Di un tre capovolto

di Alessia Polli

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I

Avevo ancora tra le mani la guarnizione di gomma dello sportello della tua macchina, quando mi hai chiesto: “Perché non lo facciamo?”. Ho spalancato gli occhi, più forte che potevo. Deve uscirmi una lacrima, quand’è così. E’ l’unico modo che ho per superare le perplessità. Ti ho guardato senza metterti veramente a fuoco. Allora mi sono piegata e ho forzato il guscio slabbrato e deforme uscito dal binario d’acciaio di quell’intelaiatura massiccia dentro le sue guide. Ho deciso così, su due piedi, spingendo la copertura unta e appiccicosa sui ganci metallici. Se vuoi che qualcosa torni al suo posto devi premere, fare resistenza, mi sono detta. Ho fissato per un po’ le piccole dita che seguivano nervose l’itinerario di ferro da foderare. Mi sono sembrate irritanti. Non mi piacciono, quando reagiscono così. Mi fanno pensare a mia madre e alle sue depressioni fulminanti, che ogni volta che arrivano si sentono, nonostante lei cerchi di metterle a tacere dentro qualche pentola ossidata, una calcificazione da sconfiggere, la superficie del frigorifero da far risplendere.

Osservo le punte rossastre dei capelli. Al sole non sono più tanto mie. Hanno preso quel colore innaturale che mi allontana ormai troppo persino dal nero inchiostro di mio padre. E dire che io di mio padre ho praticamente tutto. Anche delle leggere ombrature sul dorso della mano, che da piccola strofinavo forte con il sapone di Marsiglia perché andassero via. Insieme a quel neo. Che ha la forma di un tre, di un tre capovolto. E’ stato allora che ti sei affacciato dalla mia parte, guardando in basso, ai piedi della fiancata. E deve essere stato in quel preciso istante che ho sussurrato di sì. Perché d’improvviso hai allargato le braccia per farti entrare il vento dentro e poi hai tirato su col naso, come per dire “Non è meraviglioso tutto questo?”.

Costeggiamo il litorale con i finestrini mezzi aperti perché del mare ci arrivi, almeno, la sua forza. La verità è che vorremmo far uscire questo silenzio tra di noi, che se aspettiamo ancora un po’, finirà per inghiottire pure lo sfiato liberatorio del bocchettone dell’aria fredda. Non ti chiedo altro, adesso, se non di andare piano. E tu aggiungi poco o nulla alle avvertenze, ma poi attacchi con quel fischio irritante che ti esce tra i denti quando non ne puoi più, di me e della mia cautela. “Dovevi pensarci prima”, mi viene da dire. Ma non hai occhi che per la strada, che è tortuosa e sconnessa come le mattonelle del cortile di casa mia, sbeccate e fuori posto da una vita. Di questa indifferenza, ora, te ne sono quasi grata. Mi avvicina a te, in un modo che non avrei sperato. E non rischio il mal di testa, quella specie di martellino che mi picchia sulla tempia, se confesso di non avere memoria di ciò che è stato. Di non ricordare quanto devo aver tremato, su quel pavimento tirato a lucido, la prima sera che ho capito che non sarebbe stato facile. Perché tu amavi un’altra, e io forse te. Tiro giù lo schienale in un colpo. Se non fossi nell’abitacolo di una macchina, prenderei la porta e me la tirerei alle spalle. Un tonfo, niente di più. Invece il mio ginocchio sfiora la tua mano arpionata sul cambio, e non posso fingere che non ci sia contatto, perché di tanto in tanto ti giri, mi guardi, stiri il collo dalla mia parte e allunghi il busto, come per starmi più accanto. Non mi pento di averti detto di sì. E’ solo che tutta questa pressione mi mette con le spalle al muro. Il sedile sul quale sono, lo occupo appena per metà. Resto schiacciata tra il vano laterale porta oggetti e l’estremità anatomica della poltrona. Non voglio spazi da riempire. Devo tenere a bada l’ossessione che mi prende, quando comincio a pensare di dover scegliere cosa metterci dentro. Da qualche mese poi ho preso pure a cucirmi tutte le tasche dei jeans. Così adesso mi maledico, perché non so davvero dove far cadere questa mano, che è l’unica che potrebbe tradirmi, finendo arrendevole nella tua.

II

“Devo fermarmi a controllare”, dici sbuffando, come se fosse colpa mia. Dall’ansia che ti prende capisco che hai paura. E non di compromettere il viaggio, che se non si arriva oggi ce la faremo domani, e neanche di dover ricorrere ai ripari perché la macchina è fuori uso. Tu i contrattempi non li temi. Annienti il panico con la presunzione di sapertela cavare. Semplicemente hai paura di me, di quello che potrebbe uscirmi tra i denti guardando la macchia nera, densa e viscosa che intuisco dai tuoi movimenti essere esattamente sotto di me, oltre il tappetino scolorito, la copertura di gomma sfondata, il foglio sottile di lamiera che sembra resistente ma che per me non lo è. Cerco di seguirti dall’interno, con il naso schiacciato sul vetro, mentre immagino tutte le forme possibili di quel liquido grasso e bluastro. Resterò in silenzio per un po’, giusto il tempo di ricostruire cos’è successo. Perché se dovessi sapere che perdiamo sangue da quando siamo partiti, non credo l’accetterei. Non senza fare storie, prima. Su un imbuto deforme, dalle pareti ripide e tremolanti, mi blocco. Deve essere così, ora, l’olio riverso sull’asfalto. Poi ti vedo rientrare, con il respiro affannato e il corpo a peso morto sul sedile. Mi verrebbe da schiaffeggiarti, scuoterti, tormentarti. Invece l’unica cosa che mi sento di darti è un sospiro, di quelli amari e pungenti che nascono per essere soffocati. Di quelli commiserativi gravi, che basterebbe soltanto meno fiato, poca pressione, nessuna contrazione per smorzare del tutto. Sono un’idiota penso, giocherellando con le mani che a ripetizione vanno dietro il poggia-testa, sulla manopola sagomata dello schienale reclinabile, sul pulsante a molla del freno a mano. Sono proprio un’idiota. E mentre lo penso prendo una bic dal portacenere vuoto e mi faccio sul neo una croce a forma di stella.

Con una leggera pressione del dito fai saltare il tappo ermetico della benzina e poi vai via. Inspiro intensamente, come se fossi ad alta quota. L’odore acre di cherosene mi arriva giù, fino alla bocca dello stomaco e corrode piano, smacchia. Sterilizza. Non ho il coraggio di chiederti quale sia il problema. Sono due ore che siamo prigionieri di questo Autogrill. Dovrebbe bastare forse per farmi un’idea della gravità del danno. Eppure io continuo a pensare che ci sia una crepa nella coppa dell’olio, perché quando hai messo in moto ho avvertito secco lo strappo e poi, via via, il cedimento lento dei tessuti. Mi giro a guardarti. So che posso aiutarti, finalmente. Ma ti vedo che riempi il serbatoio e metti il pieno per non doverti più fermare. “Possiamo andare?”, sussurro con un filo di voce. E dall’espressione che hai capisco che non è il momento di chiedere, perché il momento di chiedere, per quelle come me, non arriva mai. Così spingo indietro il sedile con forza. Vorrei che le vedessi, ora, le punte dei piedi farsi viola lampone. Capiresti che non sono cambiata. Che anche adesso, che stiamo insieme, continuo a straziarmi il corpo e a castigarmi le mani. Non è una debolezza, come sostieni sempre tu. E’ il mio modo vigliacco di irrobustire l’anima. E quella volta, in campagna, con lei che ti sedeva accanto, appoggiata al tavolo di noce, mentre si gustava un bicchiere di vino frizzante indicandomi divertita con gli occhi, me ne sono fatti quattro di giri d’elastico intorno al dito medio. Li ho contati per bene, nonostante il bruciore. Forse avrei dovuto fermarmi a tre, perché questo eravamo, il trittico di una pala d’altare, con te al centro e noi ai margini. Ma non sarebbe bastato. Non quella sera, che ti avevo incrociato ubriaco mentre risalivi un pendio con le spighe tra i denti, il sorriso invadente e il maglione slabbrato. Per questo avevo stretto più forte. Per non sentire più. Da allora so con certezza che soltanto quando non passa il sangue riprendo a respirare. Perché la parte improvvisamente s’addormenta e la pelle alla fine si spacca.

Mi hai ordinato di scendere, che avrebbero dovuto sollevare la macchina con il ponte. E ora sono qui, seduta su un cordolo smussato, a domandarmi a cosa ti sia servito fare il pieno se non andremo, è chiaro, da nessuna parte. Non ci sono macchie per terra. Me ne accorgo adesso. Il colpo deve esserle stato assestato dall’interno e immagino ci sia come una sacca rigonfia tra cavi, valvole e condutture, che sta tentando di trattenere tutto per non rilasciare veleni verdastri e tossine irrespirabili. Mi alzo e faccio per entrare nel negozio di ricambi, lì a pochi passi. Se mi domandassero cosa salverei di quell’uomo con la tuta ginsata sotto la Clio, direi la chiave inglese cromata. Poi però mi guardi e penso che è meglio restare, che tanto di motori a scoppio, di tergicristalli a misura e fluidificanti per il gelo non ne ho davvero bisogno. Ti vengo vicino perché d’un tratto capisco che neanche così, con le quattro ruote per aria, sapremo la verità. E mentre tu e lui parlate di pompa della benzina, iniezione elettronica e spinta a propulsione, io mi metto esattamente tra di voi, in coda, a formare una piramide e sollevo un po’ le braccia, come a tenervi in gioco tutti e due. Sono ancora ferma, in questa posizione, che rivedo nitidamente gli occhi neri di mio padre incollati alla strada nello specchietto retrovisore. Siamo in macchina, per le vacanze estive forse. Io sono sola, sul sedile posteriore. Voi, mia madre e tu, papà, più vicini e complici. Non è che mi senta triste qui dietro. Soltanto ho paura che a un certo punto ci si possa scordare, di un figlio. Credo sia questo il pensiero, perché mi faccio a pezzi pur di starvi accanto e ho pure un piccolo cerchio rossastro all’angolo del polpaccio per le ore trascorse nell’incavo di moquette tra il divanetto e il bracciolo davanti. Vi guardo, con una lacrima depositata alla base degli occhi. Però lo so che è la macchina. Che è troppo stretta per starci come vorrei io. Lo so, ne sono sicura. Perché invece a casa per me siamo davvero il numero perfetto.

III

Abbiamo messo una calza di nylon al posto della cinghia di trasmissione. Pare si sia rotta durante il tragitto, lacerata dall’usura o da una fonte eccessiva di calore. A me è venuto da ridere. “Tutto quel tempo per una trovata così, di ripiego”, ho puntualizzato. Hai storto il labbro in un ghigno. Non ti va che non si possa più partire. Eppure non ti opponi, perché metti la freccia per uscire dalla stazione di servizio e poi ingrani la marcia. “Stiamo tornando”, urli. E non so se ti sento felice oppure ti si è appiccicata addosso quella strana euforia che ti prende quando non hai più scelta. Io mi stringo un ginocchio con la mano. Devo difendermi in qualche modo dai tuoi attacchi famelici. Poi abbasso il finestrino e allungo un braccio fuori. La macchina si gonfia un po’ e va più lenta, sta imbarcando aria, aria a non finire. Allora mi passo la mano sinistra sul viso, per cercare di riparare gli occhi dai capelli, e lo vedo. Con le anse rivolte all’interno e un punto leggero a separare le metà. Potrebbe essere un fiore a due petali, un otto abbozzato, un papillon in verticale, persino un Barbapapà. Ma è un tre rovesciato dentro una macchia granulosa e sfocata color del caffé. Una fitta mi parte da sotto il tallone e arriva, a piccole scosse, lungo la schiena. E’ un impulso elettrico, mi dico e prendo a fissarti per richiamare l’attenzione. Ora che ti guardo, con la luce del sole che ti si smorza in un occhio, mi sembra di non riconoscerti affatto. Controlli il volante distrattamente con appena due dita e scuoti la testa senza sapere il perché. Vederti così, malinconico e vecchio, non aiuta. Eppure mi consola pensare che dopo sarà tutto più facile. Continuo a guardarti indiscreta. Prima o poi ti accorgerai di me. Allora mi sporgo lentamente verso il sedile, con il palmo aperto e le pupille sgranate. Vorrei che mi prendessi la mano, che la chiudessi nella tua e mi dicessi di sì. Invece mi osservi in controluce, con una fessura non più grande di un taglio, trattieni un po’ il fiato e con uno scatto veloce delle spalle aggiungi “Ancora quella storia del neo, vero?”. Lo capisco così che neanche questa volta l’ammetterai. Tu il tre non lo vedi. Per te sulla pelle ho solo una croce a forma di stella.

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5 Commenti

  1. così onesto, così vicino che ogni parola mi ha sfiorato la pelle.
    Creare questo senso di appartenenza a storie, a ricordi, che non sono i propri, è il vero talento.

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