Appunti e amputazioni
di Giorgio Vasta
Primo ragazzo
Su una spiaggia di ghiaia di ritorno da Spalato. Oltre la spiaggia c’è una pineta. Tavoli di legno, panchine, un bar ristorante. È tardo pomeriggio, stanno apparecchiando i tavoli. Si sente il rumore delle posate che battono fra loro o contro il bordo dei piatti. Tanti piccoli rumori separati, rumori utili, dolci. Fino a qui siamo arrivati in scooter. Dopo aver visitato la città vecchia di Spalato, siamo andati alla stazione degli autobus vicino al porto e abbiamo aspettato pazienti che partisse il 37, lo stesso autobus che abbiamo preso venerdì e che ci ha portati a Trogir. Questa volta non siamo saliti ma lo abbiamo seguito. Non sapendo come uscire dalla città ci siamo affidati ai servizi urbani. In fondo all’autobus, quindi perfettamente visibili da Jas e me incollati sotto, c’erano seduti due ragazzi, uno biondo con la canottiera bianca e l’altro rosso con una camicia a maniche corte a scacchetti rossi. C’hanno guardato preoccupati, ritrovandoci a ogni semaforo, quando il loro autobus rallentava e noi ci rifacevamo sotto, sorridenti. A un ulteriore rallentamento in prossimità di un semaforo, il ragazzo rosso con la camicia a maniche corte, evidentemente rassicurato, ci ha sorriso a sua volta e ha agitato davanti al vetro, piano, un braccio che terminava a punta, a cuneo, sempre più stretto verso l’estremità. Per un attimo sono stato convinto di aver visto la mano cadere, poi ho pensato che fosse stata cancellata dal riflesso del sole contro il vetro. Non so cosa abbia visto Jas alle mie spalle, poi non gliel’ho chiesto. Comunque ho rallentato e ho lasciato che l’autobus si allontanasse un poco.
Secondo ragazzo
Adesso sono le sette di sera, i rumori di piatti e posate si sono intensificati, la gente qui cena presto. Sento l’odore del pesce arrostito. Bruno, robusto. Mi penetra nel naso facendo un brusio. Io resto disteso sul mio telo, appoggio la testa di lato, le braccia piegate con le mani aperte all’altezza delle orecchie (sembra mi stia arrendendo). Respiro forte, il petto contro la ghiaia. Tengo gli occhi socchiusi (a chiuderli del tutto non ci riesco mai, mi imbarazza). Nelle fessure, controsole, passano movimenti, mediamente veloci, che però, in questa posizione, mi sembrano cose piccole e lente, malinconiche. Il mio sguardo sta pietosamente azzerando tutto, riconducendo la vita a una condizione fisiologicamente inerte, all’inorganico. Non c’è movimento che sia diretto a un fine; la giostrina di braccia teste e gambe se ne sta lì molle, offuscata, il grado zero dell’esperienza, niente che diventi frase di gesti, articolazione compiuta. Poi, da questo nulla di immagini, viene fuori un ragazzo con una stampella. È fermo sulla riva, in piedi, la stampella infilata sotto l’ascella destra, il corpo tutto inclinato a sinistra. Porta un costume blu, largo, con le tasche, lungo fino al polpaccio, come i pantaloni alla zuava. Il ginocchio della gamba destra, invece di essere parallelo a quello della sinistra, sta venti centimetri più in basso ed è un grumo duro, bitorzoluto. Sembra fatto di ossa annodate. Piano, senza clamore, mi sollevo sui gomiti, guardo. Il pezzo di gamba che parte da questo ginocchio sta tutto rivolto all’interno ed è rigido, scollato, scollegato dal resto. Zoppicando tranquillo – la stampella che a ogni passo fa un piccolo crac sulla ghiaia – il ragazzo si va a sedere sul muretto, anche questo di ghiaia compatta, che separa la spiaggia dalla pineta, si accende una sigaretta e si mette a parlare con una ragazza bionda, brutta, che indossa un due pezzi fucsia. Cerco di ricostruire, cercando nel nulla di prima, provando a recuperare qualcosa. Mentre era in mare non mi ero accorto di niente. Avevo notato un ragazzo che restava immerso nell’acqua in prossimità del bagnasciuga, disteso a guardare la gente che prendeva il sole a riva, senza sollevarsi, ma pensavo che lo facesse così, come fanno in tanti, come faccio anch’io, per riposarsi. Avevo anche notato, sempre senza rendermene conto, che a un certo punto il ragazzo si era messo a parlare con due amici, anche loro immersi. Avevo guardato le loro tre grosse teste che facevano conversazione in mezzo ai salti dei ragazzini, ogni tanto un corpo gli precipitava in mezzo schiacciando l’acqua e spazzandola bassa intorno. A ripensarci, mi aveva colpito, senza che al momento ne fossi particolarmente consapevole, lo scarto tra la struttura di questo ragazzo – robustissimo, addirittura taurino, la testa come un grosso sasso, niente capelli, dei segnetti chiari sulla cute (le microcicatrici delle cadute da piccolo, ho immaginato), gli occhi piccoli e verdi – e l’atteggiamento infantile, con questo troppo indulgere alle seduzioni dell’acqua. Poi l’ho visto emergere con la stampella – e mi chiedo durante il bagno cosa ne avesse fatto.
Terzo ragazzo
Qualche giorno fa, a Zadar, alla marina, sulla banchina di pietra bianca che separa il mare dagli alberi (la riva più bella del mondo, dice tra le altre cose un cartello descrittivo multilingue), accanto a una delle scalette metalliche che consentono l’accesso al mare (e che, secondo la rifrazione, si riempiono di sole e quasi scompaiono allo sguardo: per essere certi che ci siano, bisogna andare lì e toccarle), ho visto una sedia a rotelle parcheggiata. Struttura in lega leggera, tubolare; sedile, spalliera e braccioli di pelle nera, rinforzata, cuciture grosse; ruote sottilissime, acciaio anodizzato, limpidissimo, quasi bianco. Tutt’intorno alla sedia e lungo la banchina, teli da mare stesi per l’intera ampiezza del rettangolo o piegati in due o in quattro, oppure raggrumati e intrisi, ingolfati, malconci, chiaroscurati dall’acqua. E ciabatte infradito di gomma, soprattutto nere e blu scure, accostate gemelle o sparse larghe; qualche zaino di tela chiara; un borsone sportivo arancione – bellissimo sul bianco – con degli occhiali da vista, rotondi, posati sopra; una radiolina che fa una musica leggerissima, polverizzata dal vento. Anche sulla sedia a rotelle c’è un telo, avvolto a treccia sulla spalliera. È blu e rosso, marezzato. In basso la treccia si allarga a ventaglio. Si riconoscono, della scritta sull’orlo, una S, una U, una M, una R. A stampatello, grandi. Dall’acqua, sotto l’argine di pietra, arrivano le voci. Mi sono sporto a guardare i ragazzi che facevano il bagno. Uno in fondo che, perpendicolare alla riva, si avvicina nuotando sul dorso, a bracciate simultanee, ininterrotte, rabbiose, gorgoglianti. Quando scaglia le braccia all’indietro, oltre la testa, il petto gli si solleva, si inarca e risplende. La scia oltre i piedi è breve, la schiuma brulica un istante e scompare. Gli altri ragazzi, dai dieci ai quindici anni, nuotano subito sotto la banchina, si passano una palla gialla che schizzando sul mare fa microesplosioni, si gridano parole, mangiano acqua che si trasforma in risate. Guardo alla mia destra la sedia a rotelle, la gente che passeggia, questa pietra bianca cosparsa di aghi di pino secchi, bifidi. Guardo di nuovo i ragazzi. Provo a indovinare.
Primo uomo
L’autista dell’autobus sul quale sto viaggiando, il numero 8 che da Diklo porta a Kolovdor (ovvero al capolinea degli autobus di Zadar), ha la mano sinistra alla quale mancano quattro dita. Del tutto, alla radice. Al posto delle dita c’è una carne rincagnata, masticata. Del pollice c’è solo un pezzettino d’osso, una cosa cornea, bianca, che sporge. Mi accorgo di tutto questo mentre sto pagando i biglietti per Jas e me, in piedi davanti all’autista seduto (qui funziona così, i biglietti si acquistano a bordo), e cerco di mettere insieme, pescando con due dita tra gli spiccioli nella tasca destra dei pantaloncini, le dodici kune necessarie. Mi distraggo, perdo tempo, dietro di me non c’è nessuno ma l’autista – che è corpulento, brizzolato, occhi chiari, la pelle della faccia tutta rosa e piena di crateri – si spazientisce lo stesso e mi dice qualcosa in croato, una sollecitazione aspra, recisa. Trovo in una piega della tasca le ultime due kune e le appoggio sul ripiano coperto da uno strato sottile di moquette nera, che sta alla destra dell’autista e che contiene, in delle formine cave, monete di diverse dimensioni e valore. L’autista non mi guarda, chiude la porta a soffietto alle mie spalle e riparte. Mentre mi allontano verso il fondo dell’autobus scorgo l’amputazione poggiata sul volante nero, largo, con tre raggi dai quali pendono dei santini stropicciati. Mi domando se senta la temperatura del volante, se ci sono terminazioni nervose. Non ne so niente.
Secondo uomo
Un’altra volta, sempre sul numero 8, Jas e io saliamo, paghiamo e andiamo a sederci in fondo. Nel posto accanto al mio, un signore che ha una mano alla quale mancano quattro dita si pulisce l’unica unghia rimasta. Usa una limetta, la fa scorrere abile sull’orlo, senza guardare, osservando il paesaggio fuori. Un po’ si aiuta anche con la bocca: prende le cuticole tra gli incisivi, le strappa e le sputa via. La sua mano cagliata per un momento mi sembra un formicaio, cosparsa da un brulicare indistinto, ed è come se l’uomo si mangiasse le formiche. Va avanti a stuzzicarsi il dito – che non riesco a capire quale sia – fino al capolinea.
Ragazza
Di nuovo su un autobus, di nuovo quello che collega Spalato a Trogir. Percorriamo un rettilineo circondato da case in costruzione. C’è l’armatura di cemento, il disegno delle porte e delle finestre, il pavimento dei balconi senza la ringhiera. Sono tutte a uno o a due piani, bianche di calce, senza intonacatura. Potrebbero essere fatte di gesso. Quando l’autobus le supera mi giro a guardarle e mi sembra che le pareti per il contraccolpo del vento possano disgregarsi e volare via. Sull’autobus si ascolta la radio. Riconosco Gente di mare e poi quella che nel ritornello dice «dammi il tuo amore, non chiedermi niente, dimmi che hai bisogno di me». C’è anche la versione croata di Sapore di sale. Stesso identico arrangiamento dell’originale anni ’60 di Gino Paoli. È come se del tutto inconsapevolmente, senza strategia, la Croazia attuale mescolasse indiscriminatamente gli anni ’60 e ’80 italiani. Gli anni della felicità forzata, indotta. A una fermata sale una ragazza. È alta, ha i capelli nerissimi, è bella. Mi ricorda qualcuno. Indossa un vestito bianco leggero, che le lascia la schiena scoperta. Ha una di queste schiene croate – larghe senza essere mai tozze, lunghissime di muscoli naturali che corrono veloci sottopelle, filiformi, tutt’intorno alla spina dorsale. Schiene belle senza intenzione, per una levigatura del nuoto e del gioco. La ragazza risponde al cellulare, parla e io le guardo subito i denti, che sono tantissimi, spessi, larghi e potenti, anche questi patrimonio nazionale. Dappertutto, in Croazia, guardandosi in giro si vedono queste bocche con questi denti feroci. Denti che riguardano tutti, che sono di tutti, senza distinzioni di sesso o di struttura corporea. Denti variegati, solcati da venature più chiare o più scure, macchie di calcio o da ematomi cheratinici quasi del tutto riassorbiti; in ogni caso denti grandi, piastre bianche, fortezze – alcune chiostre sembrano unghie. Sono denti dentro ai quali scorre il sangue, sono organismi viventi, sono espansioni dell’ossatura e della muscolatura. Un paese pronto ad addentare. La ragazza finisce la telefonata e ripone il cellulare nella borsa di maglia. Ha gli occhi truccatissimi, scuri, da dark anni ’80. Immagino stia andando al mare e mi chiedo che cosa succederà a tutto quel trucco a contatto con l’acqua, se si scioglierà o se rimarrà intatto. Anche le labbra sono truccate di scuro e l’espressione è nel complesso cupa, infastidita. Mentre l’autobus si avvicina a Trogir e fuori dai finestrini continuano a scorrere decine e decine di case in costruzione incandescenti sotto il sole delle tre del pomeriggio, insisto a guardare la ragazza cercando di non essere invadente. Mi ricorda qualcuno, appunto, forse qualcuno che conosco ma non riesco a ricordarmi chi. Mi colpisce l’ostilità dello sguardo e dei modi, la postura evitante, refrattaria. Non è l’alterigia della donna bella che disprezza gli sguardi di ammirazione, è un’altra cosa. È una specie di rabbia permanente, sedimentata, che la cosmesi non fa altro che accentuare, la trasforma in qualcosa di assoluto, di trionfale. A un certo punto si genera il cortocircuito, il pensiero si chiude e so chi mi ricorda: le attrici dei film porno che arrivano dall’Europa dell’Est e che circolano nei siti internet a pagamento. La stessa bellezza compressa e la stessa fatica, la stessa rabbia di quei volti. Questa ragazza è parte di un gioco di ruolo che è storico e politico e sociale e investe dialetticamente Europa occidentale e paesi balcanici. È parte di un’incarnazione, nelle immagini del sesso orale, quando i corpi della guerra – resistiti, resistenti e residuali – prendono in bocca il sesso occidentale e tenendolo guardano verso l’alto e lo disprezzano. C’è un Occidente insufficiente che ha bisogno di esaurirsi, di svuotarsi, e che ha trovato nella bellezza croata – ma anche serba, bosniaca, slovena, e ancora rumena, polacca, ungherese, bulgara, moldava, bielorussa – il luogo nel quale cercare appagamento, nel quale riequilibrarsi. Questa bellezza, di rimando, negozia con il desiderio occidentale ma lo fissa con rabbia, meditando di sostituirlo a breve, di prenderne il posto. Penso questo e vedo la ragazza chinarsi sulla borsa di maglia. Con una mano scosta un lembo dell’apertura, e con il moncherino dell’altro braccio fruga dentro. Ancora una volta non capisco subito e per qualche secondo il mio sguardo, ancora, cerca la mano come una trasparenza cucita in filigrana nell’aria.
Quarto ragazzo
Nel bar-terrazza, qui a Diklo, dove la mattina andiamo a prendere il caffè, vedo sempre un ragazzo senza gambe. Quando arrivo lo trovo seduto di spalle su uno sgabello alto, rivolto verso il bancone. Mi avvicino per ordinare e lo guardo. Sta a petto nudo, ha un torace enorme, rosa, teso, terso, da giocatore di pallanuoto. Sembra uno strumento a percussione. Il cranio è rasato. Sulla nuca corre la fascettina elastica, nera, che serve a reggere gli occhiali. Neri, da sole, allungati orizzontalmente, molto moderni, aerodinamici. Indossa pantaloncini da ciclista, di quelli aderenti. I pantaloncini arrivano fino alle ginocchia. Anche il corpo arriva fino alle ginocchia. Oltre l’orlo dei pantaloncini si vede un bordo rosa di gamba, poi c’è l’ombra sotto lo sgabello. Non l’ho mai visto salire sullo sgabello, quando arrivo è sempre già lì, ma immagino lo raggiunga issandosi dalla sedia a rotelle, facendo perno sulle braccia, altrettanto enormi (anche queste rosa, glabre). Davanti allo sgabello, appoggiata su un lato del bancone, c’è una specie di slot-machine elettronica, una di quelle in cui inserisci le monete e premi i pulsanti. Ogni mattina, il ragazzo senza gambe è lì. È lì anche quando passiamo nel pomeriggio, o la sera. La sedia a rotelle l’ho vista una sola volta, penso che i gestori del bar-terrazza gliela sistemino nel retro finché non deve andare via. Il ragazzo fissa il display della slot e schiaccia i pulsanti con accanimento: le dita – l’indice e il medio della mano destra – gli diventano bianche. Ogni volta che a denti stretti, in croato, impreca o esulta, i moncherini gli tremano leggermente.
Zainetto
Uscendo dal ristorante dove abbiamo pranzato, procedendo nel corridoio che perforando le due file di tavoli conduce fino alla strada, in un angolo accanto alla doppia porta in vetro e legno ci accorgiamo di uno zainetto rosso, di tela, giovanile, di quelli che si serrano tirando due cordicelle. Lo zainetto è normalissimo, qualcuno deve averlo lasciato lì per riprenderlo dopo cena, oppure è di un cameriere o di una cameriera, ci tiene dentro il cambio, i vestiti normali, quelli da indossare di nuovo alla fine del servizio. Dalla sommità dello zainetto, incastrata nell’apertura, sporge una mano. È piccola, si vede parte dell’avambraccio. Un arto di bambola, sporco e graffiato, la gomma screpolata ma lucidissima, luminosa, che nell’articolazione ha qualcosa di enfaticamente disperato, di ostentatamente implorante.
Io
In questi giorni mi capita spesso di sognare di compiere un’azione che compio abbastanza spesso, quasi ogni giorno, quella di pulire gli occhiali, con il lembo della maglietta di cotone che ho addosso o con la pelle di daino che sta nell’astuccio portaocchiali. In sogno però gli occhiali si rompono. Faccio pressione sulle lenti e queste si staccano, oppure si rompe la montatura, si spacca una stanghetta. Quando al mattino li prendo in mano per mettermeli, mi stupisco che siano tutti interi.
Donna
A Nin. Una spiaggia di sabbia e una palude di fango. Molle, nero, pesantissimo, irto di rametti e residui di foglioline. Me ne riempio i pugni, mi sembra di frugare nello stomaco di un mostro, sento i microrganismi che brulicano. Quando stringo forte, dalle fessure tra le dita emergono grumi oblunghi gorgoglianti, la superficie cosparsa di bollicine trasparenti che fanno un bop silenzioso e scompaiono. I grumi oscillano per qualche secondo in equilibrio sopra le mani, poi si staccano e cadono giù pesanti. Tutt’intorno ci sono enormi pozzanghere scure, creste erbose sparse e canali larghi trenta centimetri che serpeggiando collegano le polle di fango. Qui la gente arriva rosa dal mare e se ne va via nera, anche la faccia. Sembrano tutti guerrieri africani. Anche Jas e io siamo venuti (abbiamo lasciato i nostri teli e le borse sulla spiaggia, a cento metri da qui), ci cospargiamo, diventiamo tutti neri, argillosi, delle ombre grumose, umide. Stiamo un poco, consolidiamo la struttura su petto e braccia, copriamo i pezzettini di pelle ancora visibile sulle gambe, con la punta delle dita ci spalmiamo il collo, il mento e la fronte, intorno agli occhi e sul naso. Andiamo a seccare a riva. Ci sediamo sul bagnasciuga, le braccia indietro, a puntello, i piedi immersi, il fango che si scioglie nell’acqua, si disgrega in una nubecola scura che galleggiando incoerente va a depositarsi sul fondo. Alle nostre spalle, i bambini croati giocano a frisbee sulla sabbia dura. Intanto il fango diventa crosta. Sentiamo la pelle asciugare, qualcosa che si contrae, un risucchio sottilissimo e leggero che fa un bel prurito. Alla nostra destra, seduta come noi, stessa posizione, c’è una donna. Anche lei interamente cosparsa di fango. Avrà una sessantina d’anni, dalla faccia incrostata sbuca un unico grande ciuffo felciforme di capelli bianchi. Sotto gli occhi e intorno alla bocca affiorano frammenti di pelle di un rosa chiarissimo. Pelle nordica, sangue albino. Così, da seduta, non so riconoscere bene la statura ma deve essere piuttosto alta, almeno 1,80. Ha un corpo grande. Le spalle sono piene, la schiena è larga, leggermente inclinata a sinistra (scoliosi, penso, come per me, o semplicemente il braccio sinistro fa più pressione sulla sabbia molle e sprofonda determinando il fuori asse della schiena). Credo indossi un costume intero, perché all’altezza dell’ombelico viene fuori del rosso. Le gambe sono lunghe, spesse. Non riesco a capire quanto sia carne e quanto fango. Le tiene leggermente arcuate, l’acqua scorre in mezzo ai piedi socchiusi e le sommerge piano il grembo, ripulendolo. Con tutto quel cielo dietro e le case in fondo, mi piace guardarla. Sembra un golem femmina, seduto a sorridere al mare. La mia faccia intanto è rinchiusa. Sento pezzetti di fango che si sfilacciano e cadono, la pelle sotto che continua a tirare. Provo delle espressioni, mezzi sorrisi o corrugamenti, per giocare con le increspature. Eventi tellurici. Mi osservo il petto. Il nero è diventato grigio e si è opacizzato. La superficie non è più grumosa, adesso è disseminata di piccole crepe. L’acqua avanza, sposta la sua soglia, a ogni flusso scopre una linea di corpo nuovo. Mi volto e vedo che l’acqua sta ripulendo anche la nostra vicina. Le gambe e il grembo sono completamente liberi dal fango, un’altra piccola onda e il mare supera il bacino e va a lambire i polsi. Il torace della donna sembra vetrificato. Un vetro nero e profondo. L’onda succhia ancora altro fango, strofina piano l’avambraccio e vedo che la mano sinistra non c’è. Per un momento credo di non aver capito, poi la donna dà un piccolo colpo di reni, si piega con il petto in avanti e porta le braccia vicino alle ginocchia (d’istinto fisso il buco sulla sabbia, dove prima era conficcato il polso). La mano destra spazzola detriti dal moncherino sinistro. Il braccio sinistro finisce nel polso, il polso – che per un istante vedo direttamente, in sezione – sembra sia stato cucito malamente, di fretta, anzi, più che cucito annodato stretto, per evitare che ossa tessuti e sangue cascassero giù per forza d’inerzia. Arriva un signore anziano, con la barba. Anche lui rosa chiarissimo. Si avvicina alla donna, le porge la mano, la aiuta a sollevarsi e li vedo tornare indietro al loro piccolo accampamento di teli e bottigliette d’acqua. Anche Jas e io ci alziamo, abbiamo deciso di ripulirci del tutto facendo una nuotata. Mentre entriamo in acqua guardo ancora il buco nella sabbia. Un velo d’acqua gli galleggia sopra e lo sta richiudendo. Vorrei distendermi e appoggiarci sopra un orecchio. Mentre penso, il buco è sparito. Seguo Jas nell’acqua. La notte sogno una mano cieca che vive sotto la sabbia, scava cunicoli grattando con le dita e poi si riposa all’ombra di un grosso sasso.
Jas
La notte dopo sogno di aprire il cassettone basso di un mobile di legno che sta nella casa dove dormiamo e all’interno c’è il corpo di Jas, rimpicciolito e nero. È nero del nero di ieri, quello del fango indurito. In alcuni punti è già grigio e più duro. Per il resto è lei, è il suo corpo. Sta accucciata con le gambe contro il petto, le braccia incrociate a proteggere la testa. Il fango le ha impastato i capelli, che sono sparsi e confusi. Nel sogno io so che lei è consapevole della mia presenza, sa che sono lì. A me non sembra strano che sia così piccola ma non capisco perché abbia ancora addosso tutto quel fango nero, avevamo fatto una nuotata e poi la doccia, ero sicuro che fosse andato via tutto. Nel sogno penso che o Jas è tornata a Nin e si è di nuovo cosparsa di fango oppure il fango viene fuori dal suo corpo. Provo a prenderla per estrarla dal cassetto ma non so come fare. È complicato, per la posizione in cui mi trovo (inginocchiato davanti al mobile), infilare bene le braccia nel cassettone, che è profondo. Nella realtà non sarebbe complicato, ma nel sogno lo è. Cerco di sollevare il corpo di Jas con una mano, da sotto, prendendola per le gambe, ma appena la sollevo le gambe si spezzano e il resto del corpo mi cade in grembo. Sta per rotolare e lo fermo con un braccio, chinandomi in avanti. Nell’altra mano ho le gambe, rotte all’altezza delle cosce. Le rimetto dentro il cassettone e prendo il corpo di Jas con il palmo della mano, facendo pianissimo, ma il pezzo di cosce ancora attaccato al bacino si crepa di colpo e si sbriciola e sfarina giù. Non so più come fare e nel sogno mi pulsano le tempie e vorrei piangere perché so che lei sente tutto, è viva ma non può fare niente e io non riesco a fare niente per aiutarla, per non farla rompere. Allora tengo tra le mani a conca il pezzo di corpo rimasto, dalla vita alla testa: guardo la bellezza del viso, i lineamenti piccolissimi, le braccia che si intersecano sopra la testa, i capelli disordinati a ventaglio, il gioco di forme del seno e dei fianchi. E guardo la pellicola spessa di fango nero e grigio, e lo sento sempre più freddo, sempre più ruvido, mi punge la mano. Un braccio, dallo spigolo del gomito, cede e si stacca. Lo lascio scivolare tra le dita. Vedo una crepa – sembra una serpe – che si allunga dall’ombelico alla gola. La serpe sprofonda e il corpo si spezza ancora. Nel palmo di una sola mano c’è la testa di Jas e un braccio piegato, intorno a me le macerie del suo corpo. Penso ai suoi pensieri, ai suoi pensieri che in questo momento si irradiano dal palmo della mia mano, e mi viene da piangere di tenerezza a pensare di avere i suoi pensieri in una mano, morbidi e fermi, lenti e precisi, che mi si immergono nella carne e si proiettano verso l’alto. È come se nel centro del male ci fosse un puntino di bene. La guardo di nuovo, cerco i suoi occhi ma è tutto così buio, non riesco a vedere, sento una disperazione e nel sogno penso che è un sogno e che non è vero niente e non sarà mai vero niente, ma c’è qualcuno che arriva alle mie spalle e chiudo il palmo, faccio pressione, sento che la testa di Jas cede e si sgretola e cade dappertutto in una neve nera sottilissima. Qualcuno sta arrivando alle mie spalle, soffio sulla polvere e non riesco a svegliarmi.
Terzo uomo
In nave. Compagnia Jadrolinja, da Zadar ad Ancona. Poca gente sparsa tra il ponte e le salette interne. Dopo circa un’ora la nave attracca a Dugi Otok. Deve recuperare altri passeggeri e recuperare altre macchine. La manovra di attracco dura a lungo. Il porto qui è piccolo, il fondale è basso, la nave si avvicina lentissima e solleva banchi di sabbia che affiorano in superficie. Il mare diventa giallo. Poi ci sono problemi con le funi (si chiamano “cime”, credo), una che gettata dal ponte non riesce a raggiungere il molo perché è troppo pesante e finisce sempre a picco in acqua, un’altra che non scorre o scorre male, si incastra, si incaglia, fa resistenza e mi fa sentire una nausea allo stomaco. Mi sposto a poppa e mi affaccio alla balaustra. Guardo la gente che aspetta in piedi accanto alle auto cariche di bagagli. Su un portabagagli c’è un coccodrillo-canotto ancora inspiegabilmente gonfio. Noto un signore. Avrà una cinquantina-sessantina d’anni, è alto, abbronzato, sembra del posto. Un curioso che viene a vedere gli italiani che tornano a casa. Ha degli occhiali spessi, da lontano le lenti sembrano di vetro gonfio. Il vento gli appiattisce i capelli grigi sulla fronte e poi glieli solleva a mo’ di becco. È a petto nudo. Indossa pantaloni blu, larghi, da lavoro. Sopra l’orlo dei pantaloni si vede la striscia bianca delle mutande. Sulla pancia – che è grande, tesa e ambrata, molto più giovane di lui – dallo sterno all’ombelico corre una cicatrice, una depressione verticale della carne, un’incavatura dove la pelle è più chiara. Sembra la cicatrice di un cesareo. Mi sembra – ma so che è impossibile per la distanza – vederla affondare e riemergere al centro della pancia, piano, nel respiro. Il signore tiene le braccia incrociate dietro, non parla con nessuno, guarda e sorride. Tira fuori dalla tasca anteriore dei pantaloni un pacchetto di sigarette accartocciato, ne sfila una e se la mette in bocca. Pesca l’accendino in fondo alla stessa tasca, rinfila il pacchetto, si sposta davanti a un cartello metallico, non troppo alto, sarà a un metro e ottanta da terra, sostenuto da due pali. Sul cartello, su uno sfondo azzurrissimo in caratteri bianchi, c’è scritto TRAJEKTNA LUKA. E sotto, più in piccolo, ONLY FOR PUBLIC TRAFFIC. Il signore solleva la testa in alto, avvicina l’accendino alla bocca e così, al riparo dal vento, si accende la sigaretta. Per un attimo vedo il cilindrino chiaro contro lo sfondo azzurro intenso del cartello, la brace che brilla. Poi, le braccia di nuovo dietro la schiena, il signore prende a girovagare tra la gente in attesa, lento, sornione, sorridendo cinico. Gli vedo le mani, dietro, una dentro l’altra, tutte intere.
Il mostro
Dopo ancora qualche minuto la nave riparte e quando prende velocità mi sposto verso la prua e guardo giù, oltre la murata. Si è alzato il vento, il mare è mosso. Attraversata dal taglio della prua, l’onda si spacca e per l’emulsione violenta dell’acqua si forma un viscere celeste, trasparentissimo. Dura un secondo e per quel secondo trasparente, attraverso quel buco d’acqua, sembra di poter vedere il fondo del mare. Poi il viscere si contrae ulteriormente e sprofonda in se stesso disgregandosi in schiuma bianchissima, in polvere liquida. Mi colpisce il ritmo costante del fenomeno, la monotonia di questo caos di schiume, di questo brulicare e scompigliarsi di acqua criminale. E fissando gli occhi in questo buco immagino una cosa che da un po’ di tempo immagino spesso. Immagino le cicatrici che conosco, delle persone che conosco. La cicatrice di Sara, che corre dalla pancia allo sterno. Le cicatrici di Roberta, piccole e contorte sul bianco dei polsi (nessun tentativo di suicidio ma un’operazione alle ossa delle braccia, da neonata). La cicatrice a virgola sul labbro di Massimo, una sassata giocando in giardino. La cicatrice sul cranio di Fabrizio, sepolta dai capelli. Quella di Francesca, sul petto, per un seno asportato, e quella di Laura, sopra un seno, per un nodulo. La cicatrice sulla pancia di mia madre, una cicatrice che ormai ha tanti anni, per l’asportazione delle ovaie, e quella di mio padre, sul torace, per l’impianto di due by-pass, e la cicatrice sul pube di mio fratello, sempre più piccola, per l’operazione di appendicite. E anche la mia, sul fianco destro, di quando la scheggia di vetro di una porta sfondata mi entrò dentro. Ognuna di queste cicatrici è l’esito imprevisto di un gioco o quello inevitabile di una malattia, ed è una cerniera, una giuntura, il varco socchiuso che lega l’interno dei nostri corpi al mondo, e io immagino di collegare tra loro tutte queste cicatrici, tutti questi corpi – un polso con un sopracciglio, un pezzetto di pancia con un labbro, un seno con un cranio e poi polpacci, tempie, arcate sopraccigliari e ginocchia, spalle e mani e addomi e avambracci – e formare così il grande mostro del legame, la creatura generata dal saldarsi di tutte le parti di corpo spaccate tagliate amputate, l’ipercorpo sentimentale che congiunge le ferite suturate delle persone a cui voglio bene, le cicatrici che in questo modo, sovrapponendosi l’una all’altra, si proteggono. Immagino il mostro del legame, il mostro dei miei legami, e so che Jas non ha sul corpo nessuna cicatrice.
[questo racconto è incluso nell’antologia I persecutori, pubblicata da Transeuropa lo scorso maggio. Rispetto alla versione cartacea ho eliminato, alla fine, una frase e un aggettivo, su preziosa indicazione di Francesca Serafini, che ringrazio. L’illustrazione sotto il titolo è di Valentina Mai. Grazie anche a lei.]
veramente bellissimo. complimenti giorgio.
Ti sono ritornata a leggere, apprezzo come scrivi.
Bravo Giorgio.
Descrizioni accurate e attente di chi nota, osserva, collega, riflette. E poi ancora collega. Molto bello. Mi ha colpito il finale, mi ha fatto pensare che davvero le persone possono essere divise tra chi sa cos’è una cicatrice sul corpo, testimone di un pezzo di storia sofferta del corpo, e chi non ha idea di cosa significhi.
Toccante il pensiero di un legame creato dalle cicatrici di chi si ama, “il mostro del legame, il mostro dei miei legami”, e poi capire che il corpo che più si ama ne è escluso. Un pensiero amaro. Quasi una rivelazione.