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Ci sono città con i fiumi

letino.jpg di Davide Vargas

aprile 2007

Dalla superstrada che in quel punto curva si vede il lungo filare di pini teso come una tangente.
Vado a vedere.
I tronchi spuntano dritti come menhir dalle malerbe che infestano i cigli. Le chiome si congiungono. Cammino sotto un tetto di nuvole verdi che si sfilacciano di tanto in tanto scoprendo omologhi addensamenti violacei.
Il cielo è carico di elettricità. Pioverà.
Da un lato un canale d’acqua irreggimentato tra sponde di cemento. Dall’altro un rigagnolo inciso in un tappeto d’erba che precipita in basso.
E’ bello il posto. Come un viale che percorre antiche mura.
Le chiome si specchiano e scoloriscono in un grigio melmoso.
Qui da noi la bellezza deve lottare con la controparte. Un marcantonio grosso che tira cazzotti che fanno un male boia. Fino a uccidere. Allora la bellezza finge di soccombere per acquattarsi dolorante tra le pieghe in attesa. E’ pur sempre una salvezza.
Mentre trattiene il respiro, perde il suo nome.
Si chiamerà, chissà, tregua. O ribellione. O disperazione bianca.
E se smuovendo la crosta la chiamerai bellezza, ti guarderà con lo sguardo appannato di chi è sfinito dal ribattere. Non dirà una parola. Neanche la speranza di essere riconosciuta per ciò che tace. Fino a farti sentire in colpa.
E pensi che bisognerà cambiare nome a tutte le cose. O restituirglielo.
Una puzza di marcio che brucia ogni resistenza umana sale dal canale e occupa il luogo. Immorale come la pornografia.
Vado avanti. Le sponde di cemento racchiudono l’acqua facendola marcire come in una prigione. Il canale va dritto in una processione di melma e si perde lontano. Il rigagnolo scompare sotto il dominio delle erbe. Come un fiume sotterraneo senza nome che irrigua il suolo dei propri miasmi.
Un edificio rosso è ridotto alla carcassa di un depuratore. Una vecchia aspetta sulla soglia. Il volto di legno racconta una nostalgia lontana di secoli. Stanca. Consumata. Quando bambina nell’aia salutava uomini con i gambali di cuoio e il fucile a tracolla scendere da cavallo e bere caffè di cicoria.
Stringe uno stecco in una mano, bianco come un osso. Poi lo posa su una panca. Ha intorno al collo una collana di perle candide che rilucono.
Altri tempi, qui c’erano le vasche della canapa e le nonne immergevano i bambini nell’acqua fetida per rinforzarli. Una usanza che mi racconta prima di premere un fazzoletto sul naso.
Ha un senso questa vecchia qui. Come un’apparizione, per dirmi cosa. Un presagio. Indica un punto.
Mi guardo intorno. Non ci sono altri esseri umani, espulsi dalle spire di tutti i luoghi sacrificati. Lontano oltre un improbabile cavalcavia che si immobilizza nel cielo come il dorso inarcato di un animale – non si capisce che cosa scavalchi – vedo una masseria. La masseria della lupara, dice la vecchia, me la stanno portando via. Pezzo pezzo, si vede ancora un fasto antico, pietra dopo pietra, fregio, dopo fregio, affogata in uno spiazzo di fango sotto la violenza di avvoltoi.
In un recinto ciondolano poche indolenti bufale nere.
La puzza è asfissiante. Disumana. Guardo l’acqua. Si ravviva in tragici gorghi ad ogni scarico laterale. Come affluenti di un fiume.
Ci sono luoghi con i fiumi.
Davanti a un fiume ogni uomo ha sognato di navigare per andare lontano. Ha guardato all’altra sponda come alla possibilità di un’ esistenza diversa. Ha visto scorrere tutte le opportunità sfumate. Ogni uomo che volesse conoscere se stesso ha pensato di discendere un fiume. Verso un punto nomade. Ogni uomo ha cercato di sentire verso sera nel silenzio del sartiame arrotolato sul peschereccio la voce del viaggio, degli approdi, degli angiporti, degli antipodi, del mare infine.
Ogni uomo ha creduto di poter tagliare i ponti.
Ci sono città con i fiumi. E trattengono nell’aria tra i comignoli delle case e gli alberi delle barche le fitte inquiete della partenza. E gli uomini abitano nella trama dell’avventura.
Sognano un giorno di rifondare.
Ci sono acque che non fanno sognare.
Mi guardo ancora intorno. Vedo palazzi, strade, un campanile, una stazione, l’orologio sulla porta, un barbiere. Vedo i lampioni che si accendono quando le ombre si allungano, i ragazzi che rompono in terra le bottiglie di birra. Vedo facciate ingrigite dove erano i pini. Vicoli e insegne. Edicole e botteghe. Tufi e piperni. Intonaci screpolati. E’ la mia città. Vituperata. Riconosco la puzza dei cumuli di spazzatura che conquistano metro dopo metro strade piazze angoli slarghi, come in un assalto vittorioso. Che sgretola ogni forma di resistenza. Riconosco la puzza delle cose andate a male. Una puzza che ustiona.
Piove.
Gocce troppo grandi cadono dal cielo. Tonde come bulbi.
Non sono gocce d’acqua.
Piove ed è una cerimonia per la fine di una storia.
Palpebre chiuse anneriscono il cielo come stormi e piovono sulla strada , si impigliano tra gli aghi di pino, nell’intrico dei rami, scivolano sui tronchi degli alberi fino alle radici che rigonfiano il suolo, si depositano nei rappezzi dell’asfalto, ricoprono in migliaia le pozzanghere. Assalgono la malerba come fiori tristi, le zolle di terra rimosse. I copertoni abbandonati. Hanno ricoperto tutto il viale, minuziosamente. Occhi uno vicino all’altro, uno sopra l’altro, serrati, sulle sponde. Galleggiano sul canale e nascondono l’acqua. Atomi mondati da ogni ipotesi di sangue.
Non c’è cruenza. Solo una distesa infinita di occhi ciechi.

[la foto, cliccateci sopra, è di Luigi Spina]

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9 Commenti

  1. Bello. Mi è piaciuto soprattutto questo pezzo: “Ci sono luoghi con i fiumi.
    Davanti a un fiume ogni uomo ha sognato di navigare per andare lontano. Ha guardato all’altra sponda come alla possibilità di un’ esistenza diversa. Ha visto scorrere tutte le opportunità sfumate”.
    Ci ho fatto partire un romanzo proprio da un fiume e da un’idea simile.

  2. Il tuo racconto ci aiuta a guardare e sentire il mondo con attenzione….. ritrovando così profumi antichi che ci suggeriscono nuovi sentieri da intraprendere
    grazie

  3. è un’articolo con un’ottima analisi dei problemi che afliggono il paesaggio italiano, che mostra come il disinteresse e l’incapacità di gentire il territorio siano il male più grande per lo svilupp del nostro territorio

  4. Che ci siano o meno fiumi nel tuo luogo poco importa. Importa riuscire a non battere neanche una delle due palpebre, anche se gli occhi ti lacrimano per lo sforzo prolungato di mettere a fuoco.
    Siamo dentro. Dentro l’osso dell’animale, intendo.
    Tanta parola, ma non per vestire l’osso di polpa o di pelo. Non c’è vestito che vesta, qui

  5. ci sono dei tratti che ti restano incollati addosso, tornano durante la giornata, ormai sono dentro di te….ti appartengono.
    voglia di evadere…..salire su, ma un contrappeso ti obbliga a restare, ti inchoda e costringe a guardare. davvero bello

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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