El boligrafo boliviano 7

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di Silvio Mignano

Sabato 24 marzo 2007

A mezz’ora di automobile dal Cerro Rico, scendendo di due o trecento metri, ci si trova in una valle lunga e stretta ed è come passare dall’inferno al Paradiso. Un fiumicello si snoda a coda di serpente tra i prati, fiancheggiato da salici piangenti e perfino da cipressi toscaneggianti. Vacche da latte al pascolo, piccole fattorie, un pastore che spinge a bordo strada un gregge di lama.
Entriamo nel cortile di una finca del XVI secolo, appartenuta per un certo tempo a una famiglia italiana. Oggi l’ultimo erede è un tedesco, un certo Schulz o qualcosa del genere, un omino tracagnotto con un gran nasone e folti peli che gli escono dalle narici. Ci fa visitare la casa come se si trattasse di un museo. Quadri spagnoli e fiamminghi del Seicento, affreschi italiani dell’Ottocento, una biblioteca fitta soprattutto di antichi testi di diritto romano ed ecclesiastico.
«Lei è stato in Africa, vero?», mi dice, «Torni a trovarmi con più tempo, le racconterò le mie storie di caccia grossa».
«Davvero?», rispondo, «E dove è stato, esattamente?».
Il tedesco ride, con uno sguardo da vecchio satiro.
«In realtà non mi sono mai mosso da qui. Però le assicuro che ho fatto molti safari. Caccia superiore. E caccia inferiore», e disegna nell’aria con le mani due generose curve ad anfora.
In una sala nel sottotetto sono raccolte alcune armature dell’epoca coloniale, forse gli oggetti di maggior valore della collezione. L’omino stacca dalla parete uno spadone, lo impugna, poi mi passa una specie di daga cortissima e mi sfida all’impari duello. Sto al gioco e mi lascio disarmare, crollando a terra come un consumato attore.
Il tedesco è raggiante, si volta verso Beatriz ed esclama: «Messere, è solo per gli occhi di questa bimba che non le do il colpo di grazia».
Scendiamo nel salone e in mezzo a una serie di cactus da esposizione Schulz rivela la sua ammirazione per l’Italia: «Il suo paese ha dato all’umanità alcuni tra i più grandi tesori dell’umanità. Claudia Cardinale, ad esempio. E più tardi Ornella Muti».
Al momento di congedarci il nostro anfitrione ha quasi gli occhi umidi.
«Sa», mi dice, mentre si accarezza il petto carenato e una canottiera ingiallita fa capolino sotto il maglione di lana, «Prima di morire vorrei visitare Roma. Vedere la fontana di Trevi dove fece il bagno Anita Ekberg. Andare a comprarmi uno di quei meravigliosi completi che indossava Marcello Mastroianni».
Ci salutiamo.
Il vecchio Schulz, in piedi sotto l’arco d’ingresso del cortile, agita la mano e continua a mormorare: «Marcello Mastroianni».

Domenica 25 marzo 2007

Davanti ai cancelli del cimitero monumentale di Sucre, la vera capitale della Bolivia, una stola di fiori di un rosso intenso e di un lilla profondo si srotola sulle bancarelle delle venditrici. Una vecchia si affaccia dietro un carretto di frittelle, il suo naso adunco sporge dallo spigolo di latta bianca e disegna un quadro di Kandinsky. Una bimba di tre anni attraversa il viale sgusciando tra i camion e le jeep, avvolta in un’immunità misteriosa, come se fosse intoccabile, incurante di una materia alla quale non appartiene.
Un ragazzino mi si avvicina e mi propone di farmi da guida per la visita. Rifiuto gentilmente l’offerta, di solito non mi piace affidarmi a nessuno, preferisco guardare le cose con i miei occhi, forte delle notizie che ho già letto, chiudendomi in fondo in un solipsismo di cui faccio fatica ad accorgermi. Poi ci ripenso, spinto da chissà quale istinto, e torno sui miei passi. Un altro ragazzo, più intraprendente, mi taglia la strada e mi strattona, spingendomi verso l’arco neoclassico sormontato dalla grande scritta HODIE MIHI CRAS TIBI. Il primo è rimasto indietro e protesta timidamente, quasi con le lacrime agli occhi. Gliel’avevo chiesto prima io, dice con un filo di voce. Mi scuoto. Ha ragione, confermo. Allora lui sorride e mi raggiunge di corsa, mentre l’usurpatore batte in ritirata.

Entriamo nel cimitero. Lunghi viali diritti, siepi curate, alberi secolari, file di cappelle e mausolei, statue in marmo di Carrara che fanno capolino dietro le ringhiere in ferro battuto. Un bambino cammina a fatica, quasi sbandando sotto il peso di un’altissima scala a pioli che afferra con le manine e porta in giro come uno stendardo. Due vecchie quechua si danno le spalle, sedute sulla stessa panchina, masticando lentamente da due cartocci identici di banane fritte.
La mia intuizione si è rivelata preziosa. Il ragazzino è straordinario. Sceglie con sicurezza un punto nella geografia delle tombe, si mette quasi sull’attenti, gli occhi socchiusi, il mento proteso, aspira profondamente, poi snocciola una serie di notizie con voce ispirata, in uno stile delizioso, a metà tra la pomposa retorica di uno storico risorgimentale e la narrazione di un cantastorie antico che abbia fatto in tempo a conoscere i capolavori del realismo magico.
«Nel primo mausoleo riposano le spoglie mortali del presidente della bella Repubblica di Bolivia don Aniceto Arce Álvarez Ruiz, morto un 14 di agosto del 1906. Sposatosi con donna Amalia Argan de Arce, sorella del principe Francisco Argandoña. Don Aniceto Arce Álvarez Ruiz nacque a Tarija un 17 aprile del 1824. Fu un importante industriale minerario e volle realizzare una via ferrata che unisse le miniere boliviane al porto di Arica, nel perduto litorale della bella Repubblica di Bolivia, e all’inaugurarla pose un ultimo chiodo di oro zecchino, e la ferrovia risplendette. Fece edificare presso la città di Cochabamba un ponte che ancora reca il suo nome. Don Aniceto Arce Álvarez Ruiz fu il ventiduesimo Presidente della bella Repubblica di Bolivia dal 15 agosto 1888 all’11 agosto 1892. Nacque a Tarija un 17 di aprile del 1824 e morì un 14 di agosto del 1906. Le sue spoglie mortali riposano eternamente nel cimitero monumentale della città di Sucre, la cità bianca, capitale costituzionale della Bolivia».
Serio, compreso nel suo ruolo, il ragazzo abbassa la testa e si mette in marcia come un soldatino, imboccando il vialetto che dà su un catafalco di bronzo e granito: «Questo monumento accoglieva le spoglie mortali del Generale Manuel Ascencio Padilla, eroe dell’indipendenza boliviana, che oggi riposano in un’urna nel Palazzo della Libertà, qui, nella città di Sucre chiamata anche Chuquisaca o la città bianca, capitale della bella Repubblica di Bolivia. Don Manuel Ascencio Padilla nacque a Chayanta un 28 settembre del 1774, fu eroe indomito insieme alla moglie, la fiera e affascinante donna Juana Azurduy, che egli sposò a Chuquisaca, oggi Sucre, nell’anno 1805. Il Generale Ascencio Padilla combatté nelle più importanti battaglie tra il 1811 e il 1816, gettando nello sconforto l’esercito colonialista a Guaqui, Tucumán e Salta. Caduto in battaglia a El Villar in un triste 14 settembre del 1816, donna Juana Azurduy continuò a combattere sguainando la sciabola del generale e correndo tra le file nemiche con la testa dell’ineguagliabile sposo sotto il braccio, così incutendo rispetto e seminando terrore tra i soldati dell’esercito del Re di Spagna. Le spoglie dell’eroe sono state trasportate l’11 marzo 2006 nel Palazzo della Libertà, e lì possano riposare insieme ai resti della sposa. Il Generale Manuel Ascencio Padilla nacque un 28 settembre del 1774 e morì un 14 settembre del 1816».

Dopo altre tombe, altre sculture, altri eroi e Presidenti, dopo aver pagato con piacere il ragazzino, mi avvio verso l’uscita. Lo vedo ancora in piedi al centro di un viale allagato dal sole che a duemilaottocento metri è meno crudele che sull’altopiano. Un’ombra sagomata si disegna ai suoi piedi, mentre un barbaglio violento rimbalza da una statua di bronzo.
Mi volto. Mi sembra che dai vialetti laterali un esercito di personaggi severi e dignitosi prenda corpo e mi venga incontro. Brandiscono sciabole, soppesano chiodi dorati sul palmo della mano, aprono enormi libri o scuotono la polvere da alti cappelli a cilindro. Mi giro ancora. Il ragazzino non c’è più, al suo posto una donna cieca avanza guidandosi con il lungo bastone bianco e stringendo nell’altra mano due coni gelato alla vaniglia.

Sucre, la città bianca. Strade ordinate, parchi puliti, begli edifici coloniali, una successione di arcate torrette guglie porticati. A sera sono salito sui tetti del convento di San Filippo Neri. Passeggiando sulle tegole rosse, attento a non perdere l’equilibrio, ho aspettato che il sole scendesse dietro i contrafforti delle Ande, verso Potosí, e che un verdazzurro perlaceo operasse una magica metamorfosi sulla materia dei campanili e delle balaustre, mentre in alto sorgeva una luna piccola, come un palloncino perdutosi troppo lontano, forse la stessa luna che mi aveva seguito a Basilea, tra i ponti sul Reno. L’intonaco bianco si è fatto alabastro traslucido, cristallo di zucchero, guscio di ciprea, pietra pomice, affilato osso di balena. Mi sono afferrato al miraggio, pensando che a volte la speranza è nell’equivoco.

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4 Commenti

  1. A me questi racconti mi fanno viaggiare alla grande, mi portano in terre sconosciute e sognate, esalano profumi e sapori da gustare…
    si respira l’aria di Sucre.
    e mi ritrovo, nelle belle descrizioni, dove gli aggettivi aiutano ad aprire una visuale colorata e vivace!

    ‘Una vecchia si affaccia dietro un carretto di frittelle, il suo naso adunco sporge dallo spigolo di latta bianca e disegna un quadro di Kandinsky.’

    Adoro i dipinti di Kandinsky!

    Questa è narrazione di un luogo in poesia, dove il gusto è deliziosamente affinato alla bellezza.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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