Pugni chiusi
di Gianluca Veltri
Se esiste un angelo della boxe, sotto la sua ala consolatrice avrà trovato pace Duk Koo Kim. È una ballata triste, quella di Duk. Che dopo essere stata anche un film, nel 2004 è diventa una chilometrica canzone dei Sun Kil Moon di Mark Kozelek (ex leader dei Red House Painters). Kozelek ha dedicato al pugile coreano un epico brano di oltre 14 minuti, Duk Koo Kim, incluso nell’album Ghosts of the Great Highway.
Duk morì a Las Vegas il 18 novembre del 1982. Cinque giorni prima aveva incassato un diluvio di pugni da Ray “Boom Boom” Mancini, cadendo esanime alla quattordicesima ripresa. Si comprese subito che i danni al cervello erano irreparabili; Duk cedette dopo cinque giorni di agonia al Desert Spring Hospital. Aveva 23 anni. Era un ragazzo di campagna del Sudest asiatico, venuto a Las Vegas dalla Corea del Sud a sfidare Mancini. Non era mai stato prima d’allora in America. Tre mesi dopo, sua madre si sarebbe uccisa ingerendo dei pesticidi. Peccato; non conobbe mai il nipotino, il figlio di Duk, che nacque quattro mesi più tardi. Duk neanche lo sapeva, che sarebbe diventato papà.
Il giovane coreano era stato designato come sfidante del temibile Ray Mancini per il titolo mondiale dei Pesi leggeri, dopo aver inanellato tredici combattimenti senza sconfitte. Era stato campione coreano dei Pesi leggeri e aveva vinto il titolo Orient and Pacific.
Mark Kozelek, songwriter del Missouri stabilitosi nei primi anni Novanta a San Francisco, malato di boxe e curioso dei destini marginali, ha scavato nella dissipazione di giovani vite al loro fulgore. Kozelek ha una scrittura intossicata di melanconia, autore di sfibranti deliri elettroacustici. È un chitarrista sensibilissimo, gioca molto sulle accordature aperte, scovando sonorità e armonie insolite, insistenti, ellittiche. Molti hanno avvicinato il suo mondo a quello di Neil Young. Ghosts of the Great Highway è il primo disco dei Sun Kil Moon, il gruppo formato da Mark Kozelek dopo lo scioglimento dei Red House Painters. Già nel repertorio dei Red House Painters troviamo un’abbondante genealogia di pezzi lunghissimi, oltre i dieci minuti, fortemente introspettivi, iterativi fino allo sfaldamento e all’ipnosi, spesso molto tristi, quando non del tutto suicidari. Duk Koo Kim, il brano clou di Ghosts of the Great Highway, campeggia in una galleria di ballate dedicate a pugili scomparsi. Curiosamente tutti a 23 anni, come il messicano Salvador Sanchez e il filippino dal nome di rivoluzionario Pancho Villa. Le prima parole pronunciate da Kozelek nel CD, nel brano Glenn Tipton, sono un nome non proprio scelto a caso: Cassius Clay (!).
Duk Koo Kim, il pugile eponimo del poema musicale di un quarto d’ora, trascorse gran parte dei suoi 23 anni nella povertà. Nato nel 1959, orfano di padre già a due anni, gli fu somministrata una teoria di squallidi traslochi, patrigni e fratellastri. La madre Yang Sun Nyo si sposò quattro volte ma non riuscì ad assicurare a Kim un sostentamento decente. A Kojin, villaggio di pescatori a quattro ore da Seul in cui trascorse l’infanzia, Kim si dovette arrangiare fin dalla tenera età. Cacciava conigli, pescava conchiglie e pesci, ma spesso per il pasto doveva accontentarsi delle locuste che riusciva ad acciuffare nei campi. Fu lì che Kim fu iniziato da un fratellastro alla lotta. Aveva sei anni, si menava con i coetanei sotto gli occhi divertiti dei ragazzi più grandi.
Bei ricordi pochi, per Kim. Storie di miseria morale e materiale della Corea degli anni ’60, Medioevo. La TV fu legalizzata solo nel 1982, appena in tempo perché un’intera popolazione assistesse in video al macello di Duk Koo Kim.
Duk invece fece in tempo a vedere l’America. A cambiare canale, dal bianco & nero della sua Corea allo sfavillìo esagerato di Las Vegas. Pochi giorni, il tempo di preparare il fatale match. Kim era felice, era passato da una disperata povertà al successo. Pochi anni prima era aiutante in una panetteria, saldatore, venditore di libri nei bar. Si arrangiava in un onesto squallore. Ora invece…
A Seul, dopo il match di Las Vegas contro Mancini, dopo la gloria, lo attendeva l’amata Young Mee Lee, alla quale si era promesso sposo prima della partenza. Sul ring del Caesar Palace di Las Vegas, Mancini era l’ultimo ostacolo per il trono di campione mondiale. Nell’imminenza del match, Kim si fece fotografare davanti a un poster di Boom Boom, con il pugno spavaldamente sul viso del campione americano; sulle pareti della sua stanza d’albergo, vergò la frase “Kill or Be killed”. Si sentiva sicuro, non conosceva sconfitte. Dopo qualche giorno il suo corpo giaceva in una bara al Paradise Valley, alla periferia di Las Vegas, la città in mezzo al deserto lustrinata, illusoria e finta, che fu l’ultima sua dimora di pochi giorni.
Su un colle che guarda Kojin, il villaggio in cui faceva a botte da bambino, Kim è stato sepolto. Venne riportato a Seul con le bende intorno alle tempie, legate strette perché sembrassero intere. La maggior parte degli osservatori a bordo ring avevano descritto il match come un combattimento “bloccato”, con Mancini e Kim a tallonarsi per gran parte dell’incontro. Ma verso la fine Mancini prese il sopravvento. Duk andò al tappeto alla quattordicesima ripresa, si rialzò ma il combattimento fu sospeso e l’arbitro dichiarò Boom Boom vincitore. Nei minuti successivi all’incontro, Kim cadde in coma e venne condotto all’ospedale. Si cercò di salvargli la vita con un intervento chirurgico al cervello d’urgenza, ma ogni tentativo si dimostrò inutile. Kim morì molto lontano da casa, cinque giorni dopo il combattimento, il 18 novembre. Era andato in America a morire.
La cerimonia funebre fu celebrata a Seul, al Munwha, la palestra in cui Kim si allenava. Fu accolto da eroe nazionale, gli venne dedicato il film The Tiger Who Does Not Cry, anche se in vita Kim non aveva conosciuto molta fama. Il suo stesso trainer Hyun Chi Kim non aveva dato credito a quel ragazzo di campagna, quando gli si era parato davanti sostenendo che sarebbe diventato un campione. Kim desiderava lasciarsi alle spalle le umiliazioni. Lo scrisse anche nel diario che aggiornava minuziosamente. Non fece in tempo ad annotare le conquiste più belle, che mai realizzò: il titolo mondiale e il matrimonio con Lee. Soprattutto l’evento che accadde dopo la sua morte, che lui non vide e di cui non seppe mai nulla: la nascita del figlio Chi Wan Kim.
Chi Wan, che oggi è un uomo di 24 anni, ha conosciuto un’infanzia senza padre, ma anche senza le miserie conosciute dal padre. La polizza assicurativa intascata dalla madre per la morte di Duk Koo Kim ha garantito a entrambi una vita agiata.
La fine di Duk lasciò una scia. Non riuscì a farsi una ragione di quella tragedia l’arbitro del match Richard Greene, che ritenendosi responsabile della morte di Duk si tolse la vita pochi mesi dopo il fatale match, nel febbraio del 1983. Nessuno invece ritenne responsabile Ray Mancini per la morte di Duk. Il cantautore Warren Zevon dedicò al campione il brano Boom Boom Mancini, in cui scagionava moralmente il pugile americano. È un’altra visuale della storia: non dalla parte del perdente, come Kozelek, ma da quella di chi vince e va avanti. Mancini rimase con la morte nel cuore e per sempre ossessionato da Duk Koo Kim; pensò anche al ritiro. Soltanto dopo qualche tempo di crisi e di chiusura, gli amici riuscirono a convincerlo che si era trattato di un incidente nel quale a lui non si poteva imputare nessuna colpa.
Diverse riforme del regolamento della boxe trovarono spazio dopo quell’incontro. Nel convegno annuale del 1982, la WBC prese importanti decisioni inerenti alle aree di soccorso ai pugili, e inoltre decise di ridurre da 15 a 12 i round di cui si compongono i match. Duk era crollato alla quattordicesima ripresa. Si comprese, disse il presidente della WBC José Sulaiman, che gli ultimi tre round erano i più pericolosi nei casi in cui uno dei due combattenti fosse in difficoltà.
Mark Kozelek, nei quattordici minuti del brano (quanti i round dell’ultimo match di Duk) non racconta la storia di Duk Koo Kim. Il brano non è narrativo: utilizza la figura di Duk come un pretesto, come una figura retorica. Eppure i tre drammatici movimenti musicali di cui il mini-poema si compone, ascoltati con una giusta suggestione, sembrano coprire perfettamente le diverse gamme dell’evento di Las Vegas: il presagio, l’agonia, la veglia.
Con un po’ di fantasia, il pezzo successivo del disco, Sì Paloma, uno struggente strumentale per chitarre e mandolini, idealmente inglobato in Duk Koo Kim, potrebbe rappresentare il quarto movimento: il rimpianto.
me lo ricordo troppo bene quest’incontro, l’ho visto con mio padre e mio fratello, ed eravamo increduli per la quantità di pugni che i due si erano tirati e presi, e senza che mai nè uno nè l’altro si fossero tirati indietro per un attimo. sembrava un film, tanta era la purezza di quella violenza.