Considerazioni a margine di Umbria Jazz – 1
Non so quanti di voi sono mai stati a Umbria Jazz.
Comunque, ne avrete sentito parlare, dato che è una delle poche occasioni, per non dire l’unica, in cui si parla di jazz sui canali tv nazionali e al di fuori della stampa specializzata. Perché ormai Umbria Jazz è un enorme carrozzone mediatico, oltre che un colossale giro d’affari, che per dieci giorni riversa nel sonnolento capoluogo umbro una fiumana di turisti. Quindi ha tutte le caratteristiche necessarie a scardinare la tetragona indifferenza delle nostre reti d’informazione.
Io, che sono perugino d’adozione, lo seguo ormai da una quindicina d’anni, e da qualche edizione a questa parte anche professionalmente, come inviato di una rivista del settore. Ma non è di Umbria Jazz che voglio parlarvi. O almeno, non proprio.
Vorrei cominciare con un aneddoto. Ero all’Arena Santa Giuliana, uno dei palcoscenici principali del festival. Quella sera suonava il quintetto di Enrico Rava.
Enrico Rava, per chi non lo conosce, è uno dei guru del jazz italiano. Sessantotto anni, trombettista, è uno che la storia del jazz l’ha fatta in prima persona, ha suonato con tutti i grandi, ha vissuto a New York negli anni ’60 quando stava nascendo il free jazz, ha partecipato a opere storiche come Escalator over the hill di Carla Bley, e ancor oggi, dopo quarantacinque anni di carriera, è dritto come una roccia, più giovane di tanti giovani, e suona con un gruppo dove il musicista più anziano ha vent’anni meno di lui.
Il concerto era una meraviglia: Rava e il suo trombonista, Gianluca Petrella, facevano letteralmente faville. Solo che un paio di file dietro di me c’erano due ragazze che ridevano a squarciagola. Rava faceva un acuto e loro ridevano. Petrella cavava dal trombone dei growls ellingtoniani e loro si scompisciavano. La ritmica swingava come un treno e loro giù a spanciarsi. Una delle due, attrezzata con un formidabile accento calabrese, continuava a chiedersi per tutto il concerto “ma ccheccos’èèèè questa muuuuusicaaa? ma che stanno facèèèndo? ma qualcuno me lo spièèèèga che stanno facendo? ma che èèè sta ròòòòbba?”.
Ora, c’era una domanda che avrei voluto farle – e che non le ho fatto perché in quel momento se mi fossi avvicinato a lei non sarei stato padrone delle mie azioni – e la domanda era: perché era lì? Perché aveva sborsato i soldi di un biglietto salatissimo per venire a sentire qualcosa di cui, chiaramente, non le importava nulla?
Insomma, ciò di cui vorrei parlarvi è in realtà una domanda. Ma chi lo ascolta, oggi, il jazz, o il gezz, o il giaaas che dir si voglia?
Ora, Umbria Jazz come ho già detto è ormai un circo mediatico, e chiunque si trovi a Perugia partecipa, in un modo o nell’altro. Quindi è probabile che qualcuno avesse detto a quella ragazza che Rava era uno da andare a sentire, e lei c’è andata. Probabilmente non ci tornerà più. Pazienza: càpita.
Il problema che mi pongo è un po’ diverso: in generale, a chi si rivolgono i jazzisti quando suonano? Chi va a sentire i loro concerti? Chi compra i loro dischi?
Beh, innanzi tutto poche persone, e questo penso sia scontato.
Poi, basandomi sulle mie esperienze di concerti e festival, direi: perlopiù maschi (“le donne odiavano il jazz”, lo diceva anche Paolo Conte) e perlopiù persone con una certa preparazione musicale di base.
E in maggioranza bianchi. Vi pare strano? Eppure io ho vissuto per un paio di mesi a New York, sono stato più volte nei principali locali di jazz, a qualche festival, e anche all’inaugurazione del nuovo, lussuosissimo Jazz at Lincoln Center, e vi posso dire che il 90% del pubblico era fatto di bianchi. I pochi neri presenti erano quasi tutti musicisti. E in stragrande maggioranza, bianchi e neri, erano gente di classe sociale medio-alta. Insomma, a New York chi ascolta il jazz è più probabile che abbia un appartamento nell’Upper East Side o a Park Slope, piuttosto che in un condominio del Queens. Lo stesso, più o meno, vale un po’ ovunque.
Che cosa voglio dire? Che il jazz è nato nei bassifondi e poi si è rifatto l’abito nuovo? che si è “snaturato”? “imborghesito”? “rammollito”? No, no di certo.
Piuttosto, vorrei chiedermi il perché. Perché il pubblico è questo, e perché, in generale, uno ascolta jazz.
Ovviamente, non c’è un’unica risposta.
Innanzi tutto, il jazz ormai si è globalizzato. Ad esempio esiste – e non da ora, ma da almeno una trentina d’anni – un jazz europeo, che in realtà è la somma di tanti jazz: italiano, francese, tedesco, scandinavo, ognuno con le sue caratteristiche. Quindi è ovvio che non è più una musica legata soltanto alla cultura urbana nera degli Stati Uniti: si ascolta jazz in paesi con storia, cultura, composizione demografica profondamente diverse.
Poi c’è il fatto che il jazz ha subito, dalle sue origini ad oggi, profondi cambiamenti nella sua immagine percepita. Con una semplificazione brutale, si può dire che il jazz è passato da esotica bizzarria (più o meno affascinante o più o meno scandalosa, a seconda dei punti di vista) a parte dello show business e infine a forma d’arte riconosciuta come tale (anche se non sono sicuro che quest’ultimo processo si sia ancora del tutto compiuto, a sentire certe cose che girano nei conservatori: ma questa è un’altra storia).
Attenzione: sto parlando di come il jazz veniva percepito, non di che cosa era o è. Perché arte, lo è stato fin dall’inizio: e se non sono arte West End Blues di Armstrong, Creole Love Call di Ellington o King Porter Stomp di Jelly Roll Morton, allora io non ho capito che cos’è l’arte.
Il jazz così come lo conosciamo è nato, senza alcun dubbio, a New Orleans, tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del nuovo secolo. Ma chi erano i primi musicisti? Il luogo comune vorrebbe che fossero poveri negretti analfabeti appena usciti dalle piantagioni di cotone, che prendevano in mano la cornetta e, hoplà, ti sprizzavano fuori questa musica meravigliosa. Puro istinto. Cuore. Hanno il ritmo nel sangue, loro. Niente di più falso.
Innanzi tutto New Orleans era un crogiolo di razze, dove si incrociavano afroamericani, mulatti, creoli, discendenti di francesi e spagnoli, haitiani (è da Haiti che arrivò il voodoo), caraibici, per non parlare degli immigrati europei. Il jazz fu una fusione di tutto ciò, con una prevalente impronta nera.
Poi, basta leggere una delle autobiografie di Armstrong (ad esempio Satchmo. La mia vita a New Orleans, tradotta un paio d’anni fa da Minimum Fax) per capire che a New Orleans c’era di tutto, quanto a musicisti: da quelli che a malapena sapevano tenere uno strumento in mano fino a gente (i creoli, soprattutto) che aveva studiato con i migliori maestri, conosceva a fondo la musica classica e frequentava l’opera (la French Opera House di New Orleans, poi bruciata nel 1919, era uno dei teatri più importanti d’America).
Lo stesso Armstrong era un appassionato di melodramma, infarciva i suoi assolo di citazioni operistiche e sapeva leggere e scrivere la musica, checché ne dica il luogo comune. È lui stesso a raccontare che, quando fu assunto nell’orchestra di Fate Marable, si mise a studiare solfeggio, perché il leader pretendeva che si leggessero gli arrangiamenti a prima vista; di molti assolo di Armstrong si sono trovate le partiture, scritte di suo pugno e registrate al copyright prima dell’incisione.
E allora, perché lo stesso Armstrong dichiarò sempre di non saper leggere la musica (“le note scritte sono cacche di mosca”, secondo una sua famosa frase)? Per la stessa ragione per cui continuò per tutta la carriera a fare sorrisini, smorfie e faccette da “bovero negro”. Perché il pubblico lo voleva così. Voleva il “bovero negro” che improvvisava senza sapere che faceva. Per esempio guardate qui: http://it.youtube.com/watch?v=5WQeKJT86lo. È un soundie (l’antenato dei video musicali) del ’32, in cui il povero Louis canta You Rascal You travestito da improbabile re dei cannibali.
(Sia chiaro che non sto dando un giudizio: Armstrong fece quello che, all’epoca, un uomo di colore poteva fare. Anzi, fu uno dei primi artisti afroamericani a raggiungere un’amplissima notorietà al di fuori del pubblico dei “race records”, come si chiamavano all’epoca le incisioni, perlopiù di blues, destinate al pubblico nero.)
Insomma, il punto è che il pubblico bianco andava a sentire il jazz affascinato dal suo vigore primordiale, oppure lo additava allo sdegno dei benpensanti. Oppure lodava la sontuosa orchestra di Paul Whiteman e gli esperimenti sinfonici di Gershwin, per aver nobilitato e reso arte questa musica rozza e primitiva.
Poi venne la “swing craze”, e tra fine anni ’30 e primi anni ’40 tutti ballavano il jazz. Peccato che il bianco Benny Goodman (peraltro grande artista e uomo di notevole coraggio e apertura mentale: fu il primo a suonare in un gruppo misto con musicisti bianchi e neri) venisse incoronato “re del jazz”, mentre i musicisti neri dovevano entrare nei locali passando dalla cucina. I locali per i bianchi e quelli per i neri erano rigidamente segregati. Pure, il jazz era ancora parte dell’industria dell’entertainment, i dischi vendevano centinaia di migliaia di copie, e fu sulle note di In the Mood di Glenn Miller che i soldati americani sbarcarono in Europa.
(continua)
[immagine tratta da http://www.doctorjazz.co.uk/index.html]
Amo il jazz e sono una donna, amo il jazz, musica di dolcezza, sensualità della anca. Amo il jazz, l’erotismo della musica lenta, la nostalgia anni 50, amo il gesto lento di serpiente del trombettista, il soffio, l’ambiente azzuro, scuro della strada, l’ambiente malva dei cafés.
Amo il jazz e questo articolo molto preciso che da una nota sensuale alla mattina.
adoro il jazz…
Bravo Sergio per questo bel pezzo che racconta e al tempo stesso pone della domande. Non c’è dubbio che il jazz nasce come black music ma i bianchi americani se ne sono appropriati (anche molto recentemente, ricordo per esempio i Lounge Lizard). Ora mi sembra una musica senza una identità sociale precisa (i neri giovani do oggi magari ascoltano il rap).
Aspetto il seguito Sergio!
Con ansia ad attendere il Continua.
Come nota biografica: io sono donna e ascolto e amo e sogno e suon(av)o visceralmente di jazz. Ma in effetti, amiche con cui andarlo ad ascoltare, poche pochissime.
Forse è «élitario» la parola che l’autore stava cercando…
L’élitarizzazione di forme artistiche inizialmente popolari è un percorso evolutivo abbastanza comune, direi.
la seconda parte esce giovedì.
Ciao Sergio,
ho letto con interesse l’articolo e lo trovo stimolante per varie ragioni.
Credo, però, che la leggenda del jazz nato a New Orleans vada un pò sfatata o quanto meno ridimensionata. Senz’anltro è stato il centro più importante per la diffusione del jazz, ma probabilmente la musica suonata a New Orleans non era molto diversa da quella suonata in altre città degli Stati Uniti.
Bellissimo il quadretto delle 2 ragazze che si sorprendono delle stranezze di Rava e Petrella, e sottolineo “sorprendono” poichè probabilmente le stesse 2 ragazze non avrebbero provato tanto stupore di fronte, per esempio, ad un quadro di Kandinsky, magari l’avrebbero giudicato bruttu o addirittura bello ma senza troppa meraviglia (sottolineando il fatto che al momento i musicisti sopracitati non fanno una musica particolarmente “astratta”).
Ovviamente qui il problema è che la cultura musicale (in senso lato) nel nostro paese, e non solo, rasenta praticamente lo zero, per non parlare nello specifico della cultura musicale afro-americana.
Vorrei aggiungere che il jazz ha sempre goduto di una maggioranza di pubblico bianco, fin dai tempi dei minstrels show per chiari motivi razziali, a quando veniva suonato nelle case di piacere di New Orleans; oggi credo che il pubblico sia molto più vario di quanto accenni nel tuo articolo: molto sono i tipi di jazz, gli ambienti e le tipologie di persone. Il target da te descritto forse rispecchia il pubblico di un certo tipo di jazz suonato in certi luoghi.
Un ultima annotazione a proposito di coloro che hanno una “preparazione musicale di base”; per esperienza personale le persone con maggior senso critico e apertura mentale le ho trovate fra quelli che non hanno una conoscenza musicale di base, se per questa si intende saper suonare uno strumento. Cartesio per sua ammissione era totalmente negato per la musica e non sapeva suonare nessun strumento, ma probabilmente è stato uno dei più importanti filosofi musicali della nostra storia…. purtroppo se un tempo erano i musicisti a mangiare in cucina con la servitù, e i filosofi della musica erano gli ospiti più ambiti, oggi si sono invertite le parti!!!! si pensa che solo per il fatto di saper suonare uno strumento una persona sia per forza miglior intenditore. Un buon musicista può essere un cattivo critico e un buon critico cattivo musicista, le due cose non credo siano per forza correlate.
Un saluto,
Giacomo
Grazie a tutti per le osservazioni.
Ovviamente su alcuni punti (tipo New Orleans) ho preferito tirare un po’ via, perché il target dell’articolo non era troppo “tecnico” e non volevo appesantire il discorso.
Per quanto riguarda la “preparazione musicale di base”, non intendevo necessariamente il suonare uno strumento o leggere la musica, ma avere una certa cultura generale, ascoltare, interessarsi. Insomma, andare un po’ più in là di MTV e delle classifiche di musica leggera. Cosa, purtroppo, rarissima in Italia, a giudicare da quello che ascolta il 90% dei miei alunni del liceo…
Fra parentesi, per quanto riguarda sia la cultura musicale sia le donne, una delle più grandi intenditrici di jazz che conosco è una donna, carissima amica, che non saprebbe distinguere una semicroma da una bicicletta, ma che capisce di jazz quanto e più di me. Ma mi pare che il discorso generale resti valido.
Per quanto riguarda il tipo di pubblico a cui pensavo, sì, è quello del “jazz-jazz”, per così dire, insomma del “mainstream”. Se leggerete la seconda parte, a un certo punto lo dico: dopo gli anni ’60-’70 il jazz è diventato molto vario, e di sicuro il pubblico di Diana Krall è diverso da quello di Cecil Taylor o dei Lounge Lizards.
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