Undici settembre
di Valter Binaghi
Il documentario s’intitolava 9/11 in Plane D. Impressionante.
La ridicola breccia nel muro del Pentagono, dove si sarebbe infilato un boeing 777, era un’offesa all’intelligenza di un bambino di terza elementare.
Lo strano apparecchio fissato sotto la pancia di uno dei due aerei schiantatisi sulle due torri: si vedeva bene nelle immagini, e poteva essere uno strumento per teleguidare. Poi la serie di esplosioni all’interno dei grattacieli, come durante una demolizione programmata. E quale angelo custode ha fatto trovare a un pompiere il passaporto intatto di Mohammed Atta, nella montagna di cenere di ground zero?
Ma c’era di peggio: i presunti dirottatori avevano frequentato un corso per pilotare piccoli aerei da turismo. Passare da quelli a un boeing e centrare un grattacielo è come vincere in formula1 avendo prima guidato solo una bicicletta.
Washington fu subito certa del mandante, ma la rivendicazione di Bin Laden arrivò molto più tardi e inizialmente pareva imbarazzata: sembrava uno che ha pescato il jolly e non sa ancora come usarlo.
In compenso, le guerre in Afghanistan e in Irak erano preparate, come si seppe poi, da mesi, ben prima dell’11 settembre.
Chi ha attaccato l’America?
Si accesero le luci e Bonetti si guardò intorno.
La sala non proprio gremita, ma il pubblico era numeroso e vario.
C’erano facce truci e avambracci pelosi da Decima Mas, ma anche professionisti locali, con signore eleganti: la televisione è cheap e il teatro ha rotto i coglioni, proviamo la droga pesante del complotto. Qualche faccia conosciuta: Maccagnini della Prealpina, che insegnava storia al liceo (ma che gli raccontavano poi, ai ragazzi, di queste cose?) e la Carnaghi de La Provincia.
Un giovanotto allampanato, coi capelli lunghi e non troppo puliti sedette al fianco di Bonetti, e tirò fuori un taccuino. Stampa, o libero pensatore.
Il conferenziere seduto dietro una scrivania tossicchiò nel microfono, il brusio cessò immediatamente. La parte più gustosa veniva adesso.
Chi comanda in America?
Il conferenziere parlò di una setta rabbinica, tali Lubavitcher, che ha un’influenza documentabile, attraverso eminenti membri e consulenti dell’amministrazione Bush, sul governo degli Stati Uniti.
Un ringhio diffuso percorse le file più giovani e nere: erano venuti per questo.
Un paio di coppie distinte lasciarono invece la sala sommessamente.
Sempre gli ebrei. Razza dannata o popolo di Dio, è sempre di loro che si parla, ma il relatore si affrettò a precisare che le sue intenzioni non erano affatto antisemite: una lobby non è un popolo, che diamine.
– Va bene – disse uno dal pubblico: – ma chi è che può costringere a fare qualcosa il governo della prima potenza economica mondiale? –
– Del primo debitore mondiale, vuol dire. Certo, oggi sono tutti felici di essere creditori degli Stati Uniti, perchè pagano in dollari, ma il dollaro come ogni moneta vive di fiducia. Cosa succederebbe se qualcuno che possiede un bel pezzo del debito americano decidesse di riscuotere? –
E parlò delle banche.
Banche familiari e gelosamente preservate da ogni indiscrezione, mai quotate in borsa e praticamente inafferrabili come spiriti dell’aria, che guidano l’economia mondiale speculando sulle monete, ricattando nazioni e costringendo imprese perennemente indebitate a un’espansione dissennata e globale, fino a mettere in competizione l’operaio brianzolo col cinese che guadagna 70 dollari al mese.
Famiglie, imprese, nazioni, tutto stritolato nelle fauci di Mammona.
– Non sono mica il primo a dire queste cose – concluse: – certo, agli altri non è andata bene. Ricordate Ezra Pound? “Una nazione che non ha debiti fa rabbia agli usurai”, scriveva. L’hanno messo in manicomio. Il più grande poeta americano del XX secolo… –
Dopo l’applauso il pubblico borghese e quello più barbarico sfilarono in buon ordine, mentre un gruppo assediò il relatore per farsi firmare una copia del libro.
Il clima era il solito, sereno e indifferente, come dopo un film qualsiasi.
Nessuno pareva ansioso di trarre conclusioni su ciò che aveva visto, nessuno pareva chiedersi sul serio se fosse vero o no, anche se questo poteva significare la terza guerra mondiale o la più grande bufala della Storia.
Bonetti si alzò anche lui, per fumarsi una sigaretta all’uscita.
Nel cortile della sala congressi un manipolo di skin con giubbotti da motociclisti e anfibi militari parlottava a toni sostenuti. Sembravano animati da intenzioni bellicose a giudicare dai discorsi, ma quando il relatore uscì per andarsene lo salutarono con una deferenza da bravi studenti: era un ometto sui sessanta, dall’aria mite e lo sguardo vivace dietro le lenti spesse.
Li guardò con curiosità e condiscendenza: delle sue idee forse non avevano afferrato l’aspetto più profondo e i raffinati distinguo, ma tutto sommato erano bravi ragazzi. Non è bello essere in competizione con un cinese che guadagna 70 dollari al mese, ma dopo un paio di birre sarebbero andati a dormire tranquilli senza per forza bruciare qualcuno. Non stasera, almeno.
– Brutta gente, eh? Del resto uno mica se li può scegliere gli uditori-
Era il suo vicino di sedia che lo aveva raggiunto con la sigaretta in mano.
– Ho visto che prendeva appunti. E’ un giornalista? –
Sorrise, e gli sembrò ancora più giovane: – Solo un blogger – disse. – Ho fatto un blog sullo scontro di civiltà. Si chiama l’Uomo di Luce –
– Che significa? –
– E’ un’espressione dei sufi, i mistici dell’Islam. Indica la realizzazione spirituale, la coscienza superiore che risolve in sè le opposizioni. Volevo mostrare che i musulmani non sono quei barbari assassini che Bush e Bin Laden vogliono farci credere, per costringerci a prendere le armi –
– Perchè dice “volevo”? –
– Perchè quello che farò stasera sarà l’ultimo post. Ho deciso di chiuderlo –
– Come mai? –
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli:
– I blog nascono per gli amici, e radunano amici. O almeno persone affini, che cercano una testimonianza affidabile, per distinguere il grano dalla pula nel caos della Rete, orientarsi nella marea di informazioni incontrollabili. Quando la gente non crede più a niente, crede agli amici, o agli amici degli amici. Se il loro scrittore preferito frequenta il tuo blog, diventi un’opinion maker.–
– Non è un successo? –
– Pian piano s’inserisce chiunque, e diventa un media in piccolo: commenti estemporanei e notizie incontrollabili. Ma è sempre il tuo blog, e la gente pensa che tutto quello che vi si posta è farina del tuo sacco. Poi un giorno arriva qualcuno e ti offre sponsor e denaro per arruolarti –
– E lei non vuole bandiere, giusto? – disse una vocetta gentile alle loro spalle.
Era un tizio piccolo e grasso, occhialini e capelli lunghi, grigi dietro la nuca.
Untuoso e sorridente, somigliava a quell’omino più largo che lungo che porta Pinocchio e Lucignolo al paese dei Balocchi.
– Sono un pacifista. – disse il blogger: – Non combatto per nessuno. –
– Il pacifismo a oltranza sa di rinuncia ad agire: e intanto il mondo diventa uno schifo. Non è come gli ignavi di Dante? –
– Ha sentito il tizio, là dentro? Chi comanda sono le banche, gente che non ha paese nè bandiera, nè deve rispondere a un elettore per il suo operato. Loro non fanno: fanno succedere. Loro non si schierano per l’uno o per l’altro dei partiti: basta che in entrambi ci sia qualcuno gradito. Intanto, per aumentare la redditività del capitale fanno combattere i popoli tra loro ma non, come una volta, per un paio d’anni appena: adesso è il conflitto di civiltà, la guerra perpetua.-
L’omino scosse la testa, con aria dispiaciuta: – Il ragno invisibile che tesse la sua tela. E’ una costruzione paranoide, serve solo a impedire l’azione. –
– Se ha tanta voglia di far guerra a qualcuno, la faccia alle banche –
– Che è come dire all’aria. Ma in concreto, come alleanze internazionali? –
– Non so che dirle, io non sto nè con Bush nè con Bin Laden –
– Facciamo il gioco della torre – disse l’omino: – chi butterebbe dei due?–
– Mi butterei io –
– Ecco, appunto –
L’omino se ne andò e Bonetti chiese al blogger:
– Davvero si butterebbe? –
– Può darsi. E comunque quello è l’ultimo con cui sbottonarsi –
– Lo conosce? Chi è? –
– E’ un giornalista. Lo chiamano Betulla. Dicono che traffica coi servizi segreti –
– Se ne dicono di cose…La CIA si compra anche i giornalisti? –
– Praticamente dal ’45. Ce n’è, di destra e di sinistra, che ritirano lo stipendio direttamente a Wahshington, dall’Amministrazione. Mica tutti sono spie, la maggior parte anima centri culturali, associazioni. Si chiama think tank –
– Come fa a esserne sicuro? –
– Abbiamo fatto due guerre in cinque anni, che gli italiani non volevano, con governi di destra e sinistra. Ogni volta gli italiani hanno ingoiato il rospo. Lei come se lo spiega? –
(Da: I tre giorni all’inferno di Enrico Bonetti, cronista padano – Sironi, 2007. Nella foto: Mohammed Atta.)
“Mi butterei io”. Eccole di nuovo le due grazie, l’estetica e l’estatica dell’azione sacrificale. Speriamo che sia solo un romanzo.
Se lo è, l’incipit complottista fa vendere più di Harry Potter. Qualcuno avvisò gli ebrei che lavoravano al World Trade Center di non presentarsi al lavoro l’11 Settembre; lo stesso qualcuno ha teleguidato l’America in una guerra repressiva su scala globale. Dietro queste leggende metropolitane c’è un solo, insostituibile Fantomas. Israele. Questa merceologia editoriale di solito va a ruba. Sono stereotipi popolari che funzionano sempre. La retorica del complotto ci scarica da ogni forma di responsabilità come singoli e individua un generico nemico esterno che per qualche insondabile ragione manovra la realtà: “il Grande Fratello, al quale ci si può solo ribellare, come estremo atto rivoluzionario”. Un culto, una credenza, una storia.
Il pubblico più entusiasta sarà quello dei maoisti ortodossi in pensione, dei giovani negazionisti, dei fanatici di Schiller, dei nostalgici della destra sovietica, dei nipotini dei nazisti rifugiati nella DDR, e ancora gli eredi del Reverendo Jim Jones e i sostenitori della “Nazione dell’Islam”, e gli studiosi di dialettica marxista in acumen psicanalitico. A fare da collante, l’odio di classe e l’antisemitismo.
La triade ebrei-America-Israele, che poi di questo si tratta, del complotto sionista, appare un’immagine tanto persuasiva da contagiare anche chi vuole combatterla. Il giornalista Wlodek Goldkorn ha descritto il pericoloso “cortocircuito” a cui è andata incontro la politica estera di Bush: “siccome gli islamisti fondamentalisti hanno dichiarato guerra all’Occidente e siccome nei loro proclami la punta di diamante dell’Occidente risulta essere Israele, lo Stato d’Israele è davvero la punta di diamante dell’Occidente”. Farsi condizionare inconsciamente da questi schematismi significa cadere a occhi chiusi nella trappola del riduzionismo. Noi contro di loro, mai come loro, eccolo il manicheismo spicciolo che piace tanto ai romanzieri e ai consumatori di romanzi. La cospirazione cresce e si alimenta grazie a queste opposizioni frontali; la vulgata antisemita si materializza: “atteggiamento analogo a quello di tanti ebrei che sotto il fascismo delle leggi razziali si sforzavano di dimostrare che loro erano ottimi italiani e patrioti fascisti, e non sionisti alleati della perfida Albione”.
Tra le altre cose, il complottismo è un’ideologia stupida perché impedisce di fare i conti con le ombre del neoconservatorismo. Se la critica dell’idealismo democratico si riducesse davvero alla retorica cospirazionista allora non avrebbe senso interrogarsi sull’orgoglio prometeico degli Stati Uniti, sulla loro pretesa ‘romantica’ e irrazionale di garantire libertà e autodeterminazione per tutti i popoli oppressi. Scrivere un romanzo su questo, magari. Sul romanticismo della identità in pieno XXI secolo. Ma è molto più facile e svelto accreditare la tesi del “putsch” alla Casa Bianca che mettersi a studiare Norman Podhoretz per documentarsi prima di iniziare a scrivere. Il mito sionista ‘vende’ di più, fa gola agli internauti engagé e alle grandi tv satellitari, in primis quelle islamiche; offre meno spiegazioni, più confusione, ascolti in crescita costante.
Tutto questo mette in guardia dagli scrittori, dai reporter e dai cronisti di mezzo mondo, che hanno inseguito le patacche complottiste come se fossero lo scoop di una vita. Doveva essere un ‘eroico’ esercizio di giornalismo “watchdog”, un modo di smascherare il potere come succede nei film di Robert Redford. Ma quando il pubblico si è stufato delle spy stories, e per quei giornalisti è arrivato il momento di spiegare quali peli sullo stomaco avevano solleticato certe gole profonde, allora i mastini del giornalismo liberal hanno fatto un vigliacco passo indietro. Neanche una parola sull’industria culturale dell’antisemitismo.
Ipotesi di complotto:
1) Viviamo nel paese del melodramma: per questo non possiamo fare a meno dei complotti.
2) In Italia lo scopo del giornalismo non è l’informazione, ma la narrazione: i complotti piacciono per la loro forza narrativa.
3) L’Italia è il paese delle relazioni. L’economia italiana funziona sulle relazioni. E un complotto non è altro che una rete di relazioni con fini criminali, più o meno stragisti. Il complotto piace perchè è la faccia nera del nostro paese.
4) Quello italiano è un popolo di apologi della furbizia. In politica, in economia, in società. D’Alema è stimato “perchè è furbo”. Rutelli “è più furbo di quanto si pensi”. Berlusconi “lui sì che è furbo”. Corona e Lele Mora? “Sono due furbacchioni”. Ricucci invece? “Non è furbo, è solo un furbetto: non è riuscito ad essere furbo fino in fondo: uno sfigato”. Agli Italiani piacciono i furbi. Ai giornalisti italiani ancora di più. I giornalisti italiani credono che la furbizia sia la massima virtù rintracciabile sul mercato. E un complotto non è altro che un piano di furbi organizzati. Per questo agli italiani piacciono i complotti: perchè adorano la furbizia.
5) I giornalisti italiani sono ignoranti: nel vero senso della parola: ignorano, non sanno fare, non sanno capire. Ad esempio, a parte qualche eccezione, non sanno prendere il bilancio di una banca, interpretarlo, e capire tutti i falsi e i buchi neri che ci sono dentro. Non potendo spiegare quello che non capiscono, si affidano ai complotti. Ad esempio, una banca non ruba perchè fatta di ladri: ma perchè banca di ebrei. Per scovare un ladro ci vuole il dato tecnico, che per definizione è neutro, e va dimostrato con la logica e con le leggi. E i giornalisti italiani non sanno maneggiare dati tecnici. Per scovare un ebreo che complotta, invece, non servono prove; non serve dimostrare: basta ricordare. Cosa? Una storia fatta di miti e di leggende, depositata dentro la nostra cultura più di quanto si possa immaginare.
Ecco dove nasce, ad esempio, tutto l’astio nei confronti di Goldman Sachs: una banca che fa esattamente le stesse cose che fanno le altre banche (come gli altri istituti piazza suoi ex consulenti nelle istituzioni, e assume ex politici come consulenti: ma è la prassi, in un paese di relazioni), ma che a torto è reputata essere molto più pericolosa delle altre, in quanto in odore di sionismo.
Dal paese dei complotti,
uno che non ci crede.
@The O.C.
Non è un incipit, e il romanzo parla di ciò che mitologicamente si potrebbe definire Satana. L’episodio in questione descrive una conferenza a cui io ho assistito, e il dialogo con un blogger ipotetico ma verosimile.
Betulla, invece, è proprio cronaca italiana.
Renato Farina, uno che crede alla superiore missione civilizzatrice degli USA.
E spia i suoi colleghi per conto della CIA.
Un bel patriota.
Un nuovo racconto con Bonetti ? Questa è una buona notizia. E i ” 3 giorni ” come sta andando ? Gran bel libro quello.
Bruno, questo è un pezzo dell’unico Bonetti, che non avrà sequel.
Perbacco, è vero. La scena si svolge nella seconda parte. L’avevo rimossa perchè, ehm, non m’era piaciuta, mi era sembrato un innesto troppo forzato, quasi estraneo al contesto.
Però ripensaci. Forse Bonetti non è un personaggio letterario che passerà alla storia ma è un buon pretesto per continuare i racconti sul male che, come dici, esiste.
Buon lavoro.
il conferenziere l’avrei fatto più simile allo Sean Penn di Non siamo angeli(il bandito travestito da prete che non potendo chiamarsi fuori da un’orazione pubblica cava dalla tasca la reclame cartacea di un revolver e ci tira fuori a braccio un’omelia leggendaria)