Juan Manuel Fangio
di Filippo Agazzini
Fangio Juan Manuel, di Balcarce, dell’undici, da emigrati abruzzesi fu partorito, e a diciott’ anni su e giù nel Sudamerica, che gran gare per scomposte terre brulle d’agave di forza disputava. Gran Premio del Norde, ché partiva da Buenos Aires a salire le Ande fino a Lima, e ritorno sempre spedito. A trentasette si spostò in Europa, all’Alfa Romeo, con Nino Farina, e nel 51 vinse il primo dei suoi cinque titoli. Lo vedevamo a Ospedaletti con Aurora, prendere le curve con la fulgida Maserati, il brillare del sole a picco sulla calotta, i muscoli sul maxi-volante a legno vivo. Fangio era l’orchestra a motore di serrata grancassa, su asfalto a tinta di grigio topo schiacciato, attorno le campagne tutte olivari, ogni movimento un rischio a morte, ogni colpo di accelerata un segno della croce in tuffo al cuore. Su un cumulo di terra a Monza, stanco e provato, dopo aver strappato per centimetri la pelle al camposanto, i meccanici pagati a percentuale, pensò la prima volta al ritiro. Lasciò nel 58, dicendo semplicemente: E’ finita, l’occhio sempre vivace, la forza ancora intatta, lo ricordavo a Monza sulla Maserati, sempre o spesso davanti, airone spesso planante, gran tempesta di ruote, calmo e gatto mammone, sulle strade normali il più prudente, uomo tranquillo e serio, lo vedevo di nuovo a Ospedaletti su quella curva secca che la lucidava, e la rendeva argento, e lo specchio asfalto, e la morte allontanata a brusco sterzo, e tempi a disastro, di lamiere contorte come carta, rischio di quota cento, Fangio sterzava dei volanti da camion con rimorchio, d’assenza servosterzo, in muscoli d’acciaio pieno torniti, per anni sollevava le strade come un tornado urlante. Fangio lo ricordo saettare da lontano, col rombo di minacciante bomba, dietro la curva un missile di terra a tutta fionda, ruote pesanti in rullo quasi di cingolo, l’asfalto un cielo di stelle nere, il cielo il circuito ideale dopo il traguardo ultimo della gara di tutti.
non conosco questo pilota. ma il testo ha la particolarità di ricreare un senso di velocità nelle immagini che fuggono rapide alle spalle, e di riprodurre negli aggettivi i suoni del motore. Breve e aderente all’atmosfera delle piste e di epoca.
sento il rombo del motore!
la spinta dei pistoni che brucia l’asfalto…
:-)
ps:
ho sempre avuto un debole per le macchine d’epoca!
una volta sono salita su una bentley, mi pare del ’76…
una figata!
Bonnuit
Chapuce
la bentley 76 (auto da sceicchi in disgrazia e/o da presentatori televisivi con manie di grandezza) e la monoposto di j.m. fangio tra loro centrano davvero poco. a dire il vero.
… lei ha ragione Solmi , quelle lì del Fangio erano monoposto, mica ci facevano salire le signore…
Però questo bel testo, denso e scattante, e “la spinta dei pistoni che brucia l’asfalto” della signora Capuche mi hanno fatto venire in mente un racconto stupendo di Buzzati, sul rapporto uomo-donna-macchina, “Suicidio al parco”, in cui tale Faustina per compiacere il marito che desiderava una Maserati, una notte si irrrigidisce tutta ed in una kafkiana metamorfosi si trasforma in una fiammante vettura e si parcheggia sotto casa. Un amore perfetto:
mandava dei respiri atletici e deliziosi a udirsi, Stefano stringeva voluttuosamente il cerchio del volante, accarezzava la turgida pelle della leva del cambio, il piede sull’acceleratore andava su e giù con la tenerezza di chi preme amate carni.
Ma la macchina Faustina invecchia e quando il marito la vuol vendere per poche lire, la poveretta si mette in moto da sola e “si suicida” lanciandosi contro il Castello Sforzesco.
bello quel racconto. buzzati era la bugatti degli italian writers, mica i pizza e fichi degli amanuensi del nulla/stimula.