Morti bianche
Comunicato Stampa
Lavorare in sicurezza
Il lavoro, la salute e la sicurezza nelle fotografie delle collezioni Alinari
In mostra al Palazzo del Quirinale dal 18 ottobre al 25 novembre
Presentazione alla stampa: mercoledì 17 ottobre.
Parte dalla Sala delle Bandiere del Quirinale, il prossimo 18 ottobre, la grande mostra itinerante per raccontare il lavoro, la salute e la sicurezza dei lavoratori, attraverso le collezioni degli archivi Alinari, il più importante fondo fotografico documentario esistente in Italia e uno dei maggiori su scala mondiale.
Successivamente, la raccolta fotografica, realizzata sotto l’alto Patronato del Presidente della Repubblica e il Patrocinio della Presidenza del Consiglio, toccherà altre grandi città italiane: Milano, Torino, Palermo, Firenze, Napoli.
La mostra, a cura del Ministero del lavoro, in collaborazione con la Fondazione per la Storia della Fotografia Fratelli Alinari, sarà presentata alla stampa, dal Ministro del Lavoro, Cesare Damiano e dal Consigliere del Presidente della Repubblica per la conservazione del patrimonio artistico, Louis Godart, alle ore 12 di mercoledì 17 ottobre, nella Sala delle Bandiere del Quirinale.
Nel pomeriggio dello stesso giorno è prevista l’inaugurazione, alla presenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e del Ministro del Lavoro.
Sarà così possibile offrire ai visitatori, un percorso per immagini, delineato grazie ad una ricerca iconografica svolta per l’occasione, che testimonia l’evoluzione e il cambiamento delle condizioni di lavoro in relazione al tema della sicurezza e della salute dei lavoratori nell’arco di quasi due secoli.
Le fotografie degli archivi Alinari permettono di inquadrare il tema della sicurezza del lavoro all’interno del contesto in cui storicamente si colloca, nel quadro del processo che porta l’Italia a divenire, da paese sostanzialmente agricolo e industrialmente arretrato, una delle maggiori nazioni industrializzate, con la necessità quindi di recuperare tutta una serie di ritardi che trovano espressione anche sul piano della sicurezza del lavoro.
I richiami della cronaca al ripetersi ancor oggi troppo frequente di gravi infortuni e di morti sul lavoro richiedono una seria riflessione sul fenomeno, sulle sue dimensioni, caratteri, e quindi sui mezzi per controllarlo meglio e sempre di più. E’ recente la notizia dell’approvazione in Parlamento del Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, il disegno di legge elaborato dal Ministero del Lavoro insieme al dicastero della Salute, che prevede, tra l’altro, pene più severe per chi non rispetta le norme di sicurezza, premi alle aziende virtuose, trecento nuovi ispettori per combattere la piaga dello sfruttamento del lavoro nero.
In questo contesto, la mostra si propone di offrire un materiale visivo che permetta di sensibilizzare e attrarre l’attenzione del grande pubblico, sviluppando una lettura critica e consapevole del fenomeno, capace di inquadrarlo nella sua dimensione storica.
Roma, 10/09/07
Ufficio Stampa
Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale
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Fax 06/48161456
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Dicevo, qui (www.nazioneindiana.com/2007/09/10/non-ci-sono-morti-bianche) che NON ci sono morti bianche.
Ma da questo comunicato è facile vedere perché le morti continueranno a essere bianche, ovvero senza responsabilità in capo a chicchessia, ché qui si continua a parlare di sicurezza come questione a sé stante, e non si chiama in causa l’interezza del processo produttivo, l’organizzazione del lavoro, le infinite catene di appalti e subappalti, e tutto il resto.
in effetti, quando si contestualizza si giustifica. i morti sul lavoro sono già ben contestualizzati nelle loro bare.
sono perplesso su una cosa, ma magari sbaglio.
sono perplesso su quella che percepisco come una sostanziale non-risposta delle organizzazioni operaie a questo stato di cose.
si fanno scioperi, è vero, ma l’impressione è che si tratti di cose deboli, episodiche, mentre occorrerebbero mobilitazioni e scioperi nazionali, di settore e non.
altra lezione inesorabile della storia: se non ti organizzi e non ti riconosci come classe, se non trovi i tuoi sodali in quelli che vivono la tua stessa condizione, chi ti aiuterà?
non certo quella che oggi si chiama sinistra, che di fatto punta al consenso dei tuoi nemici, in questo caso anche al voto dei tuoi potenziali assassini: chi può negare che per la sinistra oggi confindustria sia più importante degli operai?
E’ vero, tashtego: la perdita della “coscienza di classe” è uno dei motivi “culturali” che determinano molte morti sul lavoro. Come quando dici al padrone che una macchina è malfunzionante e lui non interviene e tu continui a lavorare perchè ci sono degli ordini e la macchina schiaccia un ragazzo di 23 anni. E questo specifico caso è anche un esempio di morte provocata dall’organizzazione del lavoro toyotista, dalla riduzione del magazzino e del just in time. Quanto al sindacato, credo che alcune parti facciano un lavoro importante. Singoli sindacalisti, singole federazioni, singole camere del lavoro. Quello che manca, io credo, è a livello generale, il fatto di mettere in cima all’agenda politica questo tema nella maniera conveniente, magari per non entrare in rotta di collisione con le polotiche filoindustriali del governo, che a certe misure si guarda bene di metter mano per non mettere troppo i piedi nel piatto delle imprese. In nome del secolare vincolo delle “compatibilità”.
purtroppo la maggior parte delle morti sul lavoro avviene non nelle fabbriche altamente tecnologizzate e toyotiste, ma nell’edilizia (caduta dai ponteggi) e nell’agricoltura (ribaltamento dei trattori). nel primo caso i processi produttivi sono sostanzialmente quelli dell’Ottocento, nel secondo caso non esiste o quasi sindacalizzazione. bisogna intervenire nel concreto sul processo produttivo e sull’organizzazione del lavoro, come dice giustamente rovelli. il ministero annuncia che invierà 300 nuovi ispettori sul lavoro, non dice se saranno incorruttibili e faranno fino in fondo il loro mestiere. gli incidenti sul lavoro sono un milione all’anno, i morti mille e passa (tre al giorno in media). non credo diminuiranno dopo la mostra fotografica.
Dege, credo che si siamo capiti (davo per scontato che la maggior parte delle morti di lavoro avvengono nei settori da te precisati), ma giusto per precisare: quanto al settore “secondario”, l’organizzazione del lavoro flessibile e postomoderna implica un immenso indotto, e l’uso – che si incrementa esponenzialmente – di manodopera appaltata. Gli incidenti avvengono quasi sempre nell’indotto e non certo nelle grandi fabbriche. Ma appunto la vastità dell’indotto, dove si tende a lavorare precariamente e senza garanzie, è tipicamente postmoderna, flessibile, toyotista.
concordo con quanto ha scritto Rovelli. se si continua a parlare di “tema della sicurezza del lavoro” e non del lavoro, del sistema capitalista, del profitto ecc. si fa la stessa cosa che avviene con la forza lavoro, si frammenta, si fraziona, si divide, si rende debole “il tema”.
che tipo di stato nazione società, che tipo di gruppo umano è quello che lascia morire di lavoro i suoi cittadini?
che tipo di sinistra è quella che sostanzialmente tollera e incoraggia lo sfruttamento e il sostanziale schiavismo dei più deboli, degli immigrati, di quelli che non possono davvero difendersi?
che tipo di paese è diventato questo?
che cosa siamo diventati negli ultimi quindici anni?
Marco, alla fine la pensiamo nello stesso modo. ;-) (come sta l’occhio?)
Saluti da Martina
come va quell’unghia incarnita, martina?
ma certo, Marco Rovelli, diciamo le medesime cose. la mia non era una contestazione, ma una precisazione. volevo sottolineare che le morti bianche sono ovunque, non solo in fabbrica. minatori, muratori, contadini, ferrovieri… mi piaceva ricordare anche loro. in ogni caso, tutti coloro che sono intervenuti hanno individuato perfettamente il taglio del problema!
che cosa siamo diventati negli ultimi 27 anni, non solo 15, caro tashtego. la svolta avviene nell’ottobre ’80, data della sconfitta sindacale ai cancelli Fiat nei famosi 35 giorni, un evento che ha inaugurato con la marcia dei 40mila gli anni della regressione politica e sociale. è accaduto che quella regressione, poi utilizzata come trampolino di lancio culturale di berlusconi, ha determinato anche una sorta di mutazione della sensibilità e delle coscienze, che non chiamo genetica per non darle un carattere irreversibile. dal punto di vista umano siamo diventati egoisti ed esibizionisti, vili e servili, ecco che cosa siamo diventati. poi il potere, le multinazionali, la globalizzazione, sì va bene, ma ci sono sempre stati. preferisco leggere il peggioramento nella psicologia individuale e di un popolo.
dege, avevo capito che non era una contestazione, e la mia era una precisazione alla precisazione, come nella dialettica platonica, a forza di precisazioni si arriva a capire sempre meglio, no? ;-)
Ma che lavoro fate tutti voi? A sentirvi parlare di unghie inicarnite, di morti sul lavoro, di dialettica platonica mi é venuto un brivido di vergogna. A chi servono i vostri discorsi? Le vostre parole aiutano chi? Dove portano? Quale città costruiscono se non un luogo virtuale, cioé un nascondiglio generalizzato? Meglio che mi sforzi di non aprire più un blog dopo il lavoro perché mi rovino il fegato e già l’aria che si respira é quella che é.
“Quell’unghia incarnita” è davvero uno strano prodotto, tashtego, che fattori hai fatto interagire per ottenerlo?
Dege, io ci metterei anche un altro ingrediente, dopo anni di onorato servizio anche un sindacalista ha voglia di concludere la carriera in un posto di potere (es: presidenza Camera e Senato), posti che non si regalano, conquistabili con decenni di contratti firmati.
Saluti da Martina
marco, a me piacerebbe tanto che certi discorsi portino a scegliersi meglio la propria rappresentanza, soprattutto quella sindacale. Conosco sindacalisti che sono entrati nel giro per arrivare a qualche altro giro, altri che sono diventati rappresentanti per usufruire del permesso sindacale e andarsi a fare la piega in orario di lavoro, altri perché si cucca un casino, alcuni per evitare lettere di “richiamo”, qualcuno per effettivo “fuoco sacro”, ecco bisognerebbe puntare meno sui piacioni e più sulla sostanza, forse.
Saluti da Martina
Sono d’accordo, Martina. Del resto in ogni gruppo umano si trova di tutto. E più un gruppo sociale ha accesso al potere più alte sono le probabilità di trovare opportunisti e scalatori. Tanto più in una situazione, come gisutamente dice Riccardo dege, di degrado antropologico. Però stiamo attenti a fare di ogni erba un fascio. Io credo che sia sano coltivare, insieme all’intransigenza e al rigore, anche la virtù del dialogo e dell’apertura.
Non credo al “degrado antropologico”, non ci credo affatto.
Cioè non credo che ad un certo momento, per motivi misteriosi, le società occidentali abbiano cominciato ad essere qualcosa di diverso, abbiano iniziato un processo di trasformazione così radicale.
Credo che la società post-solidale nasca sì per motivi strutturali, come la fine della centralità della fabbrica, ma sono convinto che la maggior parte del lavoro l’abbiano compiuto due fenomeni concomitanti: la pressione dell’ideologia liberal-consumista in ogni angolo mediatico occidentale e il fallimento conclamato dei regimi comunisti.
L’intervento di Bauman al Festival di Modena, pubblicato su La Repubblica Cultura del 17 settembre scorso, descrive con lucidità e precisione impressionanti l’attuale stato ideologico delle società post-solidali: sommatorie di individui dove la responsabilità sociale non esiste e se esiste è un male: ognuno pensi per sé.
Non è ovviamente un caso che questa pressione ideologica, ormai vincente in tutte le menti come sanno bene i politici più furbi, punti ad una completa americanizzazione del pianeta, al regno del Pensiero Unico, del Modello Unico.
Un solo immenso inferno planetario, teatro della competizione globale del tutti-contro-tutti: i più deboli si fottano, se ti sfruttano è colpa tua e se non ti fai ricco, caro mio, sei solo un coglione.
Buffo che la politica, pur nel clima di generale (e di solito stupida) vituperazione, sia in realtà da tempo considerata un grosso traguardo di carriera, anzi un traguardo esistenziale, per molta gente.
Soprattutto per quelli che dovrebbero come dire controllarla, contrastarla, tenerla d’occhio, criticarla su terreni diversi o sul suo stesso terreno.
Buffo che quelli che consideriamo, e che dovrebbero essere, gli anticorpi del potere non sognino altro che di farsi potere.
Magistrati che aprono inchieste, sindacalisti che duramente si oppongono e trattano e concertano, giornalisti che tengono d’occhio, indagano, informano, contestatori incorruttibili, ecologisti apparentemente estatici, organizzatori di movimenti oppositivi, leader anti-sistema, imprenditori che “ognuno faccia il suo mestiere”, comici che spietatamente satireggiano il potere, cantanti un tempo dediti a temi esistenziali, tutti, pur avendo magari successo in quello che fanno, puntano ad entrare nel palazzo, tutti dicono di sì, si affrettano a farsi cooptare, approfittano delle opportunità del loro mestiere per approdare alla camera o al senato et ivi finalmente sedersi, contenti, appagati di essere riusciti a farsi vedere & comprare dal potere.
In testa a tutti ci sono giornalisti e magistrati.
E naturalmente i sindacalisti: oggi sto da questa parte del tavolo, ma un domani siederò tra voi, dall’altra parte (vedansi Cofferati, Marini, Benvenuto, Del Turco, lo stesso Bertinotti, eccetera: sono decine).
Tashtego, quando parlo di degardo antropologico mi riferisco esattamente a ciò che tu dici. Quella pressione ideologica è il corrispettivo di “pratiche” ben precise, che permeano ogni ganglio della vita quotidiana. In questo senso, io credo, proprio nella misura in cui si assiste a un disfacimento del tessuto sociale e alla perdita di senso solidale e cooperativo tra gli umani – si può parlare di degaro antropologico.
per fortuna in italia c’è ancora la fiom, meno esposta al degrado (qualche speranza dunque c’è).
non ho letto l’intervento di bauman a modena, ma mi sembra abbia centrato in pieno il problema. un problema che è talmente generale o generalizzabile al punto da abbracciare il dramma delle morti bianche, la crisi delle vocazioni sindacali (i giovani non si avvicinano più al sindacato e come vedete sono sempre gli stessi che ruotano nelle varie poltrone confederali e di categoria), la politica spettacolo, la logica del tutti-contro-tutti (locale e mondiale), l’eclissi della società in quanto comunità, la perdita del senso collettivo, le difficoltà di aggregazione e integrazione, l’angoscia quotidiana… ma che nessuno si spari, neh?
ecco il pezzo di bauman, ma qualcuno dovrebbe farne un post autonomo.
C’è chi crede che cercare una società giusta sia una perdita di tempo – Cosa significa l’invito di Sarkozy a “guadagnare e lavorare di più” – Questo pensiero proclama che è inutile, anzi dannoso, unire le forze per una causa comune – Così si prende di mira la solidarietà sociale e si deride il principio della responsabilità collettiva
Lo scorso giugno, poco dopo la sua elezione a Presidente della Francia, Nicolas Sarkozy ha dichiarato in un’intervista televisiva: «non sono un teorico, non sono un ideologo, non sono certo un intellettuale: io sono uno concreto». Cosa voleva dire con queste parole? Con ogni probabilità voleva dire che crede fermamente in talune convinzioni mentre con altrettanta fermezza ne respinge risolutamente altre.
Dopo tutto ha affermato pubblicamente di essere un uomo che crede «nel fare, non nel pensare» e ha condotto la sua campagna presidenziale invitando i francesi a «lavorare di più e guadagnare di più». Ha detto più volte agli elettori che lavorare più duramente e più a lungo per diventare ricchi è cosa buona. (Si tratta di un invito che i francesi sembrano aver trovato attraente, anche se non l’hanno affatto ritenuto unanimemente sensato dal punto di vista pratico: secondo un sondaggio TBS-Sofres il 39% dei francesi ritiene che sia possibile diventare ricchi vincendo la lotteria, contro il 40% che ritiene che si diventi ricchi grazie al lavoro). Dichiarazioni come queste, se sono sincere, rispettano tutte le condizioni della credenza ed espletano la funzione principale che ci si attende dalle credenze: dicono cosa si deve fare e suscitano fiducia che, così facendo, si otterranno risultati positivi. Manifestano inoltre l’atteggiamento agonistico e partigiano normalmente connesso con una «ideologia».
Alla filosofia di vita di Nicolas Sarkozy manca solo una delle caratteristiche delle «ideologie che abbiamo conosciuto finora», ossia una qualche concezione di una «totalità sociale» che, come suggerito da Emile Durkheim, sia «maggiore della somma delle sue parti», vale a dire diversa, per esempio, da un sacco di patate e quindi non riducibile al cumulo dei singoli elementi in essa contenuti. La totalità sociale non può venire ridotta a un aggregato di individui ciascuno dei quali persegua le sue finalità private e sia guidato dai suoi desideri e dalle sue regole private.
Le reiterate affermazioni pubbliche del Presidente francese suggeriscono invece proprio una riduzione di questo tipo.
Non sembra che le previsioni sulla «fine delle ideologie», comuni e largamente accettate venti-trent’anni fa, si siano avverate o stiano per farlo. Le apparentemente paradossali affermazioni che ho citato indicano invece la sorprendente svolta compiuta oggi dal concetto di «ideologia». In contrapposizione a una lunga tradizione, l’ideologia che viene attualmente predicata dai vertici perché sia fatta propria dal popolo coincide con l’opinione che pensare alla «totalità» ed elaborare concezioni della società giusta sia una perdita di tempo, in quanto irrilevante per i destini individuali e per il successo nella vita. La nuova ideologia non è un’ideologia privatizzata, e del resto tale nozione sarebbe un ossimoro, perché l’erogazione di sicurezza e di fiducia in se stessi che costituisce il principale impegno delle ideologie e la condizione primaria del loro carattere seduttivo sarebbero irrealizzabili senza un’adesione pubblica e di massa. Essa invece è un’ideologia della privatizzazione. L’invito a «lavorare di più e guadagnare di più», invito rivolto agli individui e adatto solo a usi individuali, scalza quelli del passato a «pensare alla società» (o alla comunità, alla nazione, alla chiesa, alla causa). Sarkozy non è il primo che cerca di avviare o di far accelerare tale trasformazione: la precedenza spetta a Margaret Thatcher e al suo memorabile annuncio secondo cui «non esiste qualcosa che si possa chiamare «società»: esistono solo il governo e le famiglie».
Si tratta di una nuova ideologia per la nuova società individualizzata, a proposito della quale Ulrich Beck ha scritto che uomini e donne, in quanto individui, dovranno adesso trovare soluzioni individuali a problemi creati dalla società e implementare individualmente tali soluzioni con l’aiuto di capacità e risorse individuali. Questa ideologia proclama che è inutile, anzi controproducente, unire le forze e subordinare le azioni individuali a una «causa comune». Essa prende di mira la solidarietà sociale; deride il principio della responsabilità comune per il benessere dei membri della società considerandolo fondamento dello «Stato assistenziale»; ammonisce che prendersi cura degli altri è la ricetta per creare l’aborrita «dipendenza».
Si tratta anche di un’ideologia fatta a misura della nuova società di consumatori. Essa rappresenta il mondo come un deposito di oggetti di potenziale consumo, la vita individuale come una perpetua ricerca di transazioni aventi per scopo la massima soddisfazione del consumatore e il successo come un incremento del valore di mercato degli individui. Largamente accettata e saldamente accolta, essa liquida le sue antagoniste con un secco «non esistono alternative». Avendo così ridimensionato i suoi avversari, essa diviene, per usare la memorabile espressione di Pierre Bourdieu, veramente pensée unique. Almeno nella parte ricca del pianeta la posta in gioco in questa spietata concorrenza tra individui non è la sopravvivenza fisica, e nemmeno la soddisfazione dei bisogni biologici primari necessari alla sopravvivenza; né il diritto di affermare se stessi, di darsi i propri obiettivi e di decidere che tipo di vita si vorrebbe vivere.
Esercitare tali diritti viene ritenuto, viceversa, un dovere di ogni individuo.
Si parte inoltre dal presupposto che tutto ciò che accade agli individui sia conseguenza dell’esercizio di questi diritti oppure di gravissimi errori in tale esercizio, fino al suo blasfemo rifiuto. Così tutto ciò che accade agli individui viene comunque definito retrospettivamente come dovuto alla responsabilità dei singoli. Ciò che è ora pienamente e veramente in gioco è il «riconoscimento sociale» di quelle che vengono viste come scelte individuali, ovvero della forma di vita che gli individui praticano (per scelta o per forza). «Riconoscimento sociale» significa accettazione del fatto che l’individuo che pratica una certa forma di vita conduce un’esistenza degna e decente, e per questo motivo merita il rispetto dovuto e prestato agli altri individui degni e decenti.
L’alternativa al riconoscimento sociale è la negazione di dignità, cioè l’umiliazione, e questo sentimento nutre risentimento. E corretto affermare che in una società di individui come la nostra questa sia la più velenosa e implacabile forma di risentimento che i singoli possono provare, nonché la più comune e prolifica causa di conflitto, di ribellione e di sete di vendetta. Negazione del riconoscimento, rifiuto di prestare rispetto e minaccia di esclusione hanno rimpiazzato sfruttamento e discriminazione, divenendo le formule più comunemente usate per spiegare e giustificare lo scontento che gli individui provano nei confronti della società o di quei settori e aspetti della società cui essi sono direttamente esposti (personalmente o attraverso i media) e di cui fanno esperienza di prima mano. Ciò non vuol dire che l’umiliazione sia un fenomeno nuovo, specifico dell’attuale forma della società moderna, perché al contrario essa è antica quanto la socialità e la convivenza tra gli uomini. Vuol dire però che nella società individualizzata di consumatori le più comuni ed «eloquenti» definizioni e spiegazioni delle afflizioni e dei disagi che derivano dall’umiliazione hanno rapidamente spostato, o stanno spostando, il proprio riferimento dal gruppo e dalla categoria alle singole persone. Invece che essere attribuite all’ingiustizia o al cattivo funzionamento dell’organismo sociale, cercando dunque rimedio in una riforma della società, le sofferenze individuali tendono a essere sempre più percepite come risultato di un’offesa personale, di un attacco alla dignità personale e alla stima di sé, invocando dunque una reazione personale o una vendetta personale. Questa ideologia, come tutte le ideologie a noi note, divide l’umanità. Ma in più essa genera divisione anche tra chi le presta fede, dando capacità a qualcuno e rendendo tutti gli altri incapaci. In questo modo essa inasprisce il carattere conflittuale della società individualizzata/privatizzata.
Depotenziando le energie e neutralizzando le forze che potenzialmente sarebbero in grado di intaccarne il fondamento, questa ideologia conserva tale società e rende più fievoli le prospettive di un suo rinnovamento.
(traduzione di Daniele Francesconi)
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