Lo sguazzo dell’ardire e dell’osare

apparenza.jpg di Gianluca Veltri

Dopo l‘estate, quando l’autunno è giovane e ancora soleggiato, non tanto rassodato e ingrigito, l’appuntamento era fisso: se era un anno pari, dal 1986 al 1994, usciva un disco di Lucio Battisti, con parole di Pasquale Panella. Fu un’epopea recente della nostra musica leggera, in principio sottovalutata, poi vissuta con culto carbonaro. Solo post-mortem esplosa tardivamente e riconosciuta in tutto il suo valore. Perché fu una tribù, quella battistian-panelliana. I critici più acclamati faticavano a seguire quella scia discografica rarefatta, senza note di copertina, senza indicazioni, senza testi, tutto a sottrarre, mentre il mondo si contraddistingueva per una sovrabbondanza chiassosa e superflua. Senza interviste e senza lo straccio di un’apparizione. Senza televisione! Battisti-Panella era una cittadella a sé stante, in cui vigevano altre regole rispetto al resto del mondo. Copertine bianche e spoglie, otto-brani-otto e mai uno di più, che te li immaginavi divisi tra lato A e lato B anche nell’era digitale. Musiche elettroniche, prodotte per lo più al synth e alle tastiere (ma non solo), un’algebra musicale che avvolgeva testi cervellotici, immaginifici, folli. Groove elettronici che ti obbligavano a muoverti, impasti sonori e ritmici debitori alla musica da club, alla house, alla techno. Ma con quella voce. Sconcertante.
In principio fu “Don Giovanni”, nel 1986, e fu l’unico a uscire in marzo e non d’autunno. Poi seguirono, a distanza biennale infallibile, “L’apparenza”, “La sposa occidentale”, “C.S.A.R. – Cosa succederà alla ragazza”, “Hegel”. Il 1994 fu l’anno del sipario chiuso. Non ci furono altri dischi di Battisti, l’eccitante rito degli anni pari autunnali si arrestò tristemente. È stata una delle ultime liturgie legate alla musica leggera. Poi, il 1996 non arrivò nulla, Lucio aveva altro a cui pensare che pubblicar canzoni. Da lì in poi l’avventura discografica di Battisti non avrebbe avuto seguito; in breve, anche l’avventura umana. Con straordinaria fedeltà, gli eredi non fanno uscire sul mercato il materiale in loro possesso. Battisti non lo aveva pubblicato, dunque non desiderava che fosse pubblicato.
Quella cinquina di album fu realizzata in complicità con lo scorbutico poeta Pasquale Panella, che né prima né poi – a onta della gloria e di collaborazioni prestigiose – avrebbe più visto esaltare i suoi testi da tanta voce. Battisti poteva cantare usando metriche impensabili e parole assai inconsuete, precluse ai più: otturatore, saldatore, schiumogeno, sesquipedale, alabastrina, passamanerie, cialdone, ricettario, predellino, barbaglio, impastatrice, sbatacchio, scandaglio, discobolo, in bocca a lui, sono termini del tutto plausibili, quasi di comune uso, degni di cittadinanza. In un festival di onomatopee, calembeur, allitterazioni, equivoci voluti, enjambement, nelle canzoni dell’era panelliana trovano posto l’euforia da giardino, l’arioso colosso pugilatore, la giravolta degli oggetti, aggettivi catarifrangenti infranti e lucenti, calzoni dal volto umano, termometri contraddittori, ballabili mammelle, pose inesplose, la musica camusa, lo sguazzo dell’ardire e dell’osare, l’ultima papilla la farfalla e la lingua la spilla, nature morte virtuosamente, la carrozza anacronistica, il rosso mormorìo di un acquitrinio, l’inquilino in bocca stuzzicante e decine di altre immagini di straordinaria libertà espressiva. Compresa anche una manciata di neologismi (gialleggiante, buessa…).
Erano dischi allegri e dispettosi, quelli dell’ultimo Battisti. In diretta furono in molti a prenderne le distanze (ma che vuol dire? è impazzito? vuol far l’originale a tutti i costi?), rimpiangendo i falò sulla spiaggia delle strofe d’un eterna adolescenza mogoliana, le bionde trecce e i campi di grano, a te che sei il mio presente in fondo all’anima sei sempre tu. La pigrizia – anche di molto giornalismo specializzato, che senza mai osare stroncarlo si barcamenava tra aggettivi equidistanti (ostico, curioso, scontroso) – mise in ombra il fatto che quelle erano, a tutti gli effetti, canzoni di Lucio Battisti. Con la loro solita, meravigliosa, cantabilità: scomponibili fino a poterle suonare alla chitarra, gioiose, belle da squarciagola, popolari anche nella loro apparente astrusità, che usavano la musica come divertimento eversivo perché erano partorite da puro genio melodico. Cantate con quella voce squillante, cristallo lucente da ventenne, anche a 50 anni. “Una lametta da barba”, la definì l’altro Lucio, Dalla. Probabilmente non si tollerava di Battisti l’indipendenza dai media (anacronistica, empia, inaccettabile), dalla cultura del pettegolezzo e della marchetta, della promozione obbligatoria. La reclusione impenetrabile del cantante di Boggio Bustone era ardua da penetrare e ancor più da mandare giù. Pubblicava questi lavori originalissimi, di biancore accecante, ogni due anni, spedendoli come missive altere o messaggi a senso unico, sapendo sempre dove trovarvi, mentre voi non potevate mai trovare lui altrove che nelle sue canzoni. Era stato un idolo giovanilistico, mentre ora negava il suo corpo totalmente: era diventato solo voce.
Dopo la morte di Battisti fu rivalutato, non subito e non da tutti, anche il corpus panellianus del periodo 1986-1994. 40 canzoni, dischi autunnali, dal mood inconfondibile, ma ognuno con una sua precisa fisionomia: “Don Giovanni”, il primo atto (un po’ sopravvalutato), ha il merito di avere aperto la strada, anche se ancora non osa come i successivi; “L’apparenza” è un disco di musica sinfonica leggera, sontuoso e avvolgente; “La sposa occidentale” è come uno spiritello viola, mercuriale e giocoso; “C.S.A.R.” mostra qualche spigolo in più, è come uno specchio infranto luminescente; “Hegel” sigilla la lunga inafferrabile storia di Battisti, cripticamente.
E proprio nel periodo in cui uscivano i suoi dischi, in un incipiente autunno degli anni pari, ma più triste e precoce, se ne andò lui: 9 settembre 1998.

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26 Commenti

  1. Tutte le canzoni di Battisti mi piacciono
    ma questo ritornello
    nella mia testa è un vortice perenne!

    “Acqua azzurra
    acqua chiara
    con le mani
    posso finalmente bere…
    nei tuoi occhi
    innocenti
    posso ancora
    ritrovare
    il profumo di un amore puro
    puro come il tuo amor”

  2. Grande… la scelta dei termini è fantastica! :D Ho scritto qualcosa anch’io su Giornalettismo pochi giorni fa, sono contento che quel periodo-sodalizio venga riscoperto.

  3. Mah! Il terreno è minato. Il sudore è mancato sul palco. L’elettronica è algida, nessun odore ad accompagnare polpastrelli doloranti. Anche questa sarà stata musica e poesia? Se si ammette la possibilità della loro coesistenza…

  4. tR, assenza di sudore o odore, algidità (ma è poi vero nel caso di panella? i suoi pezzi, soprattutto Hegel e la Sposa occidentale, sono tra le cose più struggenti, malinconiche ed eccitanti che abbia mai sentito!) da quando in qua sono elementi la cui mancanza qualifica come poesia?

  5. E poi quei dischi sono soprattutto un omaggio alla donna.
    Che te la immagini a tacco alto, urbana, felina, tra i 25 e 35,
    nebulizzare mezze frasi, gocciolare allusioni, digitare sul tastierino appuntamenti,
    rimandarne all’improvviso altri,

    Pasquale Panella è un sopraffino conoscitore della donna.

    MM

  6. Quei testi sono un grande omaggio alla donna.
    Che te la immagini su tacco alto, dai 25 ai 35, urbana,
    nebulizzare mezze frasi, gocciolare allusioni,
    fissare appuntamenti con le unghie sul tastierino,
    rimandarne altri.

    Panella grande connoisseur della Donna.

  7. Pensavo a un altro aspetto, in realtà. Anche se sono dubbioso sull’operazione Panella-Battisti, forse perchè l’ho ascoltato non con la dovuta attenzione, non so. Ma proprio perchè Panella è bravo e le sue parole cantano da sole, non vedo perchè abbinarle a quel tipo di musica.
    Comunque volevo mettere l’accento sulla scelta di percorrere la linea diretta che dallo studio di registrazione porta al CD: saremmo ipocriti se pensassimo che la produzione musicale debba riscattarsi dal mercato, ma qui vuol dire proprio accettare quelle del mercato come uniche norme possibili. La musica deve essere suonata, sudata, annusata, “sentita” con tutti gli otto sensi. La si ascolta su CD quando non si ha nessuno che te la suoni, la poesia la leggi sui libri quando nessun poeta te la declama, il film porno te lo guardi e ti fai una sega quando non hai vicino un’amante da baciare. In tutti i tre casi trattasi di onanismo allo stato puro. Che può portarti all’orgasmo, certo.

  8. @TR
    la coesistenza di musica e poesia è testimoniata da qualche migliaio d’anni di matrimonio – e poche centinaia di temporanea separazione

    quando un disco è algido è perchè vuole essere algido. mica una cosa è buona solo se le puzzano le ascelle (tra l’altro i primi due non sono affatto algidi, anzi sono melodici e piuttosto struggenti. il terzo invece è sbarazzino. quarto e quinto, a parte qualche buon pezzo, sono probabilmente i meno riusciti sia nella scrittura musicale, un po’ affrettata, sia nei testi, in cui l’oscurismo perde la misura e diventa un po’ fine a se stesso)

    – la musica non “deve” essere proprio niente (sudata, poi… ma che è, jogging?), al massimo dev’essere buona. c’era uno che compose le sue cose più profetiche da sordo, mai le udì e mai le suonò. e non era proprio l’ultimo arrivato. battisti faceva buon pop persino seduto sulla tazza. a meno che uno non abbia una prevenzione per l’elettronica e vabbè, c’è anche chi pensa che il pc sia il demonio

    che non fare concerti sia accettare il mercato è affermazione oltremodo bizzarra :)

  9. I cinque dischi di Battisti-Panella sono cristalli di luce innestati nella canzonetta italiana. Insuperati. Quando fu pubblicato “Don Giovanni”, Francesco De Gregori disse che Battisti dimostrava di essere dieci anni avanti a tutti. In realtà era molto più avanti, visto che ventun’anni dopo non l’hanno ancora raggiunto.
    La mia valutazione, per i mogoliani e per di deandrani (che spesso mettono sul tappeto un’inutile diatriba tra Battisti e De Andrè), la mia valutazione è riassumibile così:

    Mogol-Battisti è il ginnasio della canzonetta.
    De André è il liceo.
    Battisti-Panella è l’università della canzonetta.

    … Il posto è qui, è qui quel lavorio dell’erba, simile al pensiero che contiene nel vello quell’orma del tuo corpo ed uno stelo sconvolto dal tuo gomito che avrebbe dimenticato d’essere carnale, per non dimenticarlo in generale…

    Buona giornata a tutti.

  10. Io, nei miei romanzi, non faccio altro che citarli quei due matti. Mi fa piacere vedere che il fan club è ben nutrito (e agguerrito).

  11. I tuoi romanzi sono cacchette, biondillo. Nè Panella nè battisti sarebbero contenti delle tue citazioni.

  12. A meno di un anno di distanza da Persempregggiovane, ecco il gggiovane sbirro. che danni che fa d’orrico.

  13. Perdonami, Carla, non avevo visto la tua domanda. Il titolo del libro è “il giovane sbirro”. Romanzo adorato da Bordigoni.

  14. “Ascoltarlo e’ meglio di un anno di lezioni di composizione” (pag. 175)

    Gianni, volevo dirti che ho trovato “Per sempre giovane” in biblioteca ieri e l’ho finito adesso.

    Non bisognerebbe scrivere mai a caldo, pero’ lo faccio (tanto oggi hai il computer spento!): le tue fotografie sono quasi tridimensionali da quanto sono vere.
    Di solito odio i film e i libri che parlano di me, come il farmi fotografare, oggi pero’ mi ricredo. Complimenti e baci.

    fem

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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