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Appunti giapponesi # 1

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di Sergio La Chiusa

Sta tormentando con le unghie un cappello nero. L’ha acquistato a Londra – mi dice. Sembra esserne molto fiero. Dopo una breve conversazione, scopro che il giovane seduto accanto a me sul volo Francoforte – Tokyo si chiama Yasuhiro, è un ingegnere informatico, lavora dodici ore al giorno, dorme in un minuscolo appartamento a un’ora e mezza di treno dall’ufficio e tutte le domeniche, per mantenersi in forma, si sfiata su un campetto di calcio con gli stessi impiegati che rivedrà lunedì in azienda. Gli si infiammano per un attimo gli occhi quando accenna alla partitella domenicale tra programmatori e sistemisti. Ma subito si incupisce. Tace. Si direbbe che, almeno per un istante, abbia fissato lo sguardo sulla routine che l’attende dopo il breve viaggio in Europa, sulle trecento scrivanie e i trecento monitor militarmente inquadrati nell’open-space di un trentaquattresimo piano di uno dei tanti grattacieli di Tokyo. Si rianima solo quando, poco dopo, ritorna al suo cappello nero. L’ha acquistato a Londra – mi dice. Lascio cadere un’occhiata al cappello, e alle unghie che continuano a tormentarlo. Certo si è stabilito un intimo legame tra il feticcio londinese e il giovane ingegnere, un nodo che, con ogni probabilità, si stringerà caricandosi di nuovi e più contorti significati dopo il suo ritorno in Giappone.

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Durante il volo vengo a sapere che Yasuhiro e i suoi colleghi hanno diritto a un mese di ferie, ma non si assentano dall’ufficio per più di una settimana l’anno. Quando chiedo ragioni di una simile rinuncia, il giovane ingegnere mi aggredisce – E tu come ti sentiresti se mentre te la spassi i tuoi colleghi rimangono in ufficio a sgobbare? – Sto per dirgli la verità, e cioè che il solo pensiero di quei quattro imbecilli curvi sulla scrivania mentre me ne sto pancia all’aria in una spiaggia di Okinawa mi regalerebbe un surplus di piacere… Ma mi freno. Il suo sguardo sdegnato e un po’ colpevole è eloquente: un simile individuo non può che sentirsi un parassita! Cerco di addentrarmi in questo meccanismo per cui i subalterni non osano starsene a casa nonostante ne abbiano pieno e riconosciuto diritto. Tutto è cominciato negli anni ‘50 – mi dice – gli anni frenetici della ricostruzione e della ripresa economica. Allora, come milioni di api industriose, i giapponesi si sono messi all’opera per rimettere in piedi il Paese devastato dalla guerra e in pochi anni, grazie a una tenace operosità e a uno sviluppo tecnologico senza precedenti, hanno trasformato una distesa di rovine in una delle più ricche economie del mondo. Dopo decenni di sacrifici per il bene collettivo, come si può cambiare la nostra mentalità? – conclude, un po’ sconsolato, e come rassegnato a farsi carico di tutta l’eredità storica e culturale del Paese. Che, nel suo caso, sembrerebbe ridursi a un asfittico destino di membro d’azienda.

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I beni di lusso – ormai accessibili anche alla classe media – non sono un premio per il lavoro svolto, ma un olio che lubrifica milioni di ruotine dentate e permette a tutti i componenti dell’ingranaggio di svolgere una funzione specifica, elementare, connessa a molteplici altre funzioni specifiche, elementari, e non mutabili fino a che non sarà necessario sostituire le parti ossidate con nuove parti metalliche identiche, ma lustre e ben sagomate: le parti ormai inservibili verranno allora smontate e scaricate nei grandi forni comuni delle fonderie.

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Di tanto in tanto può capitare che un impiegato, inghiottito come ogni sera dall’imbuto delle tentazioni d’acquisto tra l’azienda e la casa, indugi più a lungo del solito davanti alla mirabolante offerta di cellulari macchine fotografiche computer di uno dei tanti shopping-center di Shinjuku, che sia lì lì per entrare nel sacrario e poi, all’improvviso, si gratti il capo e, come scosso da un lampo di lucidità, si chieda che farsene di una simile disponibilità di beni, se il prezzo da pagare è la perdita del bene primario: il tempo… Ma qualcosa deve averlo riportato ad altri e più impellenti doveri, perché dà un’occhiata nervosa al suo cellulare, armeggia un po’ con tutti quei tasti minuscoli, e subito fila via, si cancella nella calca operosa degli acquirenti.

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Con il mio zaino in spalla mi aggiro lungo le lussuose arterie di Ginza. Chiedo a frettolosi passanti indicazioni per la stazione dei treni. Ma quelli non mi lasciano nemmeno azzardare una pantomima. Appena mi sentono esordire in inglese, sorridono imbarazzati, piegano rispettosamente e un po’ macchinalmente le teste e filano via topeschi con le loro ventiquattrore, s’imbucano uno dopo l’altro nella stazione della metropolitana… Ma ci sono anche individui molto disponibili e non assillati dall’orario, come quest’uomo e questa donna insolitamente obesi. Sono loro a fermarsi. Si direbbero molto eccitati dalla prospettiva di aiutare uno straniero in difficoltà. Quando chiedo della stazione, mi rendo però conto che l’obesa è muta. E l’obeso sordomuto. Lui l’interroga con un contorcimento di tutta la faccia. Lei disegna ideogrammi nell’aria. E subito si lanciano in una fitta schermaglia di gesti e smorfie incomprensibili… Un po’ frastornato, e come intruso in un codice d’amore che non mi riguarda, sono io ora a piegare rispettosamente la testa e a scantonare. Dopo un centinaio di metri, mi giro: sono ancora lì, i due obesi, a tessere la loro tela incorporea di segni condivisi, una danza di ideogrammi che si polverizzano nell’aria.

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Appena rientrato, vedo emergere dal bancone la testa pelata dell’albergatore. Il Signor Tanaka, un omino curvo e raggrinzito, si dà un gran da fare per darmi il benvenuto con un’alternanza studiata di sorrisi e piegamenti del capo. Sto per ritirarmi nella mia stanza al quinto piano di un orribile palazzo di cemento armato completamente rivestito di cartelloni pubblicitari. Ma l’albergatore mi trattiene, mi dice di aspettare un momento e dopo una snervante serie di sorrisi e inchini cerimoniali si mette a trafficare con una calcolatrice. E’ molto concentrato, a giudicare dalla lingua infantilmente stretta tra i denti e dal sudore che gli luccica su tutto il cranio. Non capisco che intenzioni abbia. Di tanto in tanto mi fa cenno di pazientare, che ha quasi terminato. Poi, tutto gongolante, mi mostra la calcolatrice. Sotto un intrico di ideogrammi, posso leggere alcune espressioni di saluto in italiano: benvenuto, buongiorno, buonasera, buonanotte. Il Signor Tanaka sorride soddisfatto. Anch’io sorrido, e rispondo con una specie di inchino alla sua zuccherosa retata di inchini da cui risulta piuttosto penoso districarsi… In ascensore penso vagamente alle eccessive premure dell’albergatore. Poi mi butto sul letto per rilassarmi un po’. Quando, mezz’ora dopo, scendo per la cena, vedo l’albergatore balzare fuori dal bancone, scodinzolare incontro all’ospite, mostrare di nuovo la calcolatrice con tutte quelle espressioni di saluto. Evidentemente, ci sono precisi significati nascosti dietro quelle cerimonie, ma dato che l’ospite è un po’ tonto e stenta a comprendere i segnali, il Signor Tanaka si decide infine a tradurre il messaggio. Lo vedo che diteggia abilmente sulla calcolatrice e, poco dopo, sempre sorridendo, ma con una certa aggressività nei modi, mi pianta di nuovo la calcolatrice davanti agli occhi. Il messaggio della calcolatrice è inequivocabile: costo stanza 8.000 yen pagare subito grazie! Dietro, la faccia raggrinzita dell’albergatore sorride e continua ad annuire con una disgustosa bavina schiumante agli angoli della bocca.

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Entrare in una delle migliaia di sale pachinko del Giappone è come precipitare dentro una gigantesca catena di montaggio con centinaia di automi al lavoro e macchine diaboliche che producono un rumore infernale d’officina. Solo che questi non sono centri di produzione, ma luoghi di divertimento. Lo svago che segue al lavoro. I giocatori sono schierati lungo file parallele davanti a macchinette simili a flipper verticali. Se ne stanno inchiodati nelle loro postazioni, gli occhi fissi, come stregati dalle palline d’acciaio che rimbalzano a decine dietro il vetro, sbalzate qua e là in un labirinto di chiodini. Ci sono decine di file di postazioni pachinko. Sono tutte occupate. I giocatori – di ogni età e ceto, si direbbe – sembrano molto concentrati, e insieme disabitati, come se gli addetti alla sala giochi avessero provveduto ad aspirarne tutto il sangue e con il sangue pensieri ricordi preoccupazioni sogni fobie variamente mescolati nel corpo. Non staccano gli occhi dal flipper. Tengono una mano aperta su una manopola, l’altra spenzola inutilmente nel vuoto. Osservo con scrupolo uno dei giocatori, cerco di capire quale sia la sua funzione in questo gioco che – pare – è regolarmente praticato da circa metà della popolazione. Purtroppo, non ricavo granché dalle mie indagini. Il giocatore sotto esame – un anziano signore dall’aria molto mite – sembra infatti perfettamente immobile. Nemmeno la mano sulla manopola accenna a muoversi, tanto da sospettare che si tratti di un modellino di cera. Si direbbe che la presenza del mite giocatore sia del tutto inutile: si potrebbe smontarlo dallo sgabello e certo le sfere d’acciaio continuerebbero la loro corsa sfrenata tra i chiodini, di tanto in tanto una pallina fortunata verrebbe inghiottita da un foro e cadrebbe fragorosamente in uno dei contenitori di plastica accatastati lì accanto.

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Si cercano sempre nuovi espedienti per seppellire la vita, per non sentire il sangue che percorre tutte le precarie ramificazioni del corpo. Come se la sola percezione di essere vivi ci precipitasse dritti nell’orrore della morte, della possibile catastrofe – il delicatissimo meccanismo che d’improvviso s’inceppa proprio mentre noi siamo lì a contemplarlo… E allora meglio non sentirla la provvisorietà della vita, con i suoi umori, i suoi fiati maleodoranti, meglio ricacciarla indietro, specializzarsi in una delle tante pratiche di semimorte che con l’esperienza siamo riusciti a elaborare e che certo renderanno meno traumatico il trapasso. In questo, la tecnologia è di grande aiuto e ci fornisce di volta in volta nuove e raffinate opportunità di cancellazione che superano per efficacia collaudate pratiche liturgiche. Le sale pachinko, come molti altri esiti della modernità, lavorano su larga scala: in un unico spazio circoscritto riescono a radunare sorvegliare cancellare decine e decine di storie reali e ipotetiche… Certo, si tratta il più delle volte di cancellazioni provvisorie, non di un definitivo nirvana. Quando uscirà dalla sala giochi – ben rintronato dalle sfere d’acciaio che ancora gli rimbalzano ininterrottamente tra miriadi di chiodini conficcati dietro le pareti del cranio, semi-accecato dalla giostra delle insegne pubblicitarie che sfolgorano nella notte di Shinjuku – un’aria raggelante si insinuerà comunque nel bavero del mite giocatore, solleticherà ancora quelle rare fibre vive e doloranti, sepolte lì sotto la devastazione delle sfere d’acciaio.

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Nonostante la folla, in metropolitana c’è un gran silenzio. Un paio di ragazzi sono assorti nella lettura di grossi volumi di fumetti. Hanno l’aria trasognata. Tutti gli altri invece armeggiano con i cellulari spanciati. Sono un po’ impressionato da tutte quelle dita assottigliate, pallidissime, tentacolari, che si muovono con incredibile velocità e destrezza, senza esitazioni, e tutte quelle bocche che invece stanno immobili, un po’ inebetite, semiaperte, come per lasciare sgusciare dalla stretta fessura tra due schiere di denti anche gli ultimi rimasugli di un pensiero.

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Moltissimi passanti indossano mascherine bianche, da sala operatoria. Dicono sia una forma di rispetto. Influenzati e raffreddati, infatti, portano mascherine per limitare la diffusione di virus influenzali. Tuttavia, in mezzo a una simile calca di mascherati, si ha la sensazione di muoversi in una comunità sotto assedio, una comunità minacciata che tenta di difendersi con tutti i mezzi da un nemico invisibile, che – nonostante una sanguinosa tradizione di conflitti intestini e di suicidi di gruppo – si suppone debba arrivare dall’esterno… Certo, a ben vedere, i precedenti non mancano, e in qualche luogo della memoria collettiva sopravvivono vecchie e nuove aggressioni: che siano diarroici bombardieri americani che vanno defecando dal cielo grappoli di bombe incendiarie e ordigni sperimentali, squilibrati o fanatici che spruzzano gas nervini nei tunnel della metropolitana, nuovi e sconosciuti agenti patogeni letali o, più semplicemente, il più pervasivo esito della modernità, lo smog, o un banalissimo virus influenzale, loro, comunque, costretti a stanarsi, ammassarsi nelle strade, nelle metropolitane, nei treni, negli uffici, nei centri commerciali, si proteggono come possono: indossano mascherine bianche e quando sono costretti a rivolgersi a interlocutori occasionali fanno attenzione a non avvicinarsi troppo, per maggiore sicurezza reclinano un po’ la testa, indietreggiano, schermano la bocca con una mano (non sospettano – si direbbe – che il nemico può abitare anche l’interno, un batterio che si nutre, cresce silenziosamente, stabilisce segrete relazioni e si manifesta solo in prossimità di un definitivo collasso).

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Le ragazze sono incredibilmente curate. Essere belle sembra un dovere, un imperativo categorico, retaggio di una cultura che cambia facciata con la disinvoltura con cui ci si cambia d’abito, ma che, nella sua essenza, si perpetua di generazione in generazione. Così, se la geisha è oggi un rimasuglio di folklore annidato nei vecchi quartieri di Kyoto, i vagoni delle metropolitane traboccano di ragazzine stratruccate e attrezzate all’ultima moda che si preparano a invadere i locali notturni di Shibuya. Cinque ragazze hanno estratto contemporaneamente dalle borsette firmate il loro set di ciprie rimmel belletti specchietti e con precisione cerimoniale si stanno riassestando il trucco: si allungano le ciglia e gli angoli degli occhi, si rimpolpano le labbra, si tingono di nero le unghie contraffatte, si fissano con la lacca capigliature di un biondo incoerente. Giunte alla stazione di Shibuya, si inerpicano tutte e cinque sugli stivaloni zeppati e, un po’ sciancate, strette in minigonne da capogiro, sculettano pericolando lungo la banchina (secoli di fitti passettini da geisha devono averle rese geneticamente inadatte a queste zeppe di 15 cm, e ora sembrano camminare dolorosamente, come obbligate ad aggiornarsi a nuovi canoni estetici che sembrano privilegiare l’ostentazione d’Occidente alle più sottili allusioni dello Zen).

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Vicolo Ponto-cho. Qui capita ancora di vedere una geisha sbucare dalla porta di carta di un ristorante tradizionale, affrettarsi tra due file di casupole di legno con i tipici passettini fitti e cortesi, residui folcloristici di un’altra epoca… In un ristorante, un’anziana geisha sta cenando con un cliente. Non si parlano. Lui – si direbbe un vecchio e saputo uomo d’affari – scambia qualche battuta con i cuochi – cinque omini con dei grossi cappellacci bianchi che, allineati dietro il bancone, preparano sushi con una destrezza impressionante, con movimenti da prestigiatori sgusciano gamberi e scampi, avvolgono rafano e cubetti di riso in scure foglie d’alga. Il saputo uomo d’affari fuma, beve birra, e nemmeno la guarda la geisha, che, lì accanto, con movenze eleganti, apprese dopo anni di duro apprendistato, sta spiluccando qualcosa da un ciotola di ceramica e di tanto in tanto si guarda intorno, con misura, sorride un po’ imbarazzata, con misura. Non sa bene che fare, si direbbe. Alcuni avventori, intorno, mangiano con voracità: con i bastoncini estraggono tagliolini dalle ciotole fumanti e poi, le teste semi-affondate, risucchiano rumorosamente la brodaglia calda.

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Quello di Tsukiji è uno dei più grandi mercati del pesce del mondo. Qui arriva pesce freschissimo dai mari di tutti i continenti. Un pescatore, la faccia stracotta, rugosa, le mani simili a pale incrostate (così diverse da quelle rachitiche e pallide delle masse impiegatizie) ben piantato dentro due stivaloni di gomma, mi spiega che quei tonni stragonfi accatastati lì in fondo provengono dalla Sicilia e quegli altri dal Portogallo e quegli altri ancora dalle acque della Nuova Zelanda. Sembra orgoglioso del suo lavoro. Mi spiega che l’ha appreso dal padre, che il padre l’ha appreso dal nonno, il nonno dal bisnonno e così di seguito per generazioni e generazioni. A giudicare da come gli brillano le due feritoie degli occhi deve sentirsi onorato di appartenere a questa dinastia minore. Intorno, c’è grande confusione. Sono le 10 di mattina e stanno già impacchettando tutto il pescato invenduto: un gran traffico di lavoratori che trasportano scatolame, carretti elettrici che sfrecciano lungo le corsie tra file di bancarelle e centinaia di lavoratori che, dietro le lampadine ciondolanti dai tendaggi, tagliuzzano alacremente una gran quantità di pesce da inscatolare e congelare. Il mercato è un enorme hangar brulicante. Ci si aggira in un intrico di corsie strettissime, calpestando pozze d’acqua, pinne, avanzi di pesce, stretti tra pile di scatoloni di polistirolo traboccanti di tentacoli di polipi, seppie, cozze, ostriche, gamberi, granchi, dentici, cernie, grossi tonni stesi su assi e sgrondanti acqua salata, una straordinaria varietà di specie viventi che ancora boccheggiano, respirano mollemente nei gusci, agitano le chele in una frana di cubetti di ghiaccio. E ci si sorprende che con una simile quantità di morti e agonizzanti non ristagni nell’aria la tipica puzza di pesce dei nostri mercatini rionali.

(Continua. Da: “Poesia da fare” – n.6, dicembre 2005.      Immagine: il treno superveloce Shinkansen e il monte Fuji)

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26 Commenti

  1. Franz, è molto bello questo testo. Ha la limpidezza… non so, di un racconto disegnato da Taniguchi. Delicato, semplice, elegante, attento. Ma è sempre così Sergio La Chiusa?

  2. premetto che lo leggerò stasera, è molto lungo, per il resto, a parte la meraviglia della cima innevata, quel treno mi disturba un pò…

  3. Be’ ma quella foto “è” il Giappone: sua maestà il monte Fuji fermo per l’eternità, e la tecnologia sparata come un missile.

  4. Indubbiamente un bel pezzo, che però mi fa cadere in una depressione totale al pensiero che brandelli consistenti di genere umano si stiano riducendo a questo: Si cercano sempre nuovi espedienti per seppellire la vita, per non sentire il sangue che percorre tutte le precarie ramificazioni del corpo. Come se la sola percezione di essere vivi ci precipitasse dritti nell’orrore della morte, della possibile catastrofe – il delicatissimo meccanismo che d’improvviso s’inceppa proprio mentre noi siamo lì a contemplarlo… E allora meglio non sentirla la provvisorietà della vita, con i suoi umori, i suoi fiati maleodoranti, meglio ricacciarla indietro, specializzarsi in una delle tante pratiche di semimorte… e poi mi dico che non tutto il Giappone sarà così, che d’altra parte la vecchia cultura europea, pur col suo passato di orrori senza limite, riuscirà a mantenere ed elaborare qualcosa di positivo nel suo futuro e mi dico anche altre consolazioni per non disperarmi, ma, francamente, non so.

  5. Quello che più mi ha toccato è stato il pezzo sul mercato del pesce, Tsukiji;
    nulla è più vero di questa realtà agonizzante.

  6. Belle immagini che non si chiudono come un click d’obiettivo ma sfumano lentamente. Non solo limpidezza ma prosa con le redini della poesia, qualche cosa viene sempre evocato. E osservare -non “cercare” di capire come il turista tonto che tanto bene conosciamo, sempre alla ricerca di grimaldelli che mai passano nella serratura…

    Bravo Sergio -e un saluto.

  7. “…lavora dodici ore al giorno, dorme in un minuscolo appartamento a un’ora e mezza di treno dall’ufficio e tutte le domeniche, per mantenersi in forma, si sfiata su un campetto di calcio con gli stessi impiegati che rivedrà lunedì in azienda”. Nippofigata.

  8. Bello. Mi è piaciuto soprattutto il tono misurato, neutro, quasi privo di io, che dà ancora più risalto e nitidezza alle immagini.

  9. La verità sulle cose non è sicuramente nell’occhio di chi le guarda e le descrive.
    Sergio La Chiusa, ma cosa ti hanno fatto i giapponesi? Hai dormito male sui futon? Ti mancavano gli spaghetti? Ho passato quasi un mese a girare il Giappone e mai parlerei di questo paese e dei suoi abitanti con questo spregio e questa totale svalutazione del carattere e delle peculiarità di questo popolo.
    Qui i giapponesi sono: omini rincoglioniti che non osano sfruttare le loro ferie per non danneggiare i compagni di lavoro e l’azienda, e tutto il senso e il rispetto della cosa comune, così radicato in questo popolo e allo stesso tempo così distante da noi, (e sicuramente così poco comprensibile per chi non voglia fermarsi neanche un attimo a valutarne il significato e la portata) è tirato via in venti righe di sarcasmo e di italica e assenteista drittoneria.
    I giapponesi che incontra La Chiusa sono sfuggenti, topeschi, obesi, ridicoli nei loro tentativi di comunicare, il padrone dell’albergo è un mostro sadico curvo e raggrinzito, che dietro la sua “zuccherosa retata di inchini” chiede soldi al povero turista sfoderando addirittura una disgustusa bavina schiumante agli angoli della bocca. Che fosse un cartone animato? un manga?
    Mentre La Chiusa girava per il Giappone, con il suo zaino in spalla pieno di pregiudizi, (diffidare sempre di chi si vanta di girare “zaino in spalla” icona glorificata del “viaggiatore-non turista per carità”, e non con un trolley, che sarebbe pure più comodo. Di solito nello zaino non porta apertura e disponibilità, ma solo mutande e calzini), tutte le decine di giapponesi gentili, cordiali, che, pur non parlando inglese si facevano in quattro per indicarmi la strada e anzi mi ci accompagnavano, forse si erano rintanati in casa per evitare l’incontro con il turista sdegnoso e sdegnato. E forse anche tutti quei giapponesi onesti e onesti e onesti e onesti come qui neanche ce lo immaginiamo si erano nascosti per non dover passare da fessi agli occhi di La Chiusa. Come quelle cassiere dei negozi che di fronte alla straniera impacciata a contare le monete giuste, restituivano il denaro in eccesso, o come la commessa del supermercato che a gesti cercava di comunicarmi che a quell’ora scattava l’offerta speciale sui prodotti di rosticceria e non dovevo più pagare la cifra scritta sul cartellino ma quella che premurosamente mi scriveva lei sulla calcolatrice. Per non parlare del padrone del ryokan, la pensione tradizionale giapponese, che mi restituì sull’unghia, senza trattenere una penale, i soldi di una stanza che avevo già pagato il giorno prima ma che chiedevo di lasciare per aver cambiato progetti di viaggio. A Roma, Milano o Venezia sarebbe mai successo? Certo, forse anche l’onestà è frutto di quel senso fortissimo della comunità che qui, in Giappone, viene sempre prima dell’individuo ed esercizio strenuo e frustrante di autocontrollo. Un autocontrollo che poi va a sfogarsi nei Pachinko o nell’adorazione feticista di un capello nero, ma fa piacere passeggiare di notte per Tokyo senza paura di essere rapinata o stuprata e vedere le biciclette parcheggiate per strada senza lucchetti e catene.
    Ma non sono qui per fare confronti con le nostre abitudini, anche se viene naturale in viaggio paragonare la nostra esperienza di vita con quelle che incontriamo: io vado con i miei occhi di italiana in Giappone e vedo cose strane, diverse, lontane. E i giapponesi sono strani, diversi e lontani. Forse i più strani e lontani tra tutti i popoli che ho visto in giro per il mondo. Certo, i pachinko sono stranianti, fanno rumore, non si guadagna nulla e non si capisce cosa facciano i giap per ore in questi locali, le luci di Shibuya e di Shinjuku sono tante e frastornanti, il consumismo sfrenato come in un centro commerciale di Torri di Quartesolo o di Chicago, la gente porta la mascherina antivirus, non ti sputa in faccia quando parla perché mantiene una distanza dall’interlocutore maggiore di quella a cui siamo abituati, i ragazzi in metropolitana giocano con i cellulari (che strano), ma qui dice La Chiusa, diversamente dai nostri adolescenti, hanno bocche immobili, inebetite e semiaperte, e le ragazze si mettono le zeppe e caracollano sulle gambette storte, da noi forse hanno le gambe più dritte e fanno i passi più lunghi correndo lo stesso dietro al sogno americano. E allora? Mai visti i Bingo di periferia, le slot machine a Las Vegas o pure a Portorose o altro tipo di cerimonie rituali assolutamente inutili e alienanti in altre parti del mondo? In Yemen gli uomini portano il loro coltellaccio infilato nei pantaloni per far vedere quando sono fighi e virili, ma nessuno si sognerebbe di prenderli in giro. Per paura forse? O forse parlando di paesi islamici, di medio oriente o di paesi sudamericani poveri non è intellettualmente ammesso il parlare male, il sarcasmo, l’intolleranza, il sottile (neanche tanto sottile) razzismo che spira da questo pezzo di La Chiusa? O è forse più politicamente corretto essere razzisti con i giapponesi che verso gli indiani o i sudanesi? In Italia e in Europa e in altri luoghi, esorcizziamo la nostra paura di morte picchiandoci negli stadi, ammazzandoci correndo ubriachi in auto, celebrando il Saturday Night Fever agitandoci fino allo sfinimento nelle discoteche, guardando le televendite in tivu, partendo per il ponte di Ferragosto accumulando 35 chilometri di coda tra Portogruaro e Mestre e in tante altre attività ridicole.
    E allora? Siamo più bravi?
    Se poi il pezzo voleva essere solo un esercizio letterario di pura invenzione e rappresentazione di una realtà cupa e agonizzante, allora la cosa è diversa e non mi intrigo.

  10. Straelena:
    Il tuo post dice essere contro i pregiudizi che vedi nel testo di La Chiusa ( e che io non ho per nulla visto -l’averci poi visto del razzismo mi è parso persino demenziale); eppure confesso di trovare nelle tue critiche peggio che pregiudizi: mi pare un testo da agenzia viaggi tutto teso ad invitare il turista a scoprire quant’è bello il mondo-giro-giro-tondo. (Forse hai digerito male tu gli spaghetti ;-)). Il testo di La Chiusa poi mi pare comunque meno un reportage che una scrittura volta a rendere un vissuto ed un veduto -e con lievi mani, senza farsi prendere dalla smania di “capire”. E poi via… il Giappone è quello sì dell’Ikebana o della Cha-no-yu ma anche quello degli alberghi i cui posti letto sono dei semplici colombari.

  11. meno male che ci sono interventi come quello di straelena, che pone almeno alcuni interrogativi, fa vedere punti di vista differenti, ridimensiona un po’ le descrizioni davvero monoorientate di La Chiusa. Non sono mai stato in Giappone, non ho giudizi di prima mano, ma sono grato a straelena per quel che ha scritto.

  12. la connotazione etnica di “difetti” che invece e in sostanza appartengono al mega soggettone globalizzato neoliberista (ben attento a sopportare e promuovere la “differenza”, la macchietta locale) “passa” in effetti come razzismo.

  13. Non so, nemmeno io leggo nel pezzo un attacco al Giappone. Però è anche vero quello che dice Sparz, che gli interventi come quello di Straelena sono più importanti degli interventi a inchino. Sono un’occasione per “collaudare” il testo.

    Ma Sparz sei quello dell’aristogas?

  14. c&c
    Mah, per quanto mi riguarda sbagli bersaglio, oltre a quotar male:)
    La questione non è tanto cosa io avrei voluto leggere, ma come quello che leggo è stato scritto, come può venir recepito.
    E se permetti, oltre alla scrittura chiara e cristallina, oltre al respiro della punteggiatura e quello dei piccoli capoversi tra gli asterischi, io avverto anche il contenuto. Da questo punto di vista, non è che straelena abbia letto un altro post, o che le sue impressioni sul razzismo del pezzo siano demenziali e campate in aria. Al netto della veemenza, e del contrappunto positivo, il suo intervento imho ci sta, per il motivo che ho detto sopra.

  15. c&c, bisognerebbe smetterla di attaccare la gente dicendo che hanno “livore”, attacca quello che dicono piuttosto, argomenta. A me è capitato tante volte, mi è capitato anche che mi diffamassero, che utilizzassero il mio nome in commenti non scritti da me, che mi ingiuriassero o prendessero per il culo nascondendosi dietro un nick col benestare del padrone della baracca. Tutte queste cose sono tristi. Bisognerebbe accettare come un valore la – chiamiamola così – veemenza critica (non la veemenza sputtanatoria e ridicolizzante).
    Sto leggendo le lettere di Lorenzo Milani. Sono veementissime! E intelligentissime. In una lettera fa il ragionamento opposto a quello che ho sempre sentito fare. Dice che proprio perché si è capito che il bene e il male stanno dentro tutte le posizioni, bisogna “leticare con tutti”. Non dice che bisogna essere sommessi con tutti, dice che bisogna litigare.

  16. c&c
    mi limito a prendere atto del fatto che detieni le chiavi dell’interpretazione autentica.
    Per quanto mi riguarda invece, il contenuto di un pezzo, mio o di altri, è sempre e di principio: negoziabile con l’unico limite dell’attacco personale. Posizioni antitetiche credo. Penso di riuscire a sopportarlo:))

  17. Quando mia figlia tornò da una gita scolastica in Inghilterra, le chiesi cosa avesse visto di particolare, cosa le fosse piaciuto o meno. Le “solite ” (sic) cose insomma. Mi rispose che era un paese noioso, e violento: pioveva sempre e la gente ti pestava prima i piedi e poi diceva “sorry” ed una sera sono stati aggrediti da un gruppo di bad boys ubriachi che hanno spedito un paio di compagni di classe all’ospedale… Bene, questa è stata la “sua” Inghilterra. Razzismo? Pregiudizi? Cecità? Ignoranza? Superficialità? Mi ha descritto quello che ha visto con lo stato d’animo che aveva ed il suo racconto è stato preciso e vissuto e sincero: ripeto: è stata la sua Inghilterra che di sicuro mai coinciderà con quella “reale” (le virgolette sono d’obbligo) che possiamo apprendere in qualsiasi documentario ;-)… -Non per questo credo che d’ora in poi odierà i perfidi figli d’Albione… Potremmo naturalmente parlare dell’età, è un’adolescente, e con questo dire che non fa testo: il che sarebbe un errore: ha infatti guardato e vissuto il suo viaggio senza la premura di dover scrivere una tesi o un reportage o un racconto -nulla aveva da dimostrare o da capire. E questo è il punto, il capire, anzi il voler capire, a tutti i costi, evitando però molto spesso che le immagini ci entrino dentro cosi come sono, cosi come le sentiamo -sempre alla ricerca come siamo delle mediazioni culturali che ci aprano le magiche porte. Siamo ancora troppo legati ad una cultura da Baedecker. Si fa un viaggio e si torna con la pretesa di spiegare un paese diverso: il testo di La Chiusa però (è il parer mio!) evita proprio questo errore e, mi corregga se sbaglio, non è un reportage, bensì una sorta di taccuino interiore. Voler trovare “Il” Giappone nel suo testo è come non vedere la foresta per via degli alberi che le stanno davanti.

  18. Cristallini, lisci, precisi, sfioranti come un’ortica :) sembra Ripellino che parla di Mandelstam.

    Io sto con Elena, semplicemente perchè non sfiora, entra in un popolo e gli va dritto al cuore.

    Il Cairoli

  19. La neutralità di un testo non esiste. Il filtro applicato da un autore lavora, eccome, in ogni caso. Il Giappone che si legge in questi appunti non è sicuramente tutto il Giappone che l’Autore ha visto, che ha sua volta non è quello che ha avuto davanti. Doppio filtro, dunque. Ciò che leggiamo, a mio parere, è quello che intellettualmente e culturalmente ha fatto riflettere o ha suggestionato l’Autore, anche (o soprattutto?)in relazione alle sue stesse radici consumistiche e occidentali. Non mi pare intenzione dell’Autore fornire un ritratto esaustivo della società o dei costumi giapponesi, per questo abbiamo già (e sufficit) Licia Colò…
    Un cenno a parte merita la scrittura, elegante ed essenziale.Invidiabile.

  20. non sfiora e va dritto al cuore quindi va bene. rispettare il punto di vista no? a me piace perchè non ha pietà, non guarda in faccia gialla a nessuno.

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