Nazim e John, II
[seconda parte di questo a. s.]
di Tina Nastasi
(installazione di Juan Muñoz, figura in ascolto, 1991)
Un postino tra due uomini che non ci sono più
La storia continua attraverso prigioni e speranze strette tra i denti.
Quest’estate ho voluto visitare la Risiera di San Sabba, a Trieste. Malgrado l’obiettivo fotografico, ho dovuto diventare pietra davanti a una piccola teca murata. Custodiva un paio di occhialetti rotondi e un portacipria d’argento: né lenti, né specchi per i subumani. In quel mausoleo dello sterminio (ma che c’entra poi: lì si custodiva il riso!), “fatto di mattoni e silenzio”, né finestre né spifferi, benevoli e messaggeri di qualche mutamento.
Eppure … eppure, anche di quel presente inesorabilmente votato alla morte, qualche segno silente è rimasto sui muri, primitivo nel tratto permesso da un raro strumento di fortuna, ma degno di un essere umano che morde e stringe la speranza tra i denti e oltrepassa “i limiti della propria reclusione”. Perché? Forse per “sopravvivere alla notte” e “immaginare un nuovo giorno”.
“Una persona con la speranza tra i denti – dice John – è un fratello o una sorella che incute rispetto”. E scrive a Nazim come si scrive a un fratello. E scrive a Nazim di Juan Muñoz, un altro fratello incontrato per la strada.
Leggo su Wikipedia cosa si dice di Juan. Era uno che nel corso di un programma radiofonico inedito (Third Ear, 1992) sosteneva che esistono due cose impossibili da rappresentare, il presente e la morte: si può giungere ad esse solo per assenza.
Juan era il secondo di sette fratelli ed era un artista, profondamente. Si dice che abbia prodotto opere di carattere narrativo rompendo con i canoni della scultura tradizionale. Si dice che le sue installazioni spesso invitino lo spettatore a entrare in gioco con esse, e, dimenticando di sentirsi muto testimone, a farne parte con leggerezza.
Nel 1997 Juan e John realizzano una pièce teatrale il cui titolo suona così: Will it be a Likeness? Dura solo 45 minuti.
Juan è morto. Per John anche il giorno può sembrare una lunga notte. E bisogna attraversarla per sopravvivere. E quella notte somiglia, terribilmente somiglia, a una prigione. E allora la poesia e la memoria sono le uniche amiche: allargano le braccia della nostra mente e la portano lontana, altrove.
John scrive a Nazim di Juan: “solo un postino tra due uomini che non ci sono più”.
Ecco il seguito, sempre da (1).
Giovedì sera.
Dieci anni fa mi trovavo a Istanbul, nei pressi della stazioni di Haydar Pascià, davanti a un edificio in cui la polizia interrogava le persone sospette. I prigionieri politici li tenevano all’ultimo piano, dove a volte li interrogavano per settimane. Nel 1938 toccò a Hikmet.
L’edificio, che non era stato progettato per essere un carcere ma un’enorme fortezza amministrativa, sembrava indistruttibile ed era fatto di mattoni e silenzio. Le prigioni vere hanno un’aria sinistra e spesso trasmettono una sensazione di inquietudine e provvisorietà. Per esempio il carcere di Bursa, dove Hikmet rimase dieci anni, era soprannominato “l’aeroplano di pietra”, per via della sua pianta irregolare. La maestosa fortezza che stavo osservando, vicino alla stazione di Istanbul, aveva invece tutta la sicurezza e la calma di un monumento al silenzio.
Chiunque sia rinchiuso qui dentro e qualunque cosa accada tra queste mura – annunciava il palazzo in toni misurati – sarà dimenticato, cancellato dai registi, sepolto nella spaccatura tra Europa e Asia.
È stato allora che ho capito qualcosa della strategia unica e inevitabile della poesia di Nazim Hikmet: doveva superare di continuo i limiti della propria reclusione! I prigionieri hanno sempre sognato la Grande Fuga, la poesia di Hikmet no. La poesia, prima di cominciare, collocava la prigione come come un puntino sulla mappa del mondo.
Il mare più bello
non è stato ancora traversato.
Il bambino più bello
non è ancora cresciuto.
I nostri giorni più belli
non li abbiamo ancora vissuti.
E le parole più belle che volevo dirti
non le ho ancora dette.
Ci hanno presi prigionieri,
ci hanno rinchiusi:
io fra quattro mura,
tu fuori.
Ma non fa nulla.
Il peggio
è quando – consapevoli o ignari –
portiamo la prigione dentro di noi …
In troppi sono stati costretti a farlo,
brava gente, laboriosa, onesta,
che meritava di essere amata come io amo te. (2)
La sua poesia, come un compasso, tracciava dei cerchi, a volte intimi, a volte ampi e globali: solo la sua punta affilata era conficcata nella cella della prigione.
Venerdì mattina.
Una volta ho aspettato Juan Muñoz in un albergo di Madrid. era in ritardo perché quando la notte lavorava molto perdeva la nozione del tempo. Quando finalmente è arrivato, gli ho detto scherzando che era come un meccanico sdraiato sotto una macchina: vedeva solo il lavoro e nient’altro. Qualche tempo dopo mi ha mandato un fax divertente che voglio leggerti, Nazim. Non so bene perché lo faccio. Forse il perché non è affar mio. Sono solo un postino tra due uomini che non ci sono più.
“Vorrei presentarmi: sono un meccanico spagnolo (solo d’auto, non di motociclette), che passa quasi tutto il suo tempo disteso sulla schiena ad armeggiare con i motori! Ma – e questo è l’importante – di tanto in tanto faccio un lavoro artistico. Non che io sia un’artista. No. Ma mi piacerebbe smetterla con questa assurdità di strisciare dentro e sotto macchine unte di grasso, e diventare il Keith Richard del mondo dell’arte. O, se questo non è possibile, vorrei lavorare come i preti, mezz’ora al giorno, vino compreso.
Ti scrivo perché due amici (uno a Oporto e l’altro a Rotterdam) ci vogliono invitare tutti e due nel seminterrato del Boyman’s Car museum e in altre cantine (spero più alcoliche) nella città vecchia di Oporto.
Hanno anche detto qualcosa che non ho ben capito a proposito di paesaggio. Paesaggio! Mi sembra che c’entrassero un viaggio in macchina e il guardarsi attorno, o il guardarsi attorno andandocene in macchina …
Spiacente signore, ma è appena arrivato un cliente. Perbacco! Una Triumph Spitfire!”.
Sento la risata di Juan, che riecheggia nello studio dove è solo con le sue figure silenziose.
Venerdì sera.
A volte ho l’impressione che molte delle più grandi poesie del Novecento – scritte da donne non meno che da uomini – siano le più fraterne della storia. E questo non ha nulla a che vedere con gli slogan politici. Vale per Rilke che era apolitico, per Borges che era un reazionario, e per Hikmet, che fu comunista per tutta la vita. Il nostro è stato un secolo di massacri mai visti, eppure il futuro che immaginava (e per cui a volte ha combattuto) prometteva la fratellanza. Pochi secoli in passato hanno avuto una prospettiva simile.
Questi uomini, Dino,
che hanno in mano brandelli di luce,
dove stanno andando
nelle tenebre, Dino?
Anche tu, anch’io, Dino,
siamo tra loro.
Anche noi, Dino,
abbiamo intravisto il cielo azzurro. (3)
Sabato.
Forse, Nazim, non ti vedo neanche adesso. Eppure, giurerei che sei qui. Seduto di fronte a me, dall’altra parte del tavolo, sulla veranda. Hai mai notato come spesso la forma di una testa suggerisca il tipo di pensieri che di solito la attraversano? Ci sono teste che indicano implacabilmente la velocità del calcolo, altre che si ostinano a seguire vecchie idee. Di questi tempi molte tradiscono l’incomprensione di fronte a una perdita continua. La tua testa, la sua dimensione e i tuoi stretti occhi azzurri mi fanno pensare che al suo interno ci siano molti mondi con cieli diversi, uno dentro l’altro: è una testa rassicurante, calma, ma abituata al sovraffollamento.
Vorrei chiederti cosa pensi dei tempi in cui viviamo. Gran parte di ciò che credevi stesse avvenendo nella storia, o che dovesse avvenire, si è rivelato un’illusione. Il socialismo come lo immaginavi tu non lo costruiscono da nessuna parte. Il capitalismo delle multinazionali avanza imperterrito, nonostante le contestazioni sempre più accese e la distruzione delle torri del World Trade Center. Questo mondo sovrappopolato diventa ogni anno più povero. Dov’è, oggi, il cielo azzurro che hai visto con Dino?
Sì, risponderai, quelle speranze sono andate in fumo, ma cambia forse qualcosa? La giustizia continua a essere una preghiera di una sola parola, come adesso canta Ziggy Marley. La storia non è altro che un insieme di speranze alimentate, perse, rinnovate. E con le nuove speranze nascono teorie nuove. Ma per chi è vittima della sovrappopolazione, per chi ha poco o nulla, se non qualche volta il coraggio e l’amore, la speranza agisce in modo diverso. La speranza diventa qualcosa da mordere, da mettere tra i denti. Non dimenticarlo, Sii realista. Con la speranza tra i denti, si ha la forza di tirare avanti anche quando la fatica non dà tregua, si ha la forza, se necessario, di trattenersi dal gridare al momento sbagliato, la forza soprattutto di non urlare. Una persona con la speranza tra i denti è un fratello o una sorella che incute rispetto. Chi non ha speranza nel mondo reale è condannato alla solitudine. Il massimo che può offrire è la pietà. E poco importa che questa speranza tra i denti sia intatta o ridotta a brandelli, quando si tratta di sopravvivere alla notte e di immaginare un nuovo giorno. Hai un po’ di caffé?
Vado a prepararlo.
Lascio la veranda. Quando torno dalla cucina con due tazze in mano – di caffé turco – te ne sei andato. Sul tavolo, molto vicino al punto in cui è appiccicato il nastro adesivo, c’è un libro, aperto alla pagina di una poesia che hai scritto nel 1962:
Se fossi platano, riposerei alla sua ombra
se fossi libro
leggerei, senza annoiarmi, nelle notti d’insonnia
matita non vorrei esserlo, neppure tra le mie stesse dita
se fossi porta
mi aprirei ai buoni e mi chiuderei ai malvagi
se fossi finestra, una finestra spalancata, senza tende
porterei la città nella mia stanza
se fossi parola
invocherei il bello, il giusto, il vero
se fossi parola
direi il mio amore in un sospiro. (4)
(gennaio 2002)
Note:
1 John Berger, Abbi cara ogni cosa. Scritti politici 2001-2007, traduzione e cura di Maria Nadotti, Fusi orari, I libri di Internazionale, 2007, pp. 28-35.
2. Nazim Hikmet, 9-10 pm. Poems, traduzione inglese di Randy Blasing e Mutlu Konuk, Persea Books, Londra, 1994
3. Nazim Hikmet, On a Painting by Abidine, Entitled “The Long March”, traduzione inglese di John Berger
4. Nazim Hikmet, Under the Rain, traduzione inglese di Özen Ozüner e John Berger
scrittura dolorosa, come l’ascolto, quando attraversa un muro.