Ikebana

shoka-hosta1.jpg di Luca Ricci

1
La bambina lancia la palla sul muro poi batte le mani. E’ difficile battere le mani e riprendere la palla. La difficoltà aumenta con l’aumentare dei battiti. Il rumore della palla e delle mani si alternano. La bambina riesce a batterle due volte. Alla terza il pallone le arriva addosso, non fa in tempo. Ci riprova e ancora fallisce. Ma sembra quasi che la diverta di più sbagliare.
– Mamma è in casa?-
– Sì-
– Posso?-
La bambina blocca la palla. Se la mette sottobraccio, poggiata all’anca. Ha la magliettina imbrattata di polvere e i pantaloni lisi sulle ginocchia.
– Sì se ti aspetta, no se non ti aspetta-
– Mi aspetta-
Riesco a passare. Chiedere il permesso è stata una mossa giusta. La bambina si è sentita importante, e in qualche modo giudice della situazione. Fa un passo indietro, quasi con riverenza, e lascia libero l’ingresso. Supero il cancelletto e raggiungo la porta. La donna era alla finestra e viene subito ad aprirmi. Ha un sorriso molto accomodante e dei fermagli nei capelli. Posso sentire ancora il profumo del bagnosciuma: dev’essere rimasta dentro la vasca con gli occhi chiusi, magari a fantasticare. Un’ottima avvisaglia. Muovo la testa in direzione del cancelletto.
– Quella è tua figlia-
– L’hai riconosciuta subito-
– Ti somiglia. Me l’avevi detto-
– Pensavo che non ti avrebbe fatto passare-
Lo prendo come un complimento. Velato, sottile, smorzato, com’è giusto che sia a questo punto. La bambina mi ha aperto il cancelletto, la donna la porta. Aver superato questo doppio sbarramento femminile, essermi spinto così lontano, mi fa sorridere. Cerco di farlo con dolcezza, e vengo subito ricambiato.
La donna mi fa accomodare in salotto, prepara qualcosa da bere. Nelle occhiate che mi rivolge, nel modo in cui si muove, c’è un’intensità inequivocabile. Ci siamo piaciuti all’istante, l’interesse è stato immediato: l’impressione che avevo avuto sembra confermata. La luce inonda il salotto, le tende non riescono a smorzarla. E’ strano che certi incontri capitino a quest’ora, di primo pomeriggio. Tamburello le dita sul ginocchio.
– Non credevo di rivederti…-
– Davvero?-
– Non così presto-
– Ti sembra stupido essere venuto qui, a casa?-
– No, perché? E’ stato un grosso atto di fiducia da parte tua…-
Mi porto alle labbra il bicchiere. Forse c’è un po’ d’impaccio, un po’ d’imbarazzo. Niente che non avessi preventivato. Anzi, è divertente. Io e la donna, a tratti, ci guardiamo come due ragazzini che stanno per mettersi a fare i compiti.

2
La donna viene a sedersi. Accavalla le gambe e ancora una fragranza di bagnoschiuma mi solletica le narici. Si lascia prendere una mano. Se la lascia esplorare. E’ calda all’interno. Il sudore che sprigiona tradisce un’emozione incontrollata. Così tutto è perfetto, e sta accadendo senza intoppi, o deviazioni di sorta. Le nostre gambe si sfiorano. Mi allungo verso la bocca ma stavolta la risposta non è quella sperata. Poco male, questione di minuti. Non perdo la calma. Questa donna mi vuole: mi ha conosciuto, mi ha lasciato il suo numero, mi ha invitato a casa sua. Mi ha lanciato segnali diretti- senza contraddirsi neanche una volta-, riguardo alla sua volontà. Decido di accordarle una pausa, per allentare la tensione. Mi alzo, vado alla finestra. Sull’altro lato della strada c’è un uomo con una camicia verde a quadri. Muove la bocca, non posso sentirlo. Sembra che si rivolga alla bambina. Non vorrei che fosse un malintenzionato. Sto per dirlo alla donna ma poi lascio stare. Perlustro con gli occhi il salotto. Sul tavolino basso ci sono delle composizioni floreali stravaganti. Asciutte, minime.
– Belli questi fiori-
– Li faccio io-
– Cioè?-
– Sono Ikebana. Arte giapponese-
La donna si alza, prende un vasetto, mi spiega.
– Il ramo in alto rappresenta il cielo, quello in basso la terra, e quello intermedio l’uomo. I tre elementi dovrebbero vivere in armonia-
Annuisco. Non posso che concordare sull’idea di una tolleranza universale. Comincio a ripetere alla donna le cose che ci siamo già detti. Il secondo incontro diventa un riassunto del primo. Di che segno siamo, i colori che ci piacciono, i film preferiti. La cosa prende una piega romantica che tutto sommato non mi dispiace. Ogni donna ambisce ad essere la prima, nella lista di un uomo. Sa perfettamente che ho una moglie, due figli, una casa molto simile alla sua dall’altra parte della città, se si escludono gli Ikebana. Eppure non riesce a dominarsi, si vuole innamorare. Forse pretende di pensare a noi già come a una coppia. Io non faccio nulla per dissuaderla. Torno alla carica. Stavolta gioco coi suoi capelli. Me li arriccio a un dito. Ancora mi allungo verso la bocca, ancora si ritrae con garbo, per prolungare il piacere di sentirsi corteggiata, e allo stesso tempo farmi capire che il diniego è tutt’altro che definitivo.

3
Squilla il telefono. Rimango solo sul divano. Ammiro la donna che si alza, la gonna leggermente spiegazzata dietro. Noto che abbassa la voce. Sono certo che si tratti del marito. Non si vuol far sentire per delicatezza nei miei confronti. C’è anche una componente egoistica: non vuole sciuparsi il momento che sta vivendo, la leggera follia di un amore inaspettato. M’invade una sicurezza ultraterrena. Non posso fallire, con questa donna. Proprio non posso. Ed è attraente, ancora giovane. La conversazione telefonica si prolunga, allora mi alzo, apro la porta e torno fuori. La bambina è sempre al cancelletto con la palla.
– Ci sei riuscita?-
– A far che?-
– A riprendere la palla dopo tre battiti-
La bambina ride, poi scuote la testa. Inscena una specie di balletto. Lancia la palla sul muro, batte tre volte le mani, sbaglia. Vuol farmi vedere che non ci riesce, che è difficile. Finge di avere il fiatone. Si rimette la palla sottobraccio, sull’anca.
– Sei un amico di mamma?-
– Una specie-
– Sì o no?-
– Sì-
Mi rendo conto di aver commesso un’ingenuità. Non dovevo dirglielo, alla bambina. Non che le abbia detto niente, in fin dei conti. Però l’ho trattata come un vecchio conoscente con cui ci si vanta, si millantano imprese sessuali per suscitarne l’invidia. Poi mi accorgo dell’uomo di prima. Quello con la camicia verde a quadri. E’ un poco discosto, sempre sull’altro lato della strada. Si mette in tasca il cellulare. Come se avesse appena finito una chiamata. Torno dentro. La donna è di nuovo sul divano.
– Chi era?-
– Mio marito-
L’associazione mentale è inevitabile. Penso all’uomo con la camicia verde a quadri, al suo cellulare. Cerco le labbra della donna. Ci baciamo, nella luce folgorante, impeccabile, del primo pomeriggio. Scaccio i brutti pensieri: le previsioni erano giuste, la valutazione delle circostanze, dei tempi e dei modi. Prendo coraggio. Infilo una mano sotto la camicetta, prima di essere fermato.
– E tua moglie?-
– Mia moglie cosa?-
– E’ sempre innamorata? Sei sempre innamorato?-
La donna ansima, la sua passione nascente è piena di domande.

4
Ci diamo un contegno, torniamo a parlare. Spiego alla donna di mia moglie, le dico quel poco che c’è da sapere. Intanto mi avvicino, deve avvertire la mia corporeità, il mio fisico deve incombere. Non voglio staccare la spina del desiderio.
Poi suona il campanello. La donna fa una faccia strana. Anch’io, immagino. Come se ci avessero interrotto sul più bello. Alla porta c’è l’uomo con la camicia verde a quadri. Entra un po’ timoroso, ma non ha nessuna reazione quando mi vede. Veniamo presentati senza alcun cenno ai rispettivi ruoli. La donna prepara subito qualcosa da bere. L’uomo prende a fissarmi. Non riesco a dire niente. La donna torna sul divano e comincia un piccolo supplizio. I due si mettono a parlare tra di loro. La donna capisce che così non va bene. Allora si alza. Anche l’uomo si alza.
– Ci scusi un secondo?-
– Certo-
Mi lascio affondare nel divano. Se potessi ci sparirei dentro. L’atmosfera s’è sciupata. Penso all’uomo. Alla sua camicia verde a quadri. Mi chiedo perché la bambina l’abbia fatto passare. Ero certo che stesse dalla mia parte, che fosse una mia alleata. Allora me ne rendo conto: non avrebbe lasciato passare nessuno, eccetto suo padre. Sento delle risate. La sensazione di disagio cresce. Poco dopo la donna accompagna l’uomo alla porta, ci salutiamo con un cenno. Segue una pausa che è un abisso.
– Scusa-
– Di che?-
– Gliel’avevo detto che non era il caso…-
Siamo di nuovo tutti e due sul divano. L’odore di bagnoschiuma però è svanito. A dirla tutta, a guardare bene, si può indovinare uno strato di stanchezza che si stende sul viso della donna come un velo. Mi verrebbero solo osservazioni inopportune. Mi sento un amante concordato, adesso. Nel salotto cala un silenzio molto simile a quello del salotto di casa mia, dall’altra parte della città.

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6 Commenti

  1. sono resi molto bene gli stati d’animo, le sfumature,
    le sensazioni corporee e psicologiche.
    Molto ben narrato!
    Complimenti!
    Chapuce

  2. Anche mia Nonna aveva un ikebana bellissima sul suo balcone…

    Vabbé dai, vado a dormire.

    Blackjack.

  3. Giuro che non voglio dare giudizi morali, ma questo racconto mi ha fatto venire un’angoscia incredibile, è veramente (per quel poco che ne capisco) ben scritto, molto ordinato e dettagliato, rimanda anche ad un’atmosfera giapponese. O come immagino che sia un’atmosfera giapponese. ciao e grazie.

  4. La camicia verde a quadri è la tua, lo so. E poi è troppo facile per uno scrittore, fare dell’autobiografismo ;-)

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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