Diorama dell’est #1
di Giovanni Catelli
Petrska
Oggi sono sceso, presto, a colazione.
Oltre le tendine, i vetri, l’aria, mi giungeva il soffio della strada, più vicino e vivo, nel mattino senza nome, nel freddo bianco, e lieve, di febbraio; ho vagato, nella sala vuota, verso un tavolo propizio, una saldezza di pareti, una difesa, ma fuggivano le cose all’apparenza, m’accecava quel chiarore di tovaglie, vacillavano le sedie nell’attesa, come a leste ore di partenza.
Ho poggiato il mio silenzio sulle voci, sulle vite già più esperte del mattino, che tracciavano progetti, nelle sale invisibili, nel cieco limbo del servizio, riscuotevano il mio peso dai minuti, si sporgevano alla luce senza inganno, pronunciavano le vie del giorno alla città: si muoveva, una corrente più leggera, una boscaglia mobile di nomi ed occasioni, una promessa d’ombre, di lontane piazze quiete, mai raggiunte dal tempo vincitore, già posate accanto, dal fiume fragoroso della vita, dal rumore ignoto, e cupo, che preme le sue acque.
Come uscire, silenzioso, ad accogliere l’arrivo, ad incontrare, la sorte del ritorno, il volto ignaro delle cose mai stupite, la fermezza, delle vie nel moto, la costanza segreta, delle piazze abbandonate al cielo, una sottile traccia, di sguardi ad un incrocio: non bastava, ieri, l’energia del viaggio, la stanchezza lieta dell’approdo, un primo navigare nei miraggi, di smarrite strade inconsapevoli, un timore, di fallire il gesto dell’abbraccio, dissipare le vene dell’incontro: sono entrato, nella stanza per difendermi, ho serrato le porte alla presenza, della mia città impossibile nel buio, visitavo le anticamere del sogno, quel freddo timore d’apparenze ostili, vaghe luci e rumori alla finestra, voci di lontano, invisibili notizie: m’affacciavo allo stupore, alla paura, con il corpo inerme ceduto alle distanze, a una spaziosa prigionia d’annunci, una segreta foresta di pareti: si muoveva il buio, tutt’intorno, con destrezza sinuosa d’agguati, lenta fermezza di rapina, sprofondava il respiro all’occasione, all’ignoto balenio di fuga, s’accasciava il peso all’affiorare, di remote sirene senza pace; ho traversato, il dubbio delle ore, la sabbiosa incertezza dei minuti, quel chiarore immobile dei gesti senza luogo, la maceria quotidiana dell’attesa, con il morso inquieto del ritardo, la furiosa rincorsa dell’indugio, la pressione d’un grido senza varchi; ritornava, lungo tenui rive d’aria, la voce della radio, quel battito calmo, compiuto, che valica l’ora degli anni, sorregge la tenacia delle cose nelle stanze, la sicura notizia del minuto e del Paese, la durata impenetrabile dell’unica città; ritornava, tra le anse del silenzio, quella ferma illusione, la parola, una sostanza celata di pesi ed abbandoni, una costante guerriglia d’ombre con l’assenza: distendeva, le sue dita di stupore nell’arrivo, dissipava, l’incertezza compatta del corpo nel capire, la sua vaga distanza nei moti del viaggio, tracciava sul buio il presente avverato, la tersa misura dei gesti allo spazio.
Risalivo, e meritavo la notte, quella sorda compagnia del tempo, la sommersa ostinazione del futuro, lungo il vasto cedimento delle tenebre, pallide radenti lame di chiarore, divoravo a brani l’ombra della stanza, vigilavo un appassire di luci nella via, con astuzie di sonnambulo indagavo, grigiori lungo i vetri, voci di risvegli, fremiti del sonno; acceleravo, i motori della brina, quel furtivo scalpiccio della paura, la minaccia fredda nell’aria impallidita, la catena già veloce sulla pietra, nella piaga indifesa dello sguardo; sono sceso, presto, a colazione, per inaugurare tutto, riconoscere nel passo le distanze, misurare il volto a vetri amati, calcolare il peso del respiro, la vorace trasparenza del presente, l’avanzare d’ogni cosa oltre il ricordo: sono sceso, qui, dove il rumore del passato mi confonde, si dissolve nel fragore ignoto, nel minimo tremore dell’attesa, mi sospendo agli acquitrini del ritardo, alla promessa di fantasmi alle vetrate, ma non so cadere oltre la soglia, scivolare lungo l’aria senza nome, correre alla vena fonda della vita: non divido il tempo nello sguardo, non possiedo il volto di chi va, non ricordo la sembianza vera di chi torna.
Praga
Da Praga non si parte.
Là, soltanto, invisibili si arriva, in giorni casuali della vita, già perduti e ignari nel moto delle cose, accelerato, nella corsa vana e stanca delle destinazioni uguali, con giudizi falsi lanciati nell’attesa, o tiepide incertezze nell’ignoto confortevole, si arriva, con ausilio di meccaniche o di sguardi, lungo nubi vuote o ferro di binari, si confonde la saldezza della meta, nella vaga ostinazione che sussurra la distanza, si diradano ed allentano materie abituali, si fa largo nella vista una misura di confini: si divora, il suo mancare, con assalti vani d’impazienza, si traspirano gli umori cupi dell’affanno, si progetta l’apparire delle forme inevitabili, degli intimi profili tesi all’imminenza, si disegna l’affiorare di cuspidi nell’aria, e non si parla, si trattiene l’ansia, l’attenzione che tesse il suo silenzio, la sorpresa di sentire più vicino il morso delle case: non affonda mai, davvero, lo sguardo nella vita, nella carne simultanea delle cose che l’invadono, s’arresta, si trattiene, soffocato dallo sbocco, immenso, della pietra disponibile, dal corpo mobile che piega le sue braccia intorno al fiume, sa trascorrere, soltanto, nell’incavo di luce che l’afferra, muove lenti vapori d’illusione, sulla trama incalcolabile di vuoti che s’addensano, raccoglie la severa mappa degli incanti, sull’acqua laboriosa che distende l’urto e l’apparenza.
Prazski poutnik
Tu arrivi ogni notte, oltre la stanchezza ed il silenzio delle pietre, l’oblio umido e pungente dell’ottobre, la fatica silenziosa e vorace, che depreda passi nelle strade, cancella rumori e voci di ritardo, soffia rapide sagome alla pena delle piazze: esaurisci, ogni volta, l’istinto cieco dello sguardo, la rincorsa di lontane coincidenze, ti disperdi, lungo il vano mareggiare dei selciati, accumuli salvezze nei dettagli, fragili bandiere sparse nel ricordo, cenni d’ancoraggio ai moli del fuggire, visiti brezze serali del fiume, le trattieni a risalire la Myslikova, ti spingono leggere sino ai tram, nella Vodickova, dileguano in segrete corse d’innocenza, confuse da miraggi e voci d’avvenire: quali gesti di luce vorrai per il buio, già pallide braci si spengono via, non regge sui volti la vita che insegui, non sale alle voci un respiro profondo, si ferma negli occhi una crosta di gelo: tu vai, non ha luoghi la notte che il sogno diserti, fra leghe di buio conosci tepori di stanze, si stringe severa si muove la città lungo l’ombra, veleggiano mura palazzi nel tempo, scivolano al vero luogo al destino, all’intrico serrato che il giorno disperde.
Così vasta e veloce l’occasione la tenebra, davvero non sai la via che ti cerca, divori nel passo i deposti silenzi, gli spazi celati al mancare del giorno, i binari mai spenti, cavalchi le rive che sono già fiume, sorseggi nel fiato le malte del fondo, sorvegli la chiusa le ruote del tempo, raccogli sui ponti le brine dell’alba.
Ora sai: ogni notte una lieve catena si tende, s’inarcano frecce leve quadranti, rintocca un tremore ai campanili, e tu non puoi mancare alla tua pena, sfuggire al tuo talento, nessuno testimonia del destino, si recita soltanto per sé stessi, già palcoscenico pubblico attori, ogni sera s’illumina il futuro, il presente non ha voce, insaziabili crescono pietre ai selciati, scivolano vie senza riposo alla corrente, basta un solo passo all’andare, un rimpianto alle notti trascorse, già le scale il giubbotto gli occhiali, ti reclama la distanza il vuoto l’ombra, non si placano le fiamme nel tuo sogno, non si stringe l’anello infinito delle strade.
Treni
I treni continuano a lasciare Zizkov.
Li vedo, sul ponte immobile di ferro che moltiplica il peso del partire, li raccolgo, quasi ombre, nella sera di carbone che richiama inverni e polvere, li stringo, nelle palpebre che afferrano la luce dell’istante, li muovo tra le sabbie dei cantieri silenziosi, li sommergo di sterpaglie rovi copertoni, li rinchiudo nelle secche amare della ruggine, sugli aridi ghiaioni dei binari e dello sguardo, non potrei saperli accesi dalla vita, morsi dagli opachi venti della notte, sazi di pinete laghi temporali, carichi di luci e di stazioni, li rivoglio, incapaci di fuggire, abbandonati nel ritorno, chiusi nell’eterno sospiro di frenata, colmi di silenzio, certi della meta e dell’approdo, sigillati alla rapina del minuto, chiari, nella trina pallida che regge la città, per abitare i doni dell’arrivo, desolare dubbi e lontananze, convocare i demoni del fiume, dissipare il soffio dell’oblio, sospendere le ombre liete nel destino.
prosa assolutament deliziosa, sempre ritmica, una prosodia variabile ma sempre presente, successioni di dodecasillabi che ti cullano con le loro assonanze. Un vero piacere. Grazie, a.
La penso come Antonio, un ritmo incalzante accompagna la lettura…
Diorama è un titolo azzeccato per questa sequenza luminosa.
Una gran solitudine permea questa prosa,
Nei’ treni continuano a lasciare Zizkov’ si respira pienamente!
è avvolgente.
Molto bello. Le pause sintattiche scandiscono brevi membri ritmici dal ductus giambo-trocaico (endecasillabi, i dodecasillabi di andamento trocaico a cui alludeva Sparzani, settenari). Lo stile raggiunge il risultato di un monolinguismo limpido come un cristallo di Boemia. Gli oggetti e le atmosfere appaiono rappresentati come per rapidi, recisi tocchi di bulino.
Se mi capita di fare un viaggio a Praga, vado sicuramente a visitare la stazione!
Bel pezzo!
ciao