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El boligrafo boliviano 8

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di Silvio Mignano

Mercoledì 24 aprile 2007

«Come ti chiami?».
«Lázaro».
«Non si chiama Lázaro, straniero, il suo vero nome è Ramón, però qui tutti lo chiamano Lázaro».
«E perché?».
«Perché era morto ed è risuscitato».
Questa è la storia di Ramón detto Lázaro, senza naso, o almeno con una sorta di moncherino di cartilagine tenuto su alla meno peggio da un cerotto sudicio, senza metà di un orecchio, curvo su una spina dorsale che sembra aver perso il baricentro, zoppicante su un paio di gambe che faticano ad andare d’accordo, come se fossero in prestito da altri corpi.
E un cerimoniale di reduci da un cimitero sembra davvero la folla che sale dalla calle Tumusla, all’incrocio con la Buenos Aires. Uomini e donne, quasi tutti sotto i trent’anni, che si trascinano infagottati in stracci di un uniforme color terra, fango rappreso, argilla che viene direttamente dalla creazione o dalla resurrezione.
Lázaro se lo era portato via un camion, mentre rubava o chiedeva l’elemosina, i due unici lavori che abbia mai imparato. Siccome non respirava più, o almeno così sembrava e così aveva dichiarato frettolosamente il medico legale accorso più per dovere che per convinzione, lo avevano portato già alla morgue, a molti chilometri dal quadrilatero di strade e vicoli che rappresentava tutto il suo mondo. Due ore dopo – raccontano Juan, Carlos e Teresa – se lo sono visto davanti, che tornava zoppicando più di prima, strascicando le suole più di prima, grattandosi nuove piaghe e un foro cavernoso dove un tempo, secondo tutte le apparenze, doveva esserci stato il naso. Così Ramón è diventato a tutti gli effetti Lázaro. Ha conquistato con le sue forze il diritto a quel nome, e forse si è anche reso conto che si trattava della prima cosa realmente sua, il primo possesso che nessun poliziotto o nessun altro niño de la calle poteva strappargli e portargli via.
Piove a dirotto e le strade in forte pendenza sono torrenti viscidi nei quali scorre acqua mista ad altri liquidi di dubbia provenienza. Quello che più sorprende sono le centinaia di botteghe ancora aperte alle dieci di sera. Un fitto succedersi di bancarelle illuminate rigonfie di sacchi di cereali, piramidi di arance e pompelmi, bottigliette di bevande gassose, lastre di carne secca lucide come marmo purpureo. Minuscole baracche sciorinano cacciaviti di ogni dimensione, chiavi inglesi, chiodi e bulloni, vestiti usati, gomme da masticare, riviste, videocassette e DVD pirata. Matrone apparentemente addormentate vigilano sulla mercanzia, sedute avvolte in aguayos multicolori, cullando i borsalini scuri sulla sommità incerta delle loro capigliature assurdamente barocche.
Juan, Carlos e gli altri salgono dal fondo di un vicolo, una pattuglia tutt’altro che minacciosa e che sbanda vistosamente, lasciandosi andare a rollii e beccheggi intrisi di nausea. Gli occhi rossi e febbrili sono l’unica cosa viva e mobile nei loro corpi che si sciolgono quasi colando sull’asfalto per raggiungere quell’altra mota gorgogliante.
«Lui è Manolo, il capitano», mi dicono.
«Già, e vinceremo», conferma lui.
Stanno organizzando una squadra dei ragazzi di strada per sfidarci nello stadio comunale. Sono eccitatissimi, per loro sarà un evento storico. Si chiameranno Mixturita Boys, i coriandoli, perché avranno magliette di mille colori, contro le nostre divise azzurre. Lo guardo, spaventosamente magro, incerto sulle gambe, il petto incavato chissà da quale infermità, probabilmente tubercolosi, e mi chiedo come possa pensare di reggere novanta minuti su un campo regolamentare.
«Tu che cosa fai, Manolo?».
«Rubo», risponde semplicemente, senza preoccupazione ma anche senza alcuna spavalderia.
Non c’è niente da vergognarsi né da vantarsi, non è un criminale né un bandito romantico o un eroico ribelle della strada. È solo il suo lavoro, o almeno ci prova.
Un uomo risale il marciapiedi tenendo stretta per mano una bimba in uniforme, con lo zainetto sulle spalle. Torna da scuola, alle dieci di sera, chissà da quale turno in aula. Il padre si guarda intorno preoccupato mentre passa accanto ai vagabondi che adesso se ne stanno seduti in fila per terra, sotto una tettoia. Affretta il passo, scappando verso una casetta quasi certamente minuscola e povera, ma pur sempre una sicurezza borghese, un luogo protetto da quattro mura e bagnato dalla luce gialla di una lampadina.
Anche Teresa e Luci se ne stanno sprofondate tra la parete e un mucchio di spazzatura. Luci ha una specie di mantiglia a rete larga che le copre le spalle e una guancia ornata da una cicatrice lunga. A entrambe mancano i premolari e qualche incisivo. Sono prostitute, che cos’altro possono fare? Si alzano a fatica, accentuando la pesantezza dei movimenti come se fosse una battuta di spirito. Si appoggiano l’una all’altra e ridono senza far rumore. Poi raggiungono gli uomini che si stanno accalcando davanti al furgoncino dei volontari italiani che distribuiscono panini e api caldo, una bevanda rugginosa a base di farina di mais, limone, cannella, zucchero e chiodi di garofano.
Juan beve avidamente, fianco a fianco a un altro ragazzo. Le due spalle si toccano, si urtano, Juan perde l’equilibrio, si gira verso l’altro con un ghigno feroce. Non c’è quasi nessuno, qui, che non abbia i turbinali bruciati dal tiner, un solvente chimico, o il cervello annebbiato dall’alcol.
«È Oscar», dice Carlos, allarmato.
«Attento, con Juan e Oscar finisce male».
«È normale, no? È una storia di donne».
Oscar adesso è tranquillo, sta ridendo con Luci, si rilassa per un attimo, sorride a Manolo, anch’io sono nella squadra, no?, gli fa cenno, il collo proteso e il mento alzato, un bersaglio fin troppo facile, Juan gli sferra un gancio destro, l’altro barcolla, cade quasi trascinando con sé quelli che stanno frugando nella cesta del pane. Poi si rialza e raggiunge l’aggressore, le mani che si cercano a tentoni, si appoggiano brusche sui petti. Istintivamente faccio un passo in avanti, mi sembra tutto così stupido, qualcuno dovrà pur separarli.
«Stai fermo», mi dicono, «Da un momento all’altro escono fuori i coltelli. E quelli li sanno usare, sai? Dal basso verso l’alto, giusto qui», e si tocca la pancia.
Invece è tornata la calma, la tensione sembra essersi sciolta nell’apatia. Oscar si lamenta in un modo comico.
«Non è mica giusto, stavamo ridendo, si parlava di calcio e quello mi molla un pugno. Siamo amici, no? E tutto questo per che cosa? Una donna», fa una smorfia di disgusto, «Una donna! Vi sembra il caso?».
«No, che non vale la pena», gli fa eco un altro, scuotendo la testa.
Un uomo se ne sta sdraiato in diagonale all’imbocco di una traversa, come un’installazione scivolata via da una biennale. Supino, gli occhi chiusi, respira a fatica e borbotta qualcosa tra sé, e allora una bolla di saliva biancastra gli si forma tra le labbra socchiuse ed esplode insieme a schizzi densi di alcol. Alcuni passanti si fermano davanti a lui e lo fissano senza dire una parola, inscenando una muta conversazione, e il bello è che si capiscono perfettamente.
Una ragazza sale dalla curva che si perde verso la Buenos Aires. Magra, slanciata, le lunghe gambe e il sedere alto fasciati da un paio di jeans chiari immacolati. Non si capisce come riesca a non sporcarsi in questo torrente di fango e liquami. Anche le scarpe da tennis sono perfettamente bianche, come la fascia che le cinge i capelli lunghi. Sulle spalle ha uno zaino rosa caramella con le principesse di Disney in rilievo.
Non deve avere più di diciotto anni ed è bellissima, gli zigomi alti, il naso diritto, gli occhi allungati e scurissimi, il sorriso miracolosamente risparmiato dalla caduta dei denti che colpisce chiunque, da queste parti. La sua bellezza è struggente, in qualche modo mi fa male, e guardandomi attorno mi rendo conto di non essere l’unico a provare questo sentimento.
«Era la donna del Camba», sussurra Manolo.
«Poveraccio, il Camba, l’ha fatto impazzire».
«Be’, non è andata bene nemmeno a lei. Il suo bimbo è morto una settimana fa».
«Però non era del Camba, l’aveva fatto con un altro uomo», commenta Oscar, come se questo cambiasse le cose.
La ragazza volteggia in mezzo alla banda di disgraziati che sembra venire da un altro pianeta. A uno manca un orecchio, a un altro un occhio, un terzo è sciancato, un quarto devastato dalle cicatrici. Tutti espongono quasi con orgoglio una finestra nella bocca, il buco osceno lasciato dai quattro incisivi superiori che sono andati via chissà da quanto tempo. Lei civetta con tutti, prende con delicatezza un bicchiere di api, lo assaggia appena, poi si riempie lo zaino di pagnotte. Penso che ha perduto un bimbo da una settimana e non riesco a comprendere questa sua folle allegria.
«Che cosa credi, fa la puttana», spiega Manolo con una punta di cattiveria che non ha riservato a nessuno degli altri.
Manolo è il leader, la sua barba spruzzata di grigio, incorniciata dal cappuccio di lana di lama e da una sciarpa nera di sudicio, gli dà un’aria di saggezza che incute rispetto nei compagni di strada. È per questo che farà il capitano della squadra. Stringe il bicchiere di carta tra le mani, più per riscaldarsi che per pregustare il sapore dell’api.
«Dov’è che dormi, Manolo?».
«Per strada, dove capita, dove c’è un pezzo di cartone o un muro. Cazzo, da qualche tempo piove troppo spesso. Però i miei compagni non li abbandono di certo».
Ma uno non può essere don Chisciotte senza un Sancho Panza. Accanto a Manolo perciò c’è David, il torso grosso che stona sotto le guance glabre e lo sguardo liquido e perso. Le spalle sono piegate in modo strano, una più alta dell’altra. Agita le braccia e le manone e ripete che sì, Manolo è un fratello, anzi, un padre, ma le sue parole diventano presto incomprensibili, distorte dalla saliva che gli cola dalle labbra lucide e spesse.
«Il problema è mangiare. Il problema è mangiare», ripete, o almeno così ci sembra di capire.
«Tieni», gli dice Manolo, passandogli la sua pagnotta, «Io non ho mica fame».
Ha quasi smesso di piovere e oltre il furgone, dall’altro lato della strada, viene un chiasso che gradualmente si scioglie in una musica a tutto volume. Il due giugno ci sarà el Gran Poder, il carnevale pacegno, e dovunque nella città, a qualsiasi ora, ci sono gruppi che provano le coreografie per la loro entrada. È una morenada, dice Lázaro, sgranando gli occhi, osservando come in trance i cinquanta ragazzi e ragazze che ballano in fila per cinque sulla strada in ripida pendenza, assecondando la musica che esce da due enormi casse poggiate sul cofano di un’automobile, ruotando in jeans e camicia come se già indossassero i complicati costumi di Oruro.
«Tu la sai ballare la morenada, Lázaro?».
Non risponde, continua a guardare con gli occhi sbarrati e la bocca aperta. Le ragazze, Teresa, Luci e la stessa ex del Camba, muovono istintivamente i fianchi, ma poi si arrestano, impotenti. La distanza con il gruppo di ballerini aumenta, noi non ce ne rendiamo conto ma c’è già un profondo mare tra quei corpi allegri di musica e questi altri rigonfi di alcol e di solvente, tra lo stereo con la morenada, il furgone con le pagnotte e gli occhi di Lázaro, che hanno conosciuto la morte e la resurrezione.

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3 Commenti

  1. non ci crederai ma ci pensavo proprio in questi giorni!
    Chissà quando Gianni pubblicherà la prossima puntata de ‘el boligrafo boliviano’?
    me lo voglio assaporare con molta calma, grazie e buon pomeriggio!:-)

  2. Belle descrizioni, accurate e precise, le bancarelle illuminate e le minuscole baracche, immaginare di sentire in bocca il sapore di un api caldo, lasciarsi andare in una morenada, muovendo istintivamente i fianchi, tutto questo alletta i miei sensi…

    Bon soir
    Chapuce

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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