No direction home
di Linnio Accorroni
Qualche numero a tentare di contornare e delimitare ciò che deborda e sfugge da tutte le parti, ciò che fa dell’Eccezione la Norma, della Delusione la Consuetudine: 500 canzoni, 1400 concerti, quasi tutti (pubblicamente o clandestinamente) registrati, centinaia di libri sulla vita e/o sull’opera, più di: 50 album ufficiali e oltre 500 bootleg, 23 versioni differenti del testo di una stessa canzone (Tangled up in blue, per la cronaca), centinaia di versioni live delle stesse canzoni (e nessuna quasi mai perfettamente uguale all’altra) centinaia di siti internet a lui dedicati (ce n’è uno molto bello e curato anche in italiano: www.maggiefarms.it).
Le definizioni grandinate su di lui, eterno candidato al Nobel, hanno una caratteristica che le accomuna e che le rende, in un certo senso, confortevoli: infatti pur essendo tutte, nessuna esclusa, inattendibili e menzognere; recano tutte con sé una qualche briciola di verità. Avviene più o meno come quando si perlustra un ritratto o un paesaggio a lume di candela o con una lente d’ingrandimento: un qualche dettaglio che illusivamente pensiamo possa farci decifrare colui che, proprio con il marmo dell’indecifrabilità, ha voluto costruire il monumento di se stesso: Grande fratello della Ribellione, Grande sacerdote della protesta, Zar del dissenso, Duca della disobbedienza, Duce degli scrocconi, Kaiser dell’Apostasia, Arcivescovo dell’anarchia, Pezzo da Novanta. Forse solo Martin Scorsese poteva tentare questa impresa: il ritratto dell’artista che da vecchio conciona su quand’era giovane, in questo doppio dvd No direction home, adesso in uscita con un noto settimanale. Forse solo lui sa mescolare, con sapiente perizia, l’eccitazione del fan della prima ora a cospetto del suo idolo e il lungimirante, ironico distacco di chi sa che Dylan è solo un coacervo di maschere e di trucchi, un enigma impossibile da sbrogliare. Del resto anche in The last waltz (1978), sempre di Martin Scorsese, c’era qualcosa di similare, il reportage di una finzione: a dispetto dell’evento da documentare (la cronaca dell’ultimo concerto del famoso gruppo The Band che, fra l’altro, per lunghi anni aveva accompagnato in tournée proprio Bob Dylan) quello che colpiva in quella pellicola era l’atmosfera ultrateatrale, le decorazioni della sala da concerto e i camerini, lo stage vuoto più che il pubblico in delirio durante l’esibizione delle rockstar, le confessioni rivelatrici in backstage dei componenti del gruppo che contrappuntavano il malinconico glamour di quella parata di stars, lo straniamento lisergico di Neil Young, la regalità insondabile di Joni Mitchell, la sensazione che quella serata era più un epitaffio che un epinicio. No direction home allora: titolo che, a dispetto della sua brevità, echeggia tutta una serie di rimandi tutt’altro che cifrati. No direction home non è infatti solo una scheggia del ritornello di una delle più epocali canzoni di Dylan (quel Like a rolling stone, su cui è uscita, da pochi mesi, una ‘definitiva’ monografia di Greil Marcus per Donzelli), ma anche il titolo di una delle più accreditate biografie, quella di Robert Shelton, sul Nostro. A chi gli chiedeva che cosa fosse questo film di tre ore e mezzo, Scorsese, dopo essersi rifugiato in un banale turismo (“E’ un atto d’amore”) ha aggiunto un’altra chiave di lettura, che sembra più un forbito omaggio alla maniera dylaniana che una spiegazione convincente: “E’ un film sugli occhi dei Dylan: lui dice molte cose, ma si capisce che i suoi occhi vanno da altre parti”.
Questo bellissimo dvd doppio, zeppo com’è di filmati di repertorio, movie-trailers, spezzoni di tv dell’epoca, foto, interviste, video inediti e non, con una colonna sonora che varrebbe da sola l’acquisto del dvd, viene a configurarsi anche come uno spaccato della società americana nel caotico decennio fra metà degli anni ’50 e ’60. Dylan ci appare non solo come gran cerimoniere e voce narrante che connette e lega episodi e personaggi, ma, sorprendentemente, si concede anche con una certa generosità. Curioso il fatto che per gran parte del film paia inquadrato di scorcio, con quella ritrosia un po’ impudente con la quale certi committenti lasciavano effigiare se stessi in certa pittura sacra. Le spiegazioni di Dylan non chiarificano, né spiegano alcunché, anzi aumentano la pesante coltre di ambiguità e inattendibilità che sempre lo precede: ma questo era quasi scontato sin dal principio. Si può dire solo che Dylan appare vecchio, con la faccia incartapecorita, le rughe a devastarne i lineamenti, tanto che il bagliore dei suoi famosi occhi azzurri appare una debolissima eco del perduto magnetismo, i capelli paiono come posticci e malcurati, quasi necessitassero maggior pulizia, la voce più stridula e nasale del solito. Due i registri del suo flusso verbale: o spara duemila parole al secondo, mangiandosi sillabe e vocali, muovendosi per ellissi, folgorazioni, metafore, crittografie, oppure si impunta e balbetta volentieri, sfoderando una serie impressionante di tic facciali. È Von Aschenbach, di ritorno dall’Erebo, a spiegarci quanto sia folle, tragico e buffo l’Inferno, è l’incarnazione di quel momento irripetibile in cui il Fool si sta trasformando in re Lear, ma anche viceversa. Appare antipatico, rude, presuntuoso, indisponente, falso, ipocrita, narciso, dissimulatore, aderendo perfettamente alla descrizione che, in questo dvd, fanno coloro che l’hanno conosciuto nei vari momenti della sua carriera. Del resto, tutte le testimonianze concordano sulla naturale ‘sgradevolezza’ e ‘osticità’ del personaggio, oltre che sulla sua indiscutibile genialità. Se la Perfezione è data da quel momento irripetibile in cui la Bellezza, keatsianamente, coincide con la Verità e la Giovinezza, a Dylan questo accadde durante la tournée inglese del 1966, pochi mesi prima dal suo famoso incidente con la moto, quello che lo allontanò, in maniera che pertiene quasi più alla mitopoiesi che alla cronaca, dalle scene musicali per otto anni. Il film di Scorsese non a caso finisce proprio con questo provvisorio ‘ultimo atto’, l’ennesima svolta di una storia infinita. Comunque, il Dylan di questi concerti inglesi è ispiratissimo, quasi perennemente sotto l’effetto di un meditato ‘sregolamento di tutti i sensi’, a cui sembra concorrere, in maniera non irrilevante, l’uso di droghe varie e assortite. Filiforme e caparbio, un po’ fidanzatino di Peynet , un po’ Esenin, indossa dei completi giacca e pantaloni in purissimo stile beatnik-dandy, aderentissimi e acchittati a esaltare la sua anoressica figura: in testa, una corona di capelli ricci. Se non fosse per quella nuvola crespa che porta sulle spalle come un lume, sarebbe la copia carbone del Ritratto di giovane con lucerna (1506) del Lotto, al Kunst di Vienna.
Le cronache filmate di quei concerti inglesi sono imperdibili: quando canta le canzoni, stravolgendo, come ha sempre fatto, il testo, Dylan a volte biascica versi, altre volte mastica le parole, sillabandone altre come fossero un mantra; strabuzza gli occhi, tenendo la chitarra elettrica come se fosse una specie di mandolino. Così scrive Alessandro Carrera nel suo La voce di Bob Dylan (Feltrinelli, 2001): “Il segreto della voce di Dylan è il suo spazio. Dylan non canta una melodia: la abita. Ne occupa ogni centimetro quadrato. Nessuna nota gli sembra indegna di un’alterazione, di un melisma, di una distorsione dell’altezza, di un ritardo o di un anticipo. Nessuna sillaba gli appare tanto ovvia da non meritare uno schiocco di consonanti rabbiose o di una derisoria deformazione delle vocali.” Qualche volta, dando la sensazione di uscire a malavoglia da un torpore che sta tra il lisergico e lo snob, risponde anche alle contumelie del pubblico londinese che non sopportava la sua doppia, insopportabile palinodia: da solista a leader di un gruppo, dagli esordi folk con chitarra acustica e armonica alla svolta elettrica. Appare quasi incredibile la sequela di insulti che si sentono distintamente partire dalla platea verso colui che viene considerato tout-court un apostata del proprio Credo: Giuda, Venduto, Infame, Traditore, Disgustoso, Banale, Commerciale. Tanto per connotare meglio il clima che aleggiava attorno a Dylan, i meccanismi devastanti dello show biz di cui era vittima, val la pena spendere qualche parola sull’assurda recita del rapporto con la stampa. Una sequenza in particolare evoca la demenzialità folle di quel circo itinerante di giornalisti, reporter e cameraman che aveva scovato il proprio clown di riferimento e che non voleva mollare la presa, vista l’appetibilità del boccone. Un giornalista, neppure più ‘stupido’ di tanti altri, domanda a un Dylan stranito e imbronciato quanti siano in quel momento i cantanti di protesta nella scena rock. Dylan appare incredulo, ma il giornalista cadenza di nuovo la domanda, quasi sillabando, e allora Dylan risponde: ‘136’. Quando poi si rende conto che davvero il giornalista reclama una contabilità numerica, risponde precisando la cifra ‘142’. Ma questo No direction home, adottando un lineare ordine cronologico documenta l’irresistibile ascesa di Bob Dylan fino appunto al temporaneo ritiro del 1966, è pieno di tante altre ‘scene primarie’ come questa e sceglierne una piuttosto che un’altra significa far torto al regista, al protagonista, alla convulsa emblematicità di una carriera irripetibile. “Fra qualche anno tutte queste teste di cazzo tenteranno di spiegare e dire ciò che ho voluto scrivere. Ma se neanche io lo sapevo.”
Mitico Bob!
in forma!:-)
Solo per segnalare che il link esatto (alla riga 10) è :
http://www.maggiesfarm.it
Sembra un gatto a cui abbiano pestato la coda. Dylan lo puoi ascoltare solo senza fare attenzione alla voce.
certo. un cantante lo ascolti senza fare attenzione alla voce. la voce la metti di parte.
come se ascoltassi maurizio pollini senza fare attenzione al pianoforte.
sarà meglio che tu, sì, proprio tu, metti da parte qualcosa d’altro.
;-))))))))))))))))))))))))))))))))
Io non amo Bob Dylan. A parte due o tre pezzi, non riesco proprio ad ascoltarlo.
Tanto si è qui a dire “mi piace-non mi piace”, allora per me Dylan è un genio. Ho tutte le registrazioni “ufficiali” e ho visto un po’ di concerti. Lo riascolto in continuazione. Trovo gli ultimi tre dischi meravigliosi quanto gli album “vecchi” più famosi. Trovo che dal vivo lui e la band suonino bene quanto Pollini. Trovo la sua voce – quella che dà il titolo al bel libro di Carrera, che ha recentemente ritradotto tutti i testi per Feltrinelli, soppiantando l’orrenda traduzione di Tito schipa Jr, e collaborando con un altro dylaniato doc, Daniele Benati, sì quello della rivista Il semplice – dicevo trovo la sua voce straordinaria, anche quando ringhia, anche quando lo si ascolta ringhiare sotto la pioggia, davanti a Villa Pisani, morendo dal freddo.
@ L.A.
May your hands always be busy,
May your feet always be swift,
May you have a strong foundation
When the winds of changes shift.
May your heart always be joyful,
May your song always be sung,
May you stay forever young,
Forever young, forever young,
May you stay forever young.
questa è l’ultima strofa della canzone di B.D. Forever young tratta dall’album Planet Waves del 1974, ne esistono almeno tre versioni.
Ed il balugginio bluette dei suoi occhi ormai è sbiadito, colpa dell’età.
Che cos’è rimasto del Robert A.Zimmerman che un giorno scelse di cambiarsi il nome in Dylan, in onore del poeta irlandese che amava bere. A distanza di anni un vignaiuolo non ancora pago dei 146 concerti di B.D. che è andato a vedersi in ogni dove, ha pensato di chiamare uno dei suoi vini proprio Planet Waves.
Colore rubino intenso quasi impenetrabile e prezzo alto, ma il nome tira ed il nettare degli dei poi è di moda, si sa.
Il mito Bob Dylan è il doppelgaenger dell’uomo Robert A.Z., il doppio fantasma con il quale è condannato a vivere; il dipinto di Lorenzo Lotto assomiglia paurosamente a B.D. giovane, per i capelli si fa subito: prova a mettergli in testa il gatto spaurito dell’altro famoso dipinto di L.L., l’annunciazione.
mi sembra un ottimo testo, questo.
io non sono un gran fan di Bob, nel senso che in genere non mi entusiasma e non mi vien spesso voglia di ascoltarlo, e credo che circa metà dei suoi album non siano granché, ma di certo lo apprezzo, e pur non sapendo se considerarlo genio o meno, artisticamente parlando, ne riconosco la grandezza. in più, alcune alcune sue cose che ho mi piacciono e in particolari momenti mi deliziano (Blood on the tracks, Before the flood, O Mercy, l’unplugged, e gli ultimi 3 album) e il suo modo di cantare ha il pregio di non passare inosservato e se non sempre l’effetto è ottimo è certamente un effetto forte, preferibile alla voce patinata che non dice niente di… che so, di un bublè.