(Ancora) su “Anatomia della battaglia”
di Andrea Inglese
(Si è parlato già su NI di questo libro di Giacomo Sartori. Nel 2008, esso verrà tradotto anche in francese, per l’editore Philippe Rey. Come promemoria ai lettori italiani, una breve nota critica apparsa sull’ultimo numero di Allegoria)
Esistono romanzi che, all’interno di un’architettura di genere estremamente semplice, pretendono di inserire grandi quantità di materiale narrativo e di gestire molteplici temi attraverso un’unica prospettiva. Non è questo il caso di Anatomia della battaglia di Giacomo Sartori (Sironi, 2005), libro tutto focalizzato su di un tema preciso e circoscritto, che viene messo in rilevo attraverso una sovrapposizione di prospettive di genere diverse, dal romanzo di formazione al romanzo familiare. Sartori non gioca con i generi, ma tesse il suo romanzo con tutti quegli elementi che, pur nascendo nell’ambito di un genere specifico, vengono però da lui, per così dire, disseccati, ridotti ad un contributo essenziale.
Ogni materiale narrativo è filtrato selettivamente nell’ottica che domina il suo libro: la vicenda occulta e sfuggente attraverso la quale, da una generazione all’altra, si trasmette l’attitudine alla guerra, il culto della violenza. Il romanzo si apre su di un confronto esacerbato, ossessivo, tra un giovane e il proprio padre. Il giovane è un aspirante scrittore, che studia materie scientifiche e che, dopo una militanza nella sinistra extraparlamentare, si lascia coinvolgere nella lotta armata. Il padre è un ex-fascista, rimasto fedele al regime, ormai appassionato unicamente di alpinismo. La voce narrante è quella del figlio, ipnoticamente concentrata ad evocare i gesti e i motti del padre, con l’intento di costruirne un ritratto implacabile ed esaustivo. Ma l’andamento da Lettera al padre acquista progressivamente un passo diverso: il dialogo impossibile con l’altro (la lettera mai consegnata) si trasforma in un dialogo con se stessi, con l’ombra dentro di sé del proprio padre, con la sua eredità silenziosa, trasmessa in profondità, fin nelle fibre del carattere. Quest’analisi, però, pur svolgendosi nell’ambito dei cosiddetti “fenomeni psicologici”, è affrontata in modo autenticamente romanzesco: ogni passo in avanti nella coscienza del protagonista, è provocato da un fatto specifico, da un mutamento degli equilibri all’interno di una determina relazione umana. La coscienza cresce non in virtù di una sua avulsa chiaroveggenza, ma nel vischioso, accidentato procedere degli avvenimenti, per contraccolpi e rivolgimenti.
L’operazione di Sartori, insomma, non ha niente della tesi precostituita che deduce i propri sviluppi narrativi, nemmeno però si limita a ripercorrere in superficie eventi così cruciali come quelli della lotta armata. Spesso la memorialistica brigatista ha insistito sul legame di continuità esistente tra l’esperienza della “resistenza tradita” e la scelta, all’inizio degli anni Settanta, della lotta armata. E anche in un’ottica storica si è comunque cercato di comprendere il fenomeno dell’eversione “rossa” in rapporto ad una possibile eredità con le spinte rivoluzionarie nate in seno alla resistenza e soffocate negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. Sartori va a cercare, invece, da tutt’altra parte. Non verso la parte soffocata, ma verso la parte rimossa.
Questo romanzo si costruisce allora intorno alla natura “acronica” della rimozione, alla quale corrisponde il continuo andirivieni temporale dei brevi paragrafi che scandiscono in modo veloce e martellante l’intreccio. La confusione dei tempi, che costantemente giustappone segmenti narrativi lontani tra di loro, “imita” in profondità la stasi esistenziale, cui la rimozione collettiva costringe l’individuo costretto a crescere e a maturare dopo di essa. Lo scioglimento del romanzo si attua poi attraverso una classica agnizione, ma interna al personaggio protagonista: il rivoluzionario leninista scopre in sé quel medesimo amore della guerra che ha odiato e biasimato nel proprio padre fascista. Anche in questo caso, non è la coscienza del figlio a progredire per virtù propria. Quest’ultimo subisce il contraccolpo di un incontro con una donna, che lo costringerà a rimettersi profondamente in discussione.
Abbiamo d’altra parte elogiato nel lavoro di Sartori la piena realizzazione delle potenzialità conoscitive proprie del genere romanzesco. Un romanzo non costruito su di una coscienza libera e affabulante, e neppure su di un succedersi di fatti che trascinano con sé personaggi psicologicamente inerti: ma l’arte peculiare di considerare l’impatto e le conseguenze che gli eventi del mondo hanno su di una coscienza individuale.
Complimenti!
-anche- per la traduzione in francese…
Chapuce
“Il rivoluzionario leninista scopre in sé quel medesimo amore della guerra che ha odiato e biasimato nel proprio padre fascista”. Homo odians.
molto interessante trovo questa storia, anche per ragioni strettamente connesse con la mia vicenda personale. La figura del padre mi ritorna inesorabilmente, anche se ideologicamente – e sacrosantamente – rifiutata, ora con un tono ormai quasi – ma solo quasi – tranquillo, appena sfiorata da ironia mista ad affetto. Grazie Andrea.
Il silenzio dei padri; mi rammento il libro che ho letto con pausa, assorta nel vincolo tra il padre e il figlio, vista giusta del uomo della montagna fa silenzio con la natura di pietra, dura, il padre tiene le radici nel ghiaccio, se parla, parla con voce infuriata, voce entra nella mente del figlio, stuffa la libertà.
Il figlio descrive la malattia, analisa crudela, lenta, lenta, vera con l’agonia che è cancro, cancro e scorpione, animali del deserto, è un deserto il vincolo tra il padre e il figlio; il figlio si perde nel deserto, dimenticando l’amore, l’amore è il cancro che avanza e indietreggia.
E’ Andrea che per il suo articolo mi ha dato voglia di leggere questo libro, mi rammento un pezzo lungo e ricco, come un viaggio nella mente dell’ autore.
Un augurio a Giacomo per l’edizione francese.