che, grazie alle digressioni e alle meditazioni ludiche, può spostarsi facilmente nel tempo, essere contemporaneamente nel passato (attraverso la descrizione degli avvenimenti) e nel nostro presente di lettori (attraverso l’uso di una voce parallela). L’autore è in grado di stratificare i tempi del presente e di non sublimarne nessuno. Anzi, riesce a metterli in scena. In questo modo la scena romanzesca mostra le sue quinte, tanto che le briciole di felicità vissuta dagli adolescenti non cancellano affatto la nostra triste percezione dell’epoca:
Considerato con il senno di poi, si arriva alla conclusione che quello strano passatempo dei ragazzi, che odorava di senape e di limpide giornate autunnali, non era ostacolato dai grandi perché quest’ultimi non c’erano.
La posterità degli anni ottanta e novanta del XX secolo, l’umanità dell’«età del bronzo» – come viene chiamata nel libro – può dirsi veramente affrancata da quella degli anni quaranta e cinquanta, dai «trogloditi dell’età della pietra»? Risposta di Eppel: il solo modo per l’uomo dell’età del bronzo di non ritornare ad essere un troglodita dell’età della pietra consiste nel non criminalizzare tutto il suo passato, nel non farne una strada a senso unico, nel non dimenticare l’amore inveterato che gli individui hanno serbato nei confronti dell’esistenza, anche nelle condizioni più penose. Solo così si comprende la bellezza dei vasetti di senape scagliati contro la fontana pubblica da un gruppo di adolescenti che si annoiano, mentre il mondo va in frantumi. È la bellezza del presente ordinario incastonato come un diamante nelle nefandezze del passato e della guerra.
Bello, mi piace molto la frase conclusiva, che dice una realtà spesso non visibile. Il libro di Eppel’ è stato riedito da Einaudi nel 2002.
“…non dimenticare l’amore inveterato che gli individui hanno serbato nei confronti dell’esistenza, anche nelle condizioni più penose” è un’operazioe alchemica piuttosto critica.
Kundera sostiene che Kafka ce l’abbia indicata più volte.
“Creare un’immagine estremamente poetica del mondo estremamente apoetico… voglio dire: mediante la sua immensa fantasia di poeta Kafka ha trasformato, riplasmato questo mondo pur non modificandone l’essenza né il carattere apoetico.
K. è totalmente assorbito dal processo che gli è stato imposto e non ha tempo di pensare a nient’altro. Anche in questa situazione senza uscita ci sono tuttavia delle finestre che si aprono all’improvviso, per un breve istante. Da queste finestre, che si socchiudono solo per richiudersi subito, K. non può fuggire, ma può almeno vedere, per un attimo, la poesia del mondo di fuori, quella poesia che esiste malgrado tutto come possibilità sempre presente e che riverbera nella sua vita di uomo braccato un piccolo riflesso argenteo.” (I testamenti traditi, Milano 1994)
La bellezza del presente ordinario incastonato come un diamante nelle nefandezze del passato e della guerra è anche e soprattutto la bellezza del presente ordinario incastonato nelle nefandezze del presente. Il novecento non è mai finito. Il fatto che tutti vogliano oggi mangiare il corpo di Hitler e Stalin ne è prova alquanto lugubre.
Mi soffermo solo su uno dei tanti temi toccati da post.
(Eppel’ viene senz’altro voglia di andarselo a comprare).
L’abbinamento Hitler/Stalin è un classico dell’attuale Pensiero Unico, direi che ne costituisce uno dei pilastri fondamentali.
È la mancanza di distinzione storica tra due figure e due regimi di origine e natura molto diverse tra loro, dagli esiti entrambi sicuramente tragici, ma anch’essi molto diversi: un esito esplosivo/auto-annientante, quello del nazismo; un esito e implosivo/auto-corrosivo quella del comunismo.
Il giudizio politico, che è sempre legato al presente, uccide il giudizio storico, che fa parte dell’ambito ambito di scienza e conoscenza.
Per esempio lo schiacciamento del fenomeno nazista sulla figura di Hitler (bella la notazione “il Crimine Assoluto è alle vostre spalle. Non dimenticatelo”) è anch’esso un’operazione ideologico religiosa, che somiglia molto all’invenzione della figura di Satana allo scopo di giustificare l’esistenza del farsi del male tra umani (non suo la parola male, o Male, perché fuorviante), che un dio infinitamente buono avrebbe potuto anche evitare.
Tutto questo mi fa senso, ma talvolta ho notato che la semplificazione storica ad uso politico non è assente nemmeno qui, in N.I.
Il “Crimine assoluto” (nazista), sorta di apoteosi insuperabile della cronaca nera mondiale, che fa da sfondo alla cronaca nera quotidiana e locale. E non si esce da questo gioco di figura e sfondo costante: un eterno Hitler e il pirata della strada del giorno. (O se ne esce col romanzo…)
(Bel post)
L’unica cosa che manca a questo bel pezzo, è il nome di chi l’ha scritto, all’inizio.