A gamba tesa/Louis Ferdinand Céline
disegno di Albert Dubout per PANTAGRUEL, GARGANTUA
Erano giorni, mesi, anni, e qualche settimana fa ne avevo parlato su, http://www.georgiamada.splinder.com/, che volevo ritrovare un testo di Céline. Letto anni prima sul Magazine Litteraire e che da solo sarebbe bastato a dare un calcio in culo alle finte polemiche critico letterarie che riempiono il vuoto delle terze pagine dei nostri quotidiani, con altro vuoto. Del resto a colpi di vuoti la politica nostrana pretende di essere vestita di tutto punto, quando invece il re è nudo, e come se non bastasse non da affatto un bello spettacolo di sè. -Tutti a vuotare!- si dirà, dimenticando ogni centimetro di lotta, di sangue versato che sono stati necessari per esercitare un altro tipo di diritto, quello alla vita politica. E alla fine l’ho trovato, l’articolo, cercando tutt’altro – per i libri si sa è come in amore, conta l’odore e quello non lo programmi- alla librairie Voyelles di Torino. Si intitola Le style contre les idées(Editions Complexe,1987). Per Nazione Indiana farò una traduzione proponendone subito una versione che editerò da me – perchè esiste anche l’autoediting e non è meno severo- nelle ore a seguire. Post post.
ps
Quella che segue è una versione leggermente editata, da me, grazie anche alla gentilezza e alla grazia di una commentatrice, tale Emma, che pur apprezzando la gratuità del gesto, del tradurre, segnalava alcune inesattezze particolarmente imbarazzanti ai fini della comprensione del testo e del pensiero celiniano. Invito allora la redazione di Libero, che a mia insaputa l’ha pubblicato qualche giorno fa , a prendere i provvedimenti del caso. Ringrazio, invece il commentatore Carlo che ha messo su la versione originale – avevo lavorato sulla versione cartacea – permettendo ai francofoni di accedere senza alcuna mediazione al testo di Céline. Vive Rabelais!
Rabelais ha fallito
di
Louis Ferdinand Celine
traduzione di Francesco Forlani
Volete che vi parli di Rabelais? Bene, ho rovistato stamattina ancora tra le pagine dell’Encyclopédie, e adesso so. Tutto è laddentro, nella Grande Encyclopédie. Si possono fare carriere formidabili con quella. Ecco perché ho cercato alla voce Rabelais.
Capite, con Rabelais, si parla sempre di ciò di cui non si dovrebbe. Si dice, si ripete ovunque:
” E’ il padre delle Lettres françaises…” E poi c’è dell’entusiasmo, ci sono degli elogi, si va da Victor Hugo a Balzac, a Malherbe. Il padre delle Lettres françaises, ah la la! Mica semplice.
In verità Rabelais ha fallito. Si, ha fallito. Non ce l’ha fatta. Quel che voleva fare era un linguaggio per la gente, uno vero. Voleva democratizzare la lingua, una vera battaglia. La Sorbonne, era contro, i dottori e tutto il resto. Tutto quanto fosse acquisito e stabilito, il re, la chiesa, lo stile, lui era contro tutto.No, non è stato lui a spuntarla. E’ Amyot, il traduttore di Plutarco : lui ha avuto, nei secoli che seguirono, molto più successo di Rabelais. E’ su di lui, sulla sua lingua, che ancora oggi si campa. Rabelais aveva voluto far passare la lingua parlata nella lingua scritta. uno scacco totale. Mentre invece Amyot, la gente vuole ancora e sempre dell’Amyot, dello stile accademico. Questo è scrivere della m..: un linguaggio imbalsamato. Le colonne di un gran quotidiano nazionale, che si vanta di avere redattori che scrivano bene, ne sono piene. Ne risulta una cloaca a verbi ben condotti, a frasi ben intrecciate con, nel finale, una piccola astuzuia innocente. Affatto pericolosa, non troppo forte per non spaventare il pubblico. Qui sta lo scacco di Rabelais e l’eredità di Amyot. Della vera m…. Andiamo avanti.
Rabelais ha veramente voluto una lingua ricca e straordinaria. Ma gli altri, tutti, l’hanno castrata, questa lingua, al punto di renderla piatta. Così oggi scrivere bene, significa scrivere come Amyot, ma sta roba , non resterà che una lingua di traduzione.
Uno quasi celebre dei nostri contemporanei, ha detto una volta leggendo un libro: Ah che bello che è da leggere, la si direbbe una traduzione!- tanto per intenderci.
Quest’è la peste moderna del francese: fare e leggere delle traduzioni (non la mia,NDT), parlare come nelle traduzioni. A me, c’è della gente che m’è venuta a chiedere se non avessi preso questo o quel passaggio dei miei libri, da Joyce. Ebbene sì, me lo hanno domandato! Ovvio, visto che l’inglese è di moda. Parlo inglese perfettamente, come il francese! Figuratevi, andare a prendere qualcosa da Joyce! No, come Rabelais ho trovato tutto nel francese.
Lanson dice: “Il francese non è molto artista”. Niente poesia in Francia, tutto troppo cartesiano.. Ovviamente ha ragione, Amyot, ecco un pre-cartesiano, ed è così che tutto è stato rovinato.Ma non era il caso di Rabelais; lui si che era un artista.
Rabelais sì, ha fallito e Ayot ha vinto. La posterità di Amyot, sono tutti questi piccoli romanzi castrati che sono pubblicati ai nostri giorni nelle migliori case editrici. Migliaia all’anno. Però di romanzi così, io posso farne uno all’ora.
Ecco, non si pubblica che questo, e dove sarà finita la posterità di Rabelais, la vera letteratura? Sparita. La ragione è chiara. Bisognerà capire una volta per tutte ( basta con la pudibonderia)che il francese è una lingua volgare, da sempre, dalla nascita al trattato di Verdun. Solo questo, e non si vuole accettarlo e si continua a disprezzare Rabelais.
Ah, è Rabelesien. si dice a volte. Il che vuol dire; attenzione, non è delicato, quella roba lì, manca di correzione. E il nome di uno dei nostri più grandi scrittori è servito a foggiare un aggettivo diffamatorio. Mostruoso! Perché era forte come tipo, Rabelais, scrittore, medico, giurista…ha avuto delle noie, il poveretto anche da vivo: passava il tempo a trovare il modo di non essere messo sul rogo.
No, la Francia non può più capire Rabelais: è diventata troppo delicata. La qual cosa è terribile se pensi che sarebbe potuto accadere il contrario, ovvero, che la lingua di Rabelais potesse diventare la lingua francese. E invece non ci sono ormai che tirapiedi, che stanno a sentire il padrone e vogliono parlare come lui. Viva l’inglese, il piatto tono.
Con Rabelais, mi direte, si sente un po’ il sistema: si cosa?, sto tipo, è stato braccato dalla persecuzione cattolica, faceva breccia tra i potenti. Si si sentiva il sacchetto di m…, ecco quello che faceva subodorare.
Qui sta l’essenziale di quanto volevo dire. Il resto (immaginazione, potere di creazione, il comico ecc) tutto questo, non me ne frega niente. La lingua, nient’altro che la lingua. Ecco l’importante. Tutto quello che di diverso si possa dire si trascina ovunque. Nei manuali di letteratura e poi leggete l’Encyclopédie. Se volete saperne di più andate a chiederlo a tutti questi grandi scrittori che , loro, hanno delle idee su Rabelais. Ah sapeste quanti ne conosco che si metterebbero la testa fra le mani per dirvi con tono serio: Rabelais, che prodigioso inventore di parole!Sono solo dei chiacchieroni.
Tenetevi piuttosto a quanto vi sia di più interessante in Rabelais: l’intenzione un po’ demagogica di attirare il pubblico parlando come lui, questo lo capisco io, era medico e scrittore, come me. E si vede, la giusta crudezza. Era un buon anatomista, del resto e, cosa prodigiosa per l’epoca, operava già. Da vivo ha perfino inventato un apparecchio chirurgico.
Non doveva credere troppo in Dio, ma non osava dirlo. Del resto, non gli è andata male, non ha avuto supplizi. Il supplizio è venuto dopo, quando si è accademizzata la lingua francese che lui parlava per farne una letteratura da liceali, da licenza elementare.
Come dice Robert Poulet, si è fatto un francese smilzo quando c’era un francese grasso. Peggio: scheletrico. Nemmeno Balzac l’ha resuscitato. E’ la vittoria della ragione.
La ragione! Bisogna essere pazzi! Non si può fare niente così, tutto effeminato. Mi fanno ridere. Guardate cosa li indispone: non si è mai riusciti a fare “ragionevolmente” un bambino. Niente da fare. Ci vuole un momento di delirio per la creazione.
Ma no, in letteratura, bisogna restare puliti. Allora oggi si mettono delle file di puntini sospensivi quando sta per accadere qualcosa e poi continua molto tranquillamente: l’indomani erano tutti e due invitati al ricevimento della duchessa.
Oh! non è che raccomandi l’erotologia, la cosa mi disgusta ma la vera cosa terribile è un linguaggio troppo ben educato. Di buono in Rabelais c’era che metteva la sua pelle sul tavolo. Lui rischiava, La morte gli faceva capolino, il che ispira a morire! E’ perfino la sola cosa che ispiri, lo so, quando lei è là, proprio dietro di te. Quando la morte è furibonda. Non era affatto un bon vivant, Rabelais, si dice ed è falso, Lui lavorava. E come tutti quelli che lavorano, era un forzato del lavoro.Lo avrebbero volentieri accoppato, condannato. Altre ristrettezze, quelle del papa, la cosa è successa, è vero. E allora, gente, bisognava che remassero, che ramassassero come direbbe M.Duhanel.
Perfino Bardamu , il protagonista del Viaggio in fondo alla notte, direbbe così. Ah gli imperfetti del congiuntivo!
Ho avuto nella mia vita lo stesso vizio di Rabelais. Ho trascorso anch’io il mio tempo a mettermi in situazioni disperate. Come lui, non ho niente da aspettarmi dagli altri, come per lui non v’è nulla di cui possa pentirmi.
Rabelais, il a raté son coup
di
Louis Ferdinand Celine
Vous voulez que je vous parle de Rabelais ? d’accord, j’ai fouillé ce matin encore l’Encyclopédie, alors maintenant je sais. Y a tout là-dedans, la Grande Encyclopédie. On fait des carrières formidables avec ça. Justement, j’ai cherché au mot “Rabelais”.
Voyez-vous, avec Rabelais, on parle toujours de ce qu’il faut pas. On dit, on répète partout : “C’est le père des lettres françaises”. Et puis il y a de l’enthousiasme, des éloges, ça va de Victor Hugo à Balzac, à Malherbe. Le père des lettres françaises, ha là là ! c’est pas si simple. En vérité Rabelais, il a raté son coup. Oui, il a raté son coup. Il a pas réussi.
Ce qu’il voulait faire, c’était un langage pour tout le monde, un vrai. Il voulait démocratiser la langue, une vraie bataille. La Sorbonne, il était contre, les docteurs et tout ça. Tout ce qui était reçu et établi, le roi, l’Église, le style. il était contre.
Non. c’est pas lui qui a gagné. C’est Amyot, le traducteur de Plutarque : il a eu, dans les siècles qui suivirent, beaucoup plus de succès que Rabelais. C’est sur lui, sur sa langue, qu’on vit encore aujourd’hui. Rabelais avait voulu faire passer la langue parlée dans la langue écrite : un échec. Tandis qu’Amyot, les gens maintenant veulent toujours et encore de l’Amyot, du style académique. Ça c’est écrire de la m… : du langage figé. Les colonnes d’un grand quotidien du matin, qui se flatte d’avoir des rédacteurs qui écrivent bien, en est plein. Ça donne un cloaque à verbe bien filé, à phrases bien conduites, avec, à la fin de l’article, une petite astuce innocente. Pas dangereuse, pas trop forte, pour ne pas effrayer le public. C’est ça l’échec de Rabelais, c’est ça l’héritage d’Amyot. De la vraie m…., je continue.
Rabelais a vraiment voulu une langue extraordinaire et riche. Mais les autres, tous, ils l’ont émasculée, cette langue, jusqu’à la rendre toute plate. Ainsi aujourd’hui écrire bien, c’est écrire comme Amyot, mais ça, c’est jamais qu’une “langue de traduction”.
Une de nos contemporaines presque célèbre a dit une fois en lisant un livre : “Ah ! que c’est beau à lire, on dirait une traduction ! ” voilà qui donne le ton.
C’est ça la rage moderne du français : faire et lire des traductions, parler comme dans les traductions. Moi, y a des gens qui sont venus me demander si je n’avais pas pris tel ou tel passage de mes livres dans Joyce. Oui, on me l’a demandé ! c’est logique, parce que l’anglais. c’est à la mode. Moi je parle l’anglais parfaitement. comme le français. Aller prendre quelque chose dans Joyce ! Non, comme Rabelais, j’ai tout trouvé dans le français même.
Lanson dit : “Le français n’est pas très artiste”. Pas de poésie en France ; tout est trop cartésien. Il a raison, évidemment, Amyot, voilà un pré-cartésien, et c’est ainsi que tout a été gâché. Mais c’était pas le cas de Rabelais : un artiste.
Rabelais, oui, il a échoué. et Amyot a gagné. La postérité d’Amyot, c’est tous ces petits romans émasculés qui paraissent de nos jours dans les meilleures maisons d’édition. Des milliers par an. Mais, des romans comme ça, moi j’en fais un à l’heure.
Or, on ne publie que cela, où est la postérité de Rabelais, la vraie littérature ? disparue. La raison en est claire. Il faudrait comprendre une fois pour toutes (assez de pudibonderie !) que le français est une langue vulgaire, depuis toujours, depuis sa naissance au traité de Verdun. Seulement ça, on ne veut pas l’accepter et on continue de mépriser Rabelais. “Ah ! c’est rabelaisien ! ” dit-on parfois. Ça veut dire : attention, c’est pas délicat, ce truc-là, ça manque de correction. Et le nom d’un de nos plus grands écrivains a ainsi servi à façonner un adjectif diffamatoire. Monstrueux. Car c’était un type très fort, Rabelais, écrivain, médecin, juriste… Il a eu des embêtements, le pauvre, même de son vivant : il passait son temps à essayer de ne pas être brûlé.
Non, la France peut plus comprendre Rabelais : elle est devenue précieuse. Ce qui est terrible à penser, c’est que ça aurait pu être le contraire, la langue de Rabelais aurait pu devenir la langue française.
Mais il n’y a plus que des larbins, qui sentent le maître et veulent parler comme lui. Vive l’anglais, la retenue plate !
Rabelais, me direz-vous, ça sent bien un peu le système : oui quoi, ce type, il a été traqué par la persécution catholique, il battait en brèche les puissants. Oui, ça sentait le fagot, ce qu’il faisait.
Voilà l’essentiel de ce que je voulais dire. Le reste (imagination, pouvoir de création, comique, etc.) ça ne m’intéresse pas. La langue, rien que la langue. Voilà l’important. Tout ce qu’on peut dire d’autre, ça traîne partout. Dans les manuels de littérature, et puis lisez l’Encyclopédie. Si vous en voulez plus, allez demander à tous ces grands écrivains qui, eux, ont “des idées sur Rabelais”.
Ah ! que j’en connais qui se prendraient la tête entre les mains et vous diraient avec sérieux : “Rabelais, quel prodigieux inventeur de mots ! ” Ce ne sont que des bavards.
La raison ! Faut être fou. On peut rien faire comme ça, tout émasculé. Ils me font rire. Regardez ce qui les contrarie : on n’a jamais réussi à faire “raisonnablement” un enfant. Rien à faire. Il faut un moment de délire pour la création.
Mais non, en littérature, faut rester propre. Alors on met aujourd’hui des lignes de points de suspension quand il se passe quelque chose et puis ça continue bien tranquillement : “le lendemain ils étaient tous deux invités à la réception de la duchesse”. Oh ! je ne recommande pas l’érotologie, ça me dégoûte, mais ce qui est terrible c’est ce langage trop poli.
Ce qu’il y a en effet de bien chez Rabelais, c’est qu’il mettait sa peau sur la table, il risquait. La mort le guettait, et ça inspire la mort ! c’est même la seule chose qui inspire, je le sais, quand elle est là, juste derrière. Quand la mort est en colère.
Il était pas bon vivant, Rabelais, on dit ça, c’est faux. Il travaillait. Et, comme tous ceux qui travaillent, c’était un galérien. On aurait bien voulu l’avoir, le condamner. Autres galères, celles du pape, ça a existé, c’est vrai. Et là, les gars, il fallait qu’ils rament, qu’ils ramassent, comme dirait M. Duhamel.
Bardamu aussi, mon héros dans le Voyage, il dirait ça. Ah ! les imparfaits du subjonctif… J’ai eu dans ma vie le même vice que Rabelais. J’ai passé moi aussi mon temps à me mettre dans des situations désespérées. Comme lui, je n’ai rien à attendre des autres, comme lui, je ne regrette rien.
I commenti a questo post sono chiusi
che meraviglia! effeffe, la tua ‘recherche du céline perdu’ valeva proprio la pena. da leggere parola per parola, con grande attenzione anche alle virgole, in molti passaggi la parte più succosa del testo.
e poi quella ‘cloaca a verbi ben condotti’: grande! geniale! l’insegna più appropriata per indicare il novanta per cento di quello che si pubblica in italia: dai giornali, alle riviste, ai libri, al web…
Forlani, Ferrero ti fa un baffo!
(L’ho sparata grossa, mi sa…)
Mi ricorda tanto “I viaggi di Gulliver”….
ciao effeffe!
:-)
CAPITOLO SESTO
Come Pantagruele incontrò un Limosino che contraffaceva la lingua francese
Un giorno, non so quando, Pantagruele passeggiava fuori porta sulla via di Parigi con la solita compagnia, e s’imbattè in uno studentino tutto lindo e agghindato che veniva per la stessa strada.
“Donde vieni a quest’ora, amico mio?” gli chiese, dopo che si furono salutati.
Lo studentello s’impettorì come un tacchino e rispose:
“Vengo dalla frugifera, inclita, preclara accademia vocata Lutezia”
Frastornato, Pantagruele si volse a uno dei suoi.
“Cosa dice?”
“Dice che viene da Parigi”.
“Così tu vieni da Parigi” disse Pantagruele. “E come ve la passate voialtri studenti, laggiù a Parigi?”
“Ah, noi transfertiamo la Sequana al diluculo e al crepusculo; noi deambuliamo per trivia et quadrivia dell’urbe; noi dischiumeggiamo la verbocinazione laziale e, da verisimili amorabundi, captiamo la benevoglienza dell’omnigiudice, omniforme et omnigeno sesso femminino. Certi dieculi noi inspiciamo nei lupanari e in estasi venerica inculchiamo il nostro vervinello su per i penitissimi recessi delle pudende di quelle amicabilissime meretricule. Deinde, nelle commendabili taberne della Pigna, del Castello, della Maddalena, della Mula, cauponizziamo spatule vervecine pulcherrime, perforaminate di petrosillo; et si quando per accidens siavi penuria o lacuna di pecunia e siano le marsupie nostre fatte vidue et diserte di ferruginati metalli, noi, summa cum dignitate, dimittiamo le nostre quammodo oppignorate vestimenta et pandette, interdum instando i tabellari dei penati e patriottici lari ut faciant prestus. Tuctus qui”.
“Che razza di linguaggio è mai questo?” esclamò Pantagruele. “Perdio, non sarai per caso un eretico?”
‘Ci vuole un momento di delirio per la creazione.’
e questo non vale solo per l’arte!
e aggiungo, soprattutto nel campo della lingua,
che chi non osa resta fermo,
ma più che fermo, muto.
Quello che William Hazlitt chiamava “fervore”, forza o passione capaci di definire qualsiasi oggetto, e che trovava sopratutto in Shakespeare, era da lui assegnato a Boccaccio e a Rabelais più che a tutti gli altri scrittori in prosa; e Hazlitt ci esortava a renderci conto che le arti non sono progressive – una constatazione alla quale tarde età, come la nostra, tentano di opporsi
La stessa cosa per la lingua italiana: che cosa sarebbe successo se, anziché la via di Petrarca, avesse imboccato quella di Boccaccio? E pure il latino: perché Virgilio e non Petronio? E’ una cosa fisiologica?
sì… sì… ma non si diceva una volta che vincevano sempre le classi dominanti? perchè stupirsi?
pr
Direi di no, ma non sempre! Sapere è legato con Potere (dominio, invidia). La fisiologia è legata alla patologia. Zolla ha raccontato di aver appreso di quali infami giochi politici fu accompagnata l’edizione della prima opera di Mircea Eliade nella collana viola di Einaudi. Chi arzigolava contro lui era De Martino, che lo andava a visitare a Parigi e si professava suo ammiratore, perfino pubblicando dialoghi con lui su la Tour Saint-Jacques!
Poteva star sicuro, De Martino, che la gente che lavorava all’Einaudi non avrebbe certo mai letto La Tour Saint-Jacques.
Poi per fortuna gli è andata bene, Eliade era un enciclopedia vivente…una Memoria Vivente prodigiosa…
Ma la lingua di Zolla non è lontanamente comparabile alla lingua viva e antiaccademica di Rabelais e di Céline.
Non confondiamo i fanti con i santi.
ehi: “non si è mai riusciti a fare “ragionevolmente” un bambino.”
e i figli in provetta? E il parto cesareo??
Per il resto niente da dire: tutto purtroppo a posto e ineccepibile….
Mi viene in mente “Sostiene Pereira” o “Mania” anche se sono un po’ vecchi, ma rendono l’idea, almeno a me: uf che stai a ricerca’ con sto linguaggio da linciaggio… Magari a qualcuno piace, bho. (adesso qualcuno mi sbrana, lo sento, be’, sono abbastanza cicciotta).
Grazie ff per la traduscion tres tres ben traduitt, anzi: grazieff !!!
fem
Bel blog!
“Bene, ho rovistato stamattina ancora tra le pagine dell’Encyclopédie, e adesso so. Tutto è laddentro, nella Grande Encyclopédie. Si possono fare carriere formidabili con quella.”
Ineguagliabile.
Grazie Forlani.
Complimenti, Francesco, per la bella scelta.
quanti errori ortografici!
La scrittura di Zolla è tutt’altro che fantesca e non è accademica la sua lingua (nessuno in accademia scrive come lui, magari…!). La sua è una lingua plastica e asciutta insieme che coincide con l’eloquio del cuore, vivissima perchè capace di far sentire(infatti si è imposta in tutto il mondo, se questo fosse necessario per capirlo ma non lo è). In ogni caso la comparazione con rabelais è insensata, cioè non ponibile proprio come problema. Non è una gara. Rabelais rimane un grande, come Shakespeare, a sua volta diverso e incomparabile. Come Dante. Possono piacere tutti senza misurarli. Anzi, dovrebbero; come ci si dovrebbe inchinare alla Murasaki, o tra i più vicini a noi a Gao Xingjian, Saramago, Peter Handke, Ishiguro, Naipaul, la Murdoch, la Spark.
Non ho detto che la lingua di Zolla è accademica, ma certamente ha indosso il doppiopetto del sapere, e qua si parla di lingua, e di lingua di scrittori, l’unica che dovrebbe contare, perché è l’unica viva.
L’ho letto tutto, Zolla, non due paginette, so quel che dico.
E per caso l’altro giorno stavo proprio leggendo Rabelais.
ottimo lavoro, grazie per averlo postato! trovare un testo di Céline è sempre una gioia, specialmente se accade quando meno me l’aspetto! interessanti le considerazioni sullo svilimento della lingua prodotto dalla traduzione, mi chiedo quanto sia stata appiattita la sua… o se il lavoro dei vari Celati, Guglielmi, Caproni gli renda onore.
La lingua di Zolla io ( e molti affezionati suoi lettori) la trovo viva (e il suo pensiero è più vivo che mai anche se minoranza trasversale) . Può essere viva con il doppio petto e anche in canottiera. Limitarsi a un abito non lo capisco, quando leggo Vonnegut o Stanislav Lem trovo altrettanto lingua e sapere, lo stesso in Rabelais. E poi la lingua non la si può separare dal contesto del discorso che si fa. Il discorso di zolla non potrebbe essere reso meglio che con quella lingua che lui ha usato; lo stesso Rabelais. Ecco perchè questi confronti sono privi di senso. Poi, anche questa separazione della lingua dal resto è idea tipicamente post-moderna e ne fa la “sua” lettura di rabelais, limitandolo tra l’altro, quando invece è molto di più! Cmq non avevo indicato Zolla per confronto, figurati, su Nazione Indiana! che seguo a periodi perchè non mi piace essere autoreferenziale rispetto ai suoi frequentatori, ma per portare una testimonianza relativa a una domanda che era stata posto sull’influenzamento, diciamo così.
Alcor, scusami questa battuta ironica che sto per fare (che non è tanto diretta a te ma ad altri, ti sto usando anche se non a sproposito). Ma ultimamente sembra che alcuni dei frequentatori di N.I. si dimentichi di quello che scrive e poi dice il contrario (o tace). Dici: “non ho detto che la lingua di Zolla è accademica”, mentre prima avevi detto: “Ma la lingua di Zolla non è lontanamente comparabile alla lingua viva e antiaccademica di celine e rabelais”.
Ok che non hai detto che la lingua di Zolla è accademica, nel senso però che questa frase non l’hai scritto, ma da quello che avevi scritti non ci sono altri sensi da ricavarne, perché mi esplici che Rabelais e Celine hanno una lingua antiaccademica, a Zolla non rimane che l’accademia fino a quando non mi precisi il contrario di antiaccademica. Chiunque avrebbe ricavato questo senso o no?
Cànd on pàrl de làng, ge suì tugiùr isì.
@luminamenti
però credo che Celine intenda per lingua accademica qualcosa di peggio. Qualcosa che a cinquant’anni di distanza – l’articolo è scritto nel 57- appare sotto gli occhi di tutti ovvero la “normalizzazione” e appiattimento del linguaggio.
effeffe
@ lumina, figurati, non me la prendo, sembra una contraddizione, ma non lo è, sono solo andata di fretta.
intendevo che la lingua di Zolla, che non considero accademica, ma sapienziale, [il che a volte stucca, perchè si irrigidisce in uno stile che non permette invenzione, ma solo riferimenti] non ha niente a che vedere con la lingua viva dello scrittore.
E poi, separatamente, ma come mi hai fatto notare sembrava in stretto rapporto, che la lingua di Céline e Rabelais è programmaticamente antiaccademica.
Non in rapporto a Zolla, che non era nell’ orizzonte dei due citati, ma nel senso più ovvio. Per questo avevo citato quel pezzetto su Pantagruel e lo studente parigino.
Ben diversa, rispetto a Zolla, la lingua della Campo, quella sì viva, anche se certamente agli antipodi di Céline.
“Quel che [Rabelais] voleva fare era un linguaggio per la gente, uno vero. Voleva democratizzare la lingua”
“Rabelais aveva voluto far passare la lingua parlata nella lingua scritta. uno scacco totale. Mentre invece Amyot, la gente vuole ancora e sempre dell’Amyot, dello stile accademico”
“Ecco, non si pubblica che questo, e dove sarà finita la posterità di Rabelais, la vera letteratura? Sparita”
dunque, per quel satanasso di Celine, Rabelais riconosce come vera lingua il linguaggio volgare. lo assume in toto e ci lavora per una vita. si ritaglia la sua fetta di pubblico, che non coincide con la totalità dei fruitori di letteratura, né alla sua epoca e tantomeno in seguito. anzi, è da ritenersi uno scrittore di nicchia, perché come la prassi ha ampiamente dimostrato, il gusto mainstream è ben altro, accademico, scolastico, normato, e ovviamente non è vera letteratura.
ancora una volta, quando leggo Celine che dice: la lingua la lingua la lingua! io traduco: lo stile lo stile lo stile!
altro che calci nel culo alla posterità. è tutto un discorso che affonda nella stessa palude da cui rifuggiva inorridito.
la lingua viva è la lingua utilizzata dalla comunità. è uno stato solido solo all’apparenza. l’arbitrarietà regna sovrana in campo linguistico, nonostante tutte le coloriture morali con cui si abbelliscono le parole. il fatto che predomini uno stile in vece di un altro, in ambito di gusto, non intacca la lingua più di quanto possano fare errori, incomprensioni, criteri economicisti e disfunzioni cerebrali.
il problema, quasi sempre, è che quando si parla di lingua, in verità si sta parlando di gusto.
la lingua è la lingua
in ogni campo.
Vera l’identificazione, in Celine dello stile con la lingua.
Del resto scriveva di sé:
“je ne suis pas un homme à idées. Je suis un homme à style”
effeffe
sarei d’accordo con te su tutto alcor, a parte il fatto che io trovo la lingua di zolla oltre che sapienzale, anche viva e secondo me non stucca. Cmq non portano a nulla le discussioni sull’indimostrabile. Non siamo nel campo della logica (che già vacilla da tempo), ma in quello del suono, dell’immagine, quindi dell’imponderabile, dell’arcaico così come ci risuona.
potrei scrivere all’infinito sulla poeticità della lingua di Zolla, ma già sarebbe critica letteraria, cioè storia del potere letterario.
Infatti, più sotto kristian già si esprime politicamente: “la lingua viva è la lingua utilizzata dalla comunità”. Si tratta di un apriori, perchè nella comunità ci sono tanti individui, per fortuna non omologabili e possibilmente tutti vivi!
Rimane il fatto che amo molto Rabelais, ma per ragioni non politiche, ma fonetiche. Amo la tarantella e anche Bach.
Cmq a me Rabelais piace per quello che ha fatto e non per quello che voleva fare. Se voleva democratizzare la lingua è bene che non ci sia riuscito! ma la conosceva la parola democrazia? se l’avesse conosciuta si sarebbe inorridito! In quanto al suo linguaggio, la sua esuberanza linguistica contiene linguaggi tecnici della medicina, dell’agricoltura, del commercio, della letteratura, della religione, delle lingue classiche, i dialetti, nonchè invenzioni e deformazioni originali, il tutto andando dalla disquisizione filosofica fino alla facezia scurrile, con onnivora disponibilità ad assimilare il vasto retaggio della tradizione. Molto sapienzale dunque, anche lui!
*potrei scrivere all’infinito sulla poeticità della lingua di Zolla*…
No, grazie (già scrisse abbastanza Zolla)
dimenticavo: oltre una critica della società del suo tempo, prese una posizione ideologica molto netta a favore del ritorno alla pura dottrina evangelica.
Decido da solo carlo, prego
o, più che scrivere, leggere – su noi e Rabelais ad es.
http://www.arts.ed.ac.uk/italian/gadda/Pages/ resources/archive/classics/arbasinogeniuslocii.html
@ lumina
sul fatto che entriamo in un campo estremamente soggettivo, son d’accordo.
Sul fatto che la lingua viva sia quella parlata dalla comunità, bah, quale comunità? C’è anche la comunità dell’attimino, che funziona solo se l’attimino viene usato come cifra critica da qualcuno che poi quella lingua devastata dalla comunità la sappia mettere in tensione critica e creativa, come fa Rabelais quando si serve della lingua dello scolaro.
E per quanto riguarda Rabelais non direi mai sapienziale, ma sapiente.
Io sono contento di aver letto questo magnifico pezzo di Celine e pure su Rabelais che amo alla follia, poi,
per di più, là sopra si aggiunge una vignetta favolosa di Dubout che fin da piccolo guardavo con le palle degli occhi fuori della testa,
per la meraviglia. Davvero adatto a Rabelais.
eh, Dubout…bravissimo
MarioB.
Complimenti in ritardo, effeffe.
Per me, il migliore brano di Rabelais è “les paroles gelées” (Le quart livre) perché dà la chiave di compresione dell’opera.
Dalla mia modesta esperienza di maestra in scuola media, posso dire che gli alunni si rallegrano di scoprire la potenza inventiva del linguaggio.
E’ una lingua piazzata sotto il segno del piacere e del giubilo.
Il carnavale nella tradizione medievale mette disordine nella società, rovescia i ruoli; il linguaggio di Rabelais fa accadere l’oralità, il profano.
PS: i commenti su NI sono una delizia.
Ben detto véronique
(un thread come si deve, mi beo)
grazie verò e se proprio dovessi proporre una lettura veramente rabelesiana di rabelais proporrei senza alcuna ombra di dubbio quella di Bachtin. C’è una tradizione che grossomodo parte da Boccaccio, passa per Rabelais e Cervantes per arrivare ai contemporanei Kundera e Arrabal, che da sola varrebbe mille avanguardie…
effeffe
ps
grazie a Mario di aver colto la scelta da me fatta del disegno di Albert Dubout. Sono stato a casa del figlio a Parigi qualche anno fa per ottenere il diritto (dato AGRATIS) di pubblicare su Sud due tavole del maestro. Maestro assolutamente amato da tutta la scuola del fumetto francese – quella di Harakiri e Charlie Hebdo, per intenderci- per non parlare di artisti come Ernest Pignon Ernest assolutamente “segnato” dalla genialità di Dubout. Ho potuto vedermi tutto il suo Rabelais, il don Quichote, i quadri sulle corride, l illustrazioni a E.A. Poe e vi assicuro che è stata un’esperienza veramente straordinaria.
“Sul fatto che la lingua viva sia quella parlata dalla comunità, bah, quale comunità? C’è anche la comunità dell’attimino”
cara stella, nella lingua “attimino” ha la stessa dignità di qualsiasi altra parola. una comunità non devasta la lingua, semplicemente opera in essa. e ogni scelta è sempre arbitraria.
però Kristian
la questione della comunità è una questione aperta. Sto traducendo, enfin, un libretto straordinario di Christopher Lash, Cultura di massa o cultura popolare? in cui tra l’altro si dice:
“Si intende far emergere la discussione sulla cultura di massa dalle carreggiate in cui si è impantanata dagli anni quaranta e cinquanta, quando Dwight Mac Donald, Irwing Howe, T.W.Adorno, Max Horkheimer, Léo Lowenthal, ed altri cominciarono ad avanzare l’ipotesi che le masse avevano abbandonato le loro antiche abitudini di sottomissione per diventare le vittime consenzienti della pubblicità e della propaganda moderna”
e ancora
“La confusione tra democrazia e libera circolazione dei beni di consumo è diventata così profonda che le critiche formulate contro questa industrializzazione della cultura sono ormai automaticamente respinte come critiche alla democrazia stessa; mentre sull’altro fronte la cultura di massa viene difesa in nome dell’idea secondo cui si permette a tutti di accedere a un ventaglio di scelte riservate un tempo che ai ricchi.
In realtà il marketing di massa – nella vita culturale come in altri campi- riduce lo stesso ventaglio di possibilità riservate ai consumatori. Diventa sempre più difficile fare la distintizione tra diversi prodotti che pretendono di essere concorrenti. ”
Fatta questa premessa, perchè identificare per esempio la pizzica presentata in ogni festival del nord italia come cultura popolare con quanto accade ad Otranto durante la festa di San Rocco? La banalizzazione, folklorizzazione della cultura popolare, ad opera del nuovo marketing culturale, che taglia ogni radice e tradizione, come potrebbe far”esprimere” una lingua a una comunità se quello che vuole, dopo la distruzione sistematica di ogni comunità possibile, è semplicemente una massa amorfa e acefala di consumatori?
La comunità, la parola comunità deve secondo me essere compresa a partire dal suo significato profondo, altrimenti una cosa vale l’altra che è come dire nulla vale veramente.
Pol Pot o Mel Pot?
effeffe
beh Francesco, se per comunità si intende la comunità dei parlanti (una medesima lingua) e se per lingua si assume la definizione di lingua-schema che da Saussure via Hjelmslev arriva a Chomsky, io non ci trovo nulla di rassimilabile a quanto hai appena sostenuto. semplicemente parliamo di questioni diverse.
bravo furlen, finalmente lo stile, lo stile, lo stile. basta con le storie, le storie, le storie. vanno bene per i giornali, per la tv commerciale. lo stile, lo stile, lo stile: che sia quello “grasso” di rabelais, quello “scheletrico” dell’ultimo beckett, il “falsomagro” della duras o di bove, non importa, basta che si senta. ohhh!
Dio ci salvi dai linguisti, il cui compito è classificare.
E ci dia dei poeti, il cui compito è far vivere la lingua.
(Mi scuso con i linguisti, che naturalmente hanno tutta la mia stima, ma in un altro campo da quello di cui si parla qui)
esatto alcor, qui di lingua per come la intendo io non si parla. difatti le affermazioni “linguistiche” di Celine sono perlomono avventate, perché si risolvono tutte in una pura questione di gusto.
il GUSTO…
hai detto niente!
vuoi mettere?
Mi trovo d’accordo con i due ultimi post di effeffe.
Inoltre, è difficile determinare il discrimine tra la moderna Sprachphilosophie (Tarski, Wittgenstein, Frege, Quine, Kripke), tra le indagini logico formali sulla possibilità e la natura della lingua da una parte, e la linguistica moderna nel senso più stretto della parola, dall’ altra. Il logico e il linguista, l’epistemologo e il grammatico, lavorano in stretta comunicazione, almeno sin dai tempi di Saussure. Ma la linguistica stessa è una presenza fondamentale della rivoluzione mentale e nella decostruzione dell’ordine Logo-centrico. In questo c’è un paradosso su cui riflettere. Assieme alla filosofia linguistica, la linguistica moderna, in altre parole lo studio sistematico, spesso altamente formalizzato dei codici lessicali, sintattici e semantici, ha collocato la lingua al centro stesso della epistemologia, dell’antropologia sociale, della psicologia cognitiva e della poetica. Mai prima d’ora nella storia intellettuale, l’indagine sistematica sulla lingua aveva arruolato una tale gamma e una tale pressione di intelligenza. Eppure, la linguistica moderna è una della forze che hanno contribuito alla sovversione e allo sparpagliamento del Logos.
Infatti, i modelli linguistici e le tecniche di applicazione di questi modelli, che hanno dominato la lingua dopo Saussure, sono diametralmente opposti alla filologia, sia nel senso comune della parola che in quello proclamato dalla sua etimologia. E’ quest’ultimo senso, nato dalle interazioni tra “amore e “parola”, che a me interessa difendere e di definire. Le scienze moderne del linguaggio, con il loro radicale riorientamento da una semantica referenziale a una semantica delle relazioni interne, vorrebbero cancellare le ultime tracce dell’eresia dibattuta nel Cratilo. L’allontanamento da una sematica della corrispondenza e della referenza al mondo esterno è stato decisivo. Ne risente tutta la letteratura, ormai. Lo studio analitico e strutturale della lingua dopo la Parola è marcato dall’abs-tractio. La lingua è stata rimossa, asportata dalla trama anarchica dell’esperienza empirica e dall’intuizione non disciplinata (con discrezione, Quine, giudica tale intuizione “innocente”).
Separati dalle loro rivendicazioni trascendenti e mito-poietiche, gli atti linguistici dell’uomo si identificano ormai con le unità di un algoritmo convenzionale. E, punto cruciale, questo algoritmo è solo uno dei tanti che appaiono nello sprettogramma semiotico. Tra questi, la matematica, la logica simbolica e i codici analogici o digitali del computer compiono alcune mansioni con maggiore chiarezza, economia, e forse con maggiore creatività, della lingua (i bambini, i ragazzini e gli adolescenti ne sanno già molto più di qualcosa). Così – qui torno al paradosso – dopo Saussure, la linguistica ha collocato simultaneamente la lingua al centro della fenomenologia uman, e ha ridotto questo centro a una “formalità”.
Le regole di cancellazione non suscitano amore!
In Rabelais non c’è solo la lingua, lo stile. In Rabelais, c’è Rabelais!
‘Le regole di cancellazione non suscitano amore! ‘
questa però me la spieghi!
mi bastano poche parole, credimi!
sono aperta ad ogni lume….
beh, in Rabelais c’è anche Villon, tanto per parlar di poesia.
e poi, Lumina, lo scarto saussuriano è proprio quella visione all’epoca quantomai eretica di una forma “universale” e sistemica della lingua. io di amore nelle lezioni di Saussure ne ho raccolto a piene mani, ed è amore di opposizioni più che di cancellazioni. come non riconoscere una forma all’amore! uff, mi fai diventar romantico.
Le regole di cancellazione sono quelle che i linguisti post-saussuriani definiscono come messa in dubbio del concetto e della possbilità stessa che si realizzino le operazioni di referenza, nominazione, predicato, subordinazione reciproca, sia logica che grammaticale.
Regole poi di cancellazione per eccellenza della modernità è la funzione autoriale (auctoritas).
Rimbaud per esempio decostruisce la prima persona del singolare di tutti i verbi; sovverte la familiarità tradizionale dell’io. Si tratta di una provocazione anti-teologica, deliberata e necessaria. Come avviene ineluttabilmente con Rimbaud, il bersaglio è Dio. Ma questo attacco non corrisponde a una ubbia personale o a una retorica casuale.
Nel contesto della consapevolezza occidentale, ogni decostruzione coerente di ciò che costituisce l’individualità del locutore umano ovvero della persona è una negazione della possibilità teologica e del concetto di Logos che fonda questa possibilità. Je est un autre è una negazione assoluta della tautologia suprema, dell’atto grammaticale di auto-definizione grammaticale presente nell’Io sono colui che è Dio.
La decomposizione di Rimbaud non introduce nel vaso infranto dell’io soltanto l’altro, l’anti-persona del dualismo gnostico e manicheo, ma una pluraluità senza limiti.
Quando Mallarmé ripudia il codice del referente e insiste sul fatto che la non-referenzialità costituisce il vero genio, la vera purezza della lingua, questo implica il presupposto di un’assenza o cancellazione.
La conseguenza è, in senso filosofico-semantico rigoroso (mentre la possibilità sia del filosofico che del semantico viene messa in dubbio) un nichilismo ontologico (come quello che Heidegger esplorerà nella sua esposizione della “nullità” o Nichtigkeit).
Tra i cinque sensi arbitrari di cui è fatto – e qui la parola “fatto” ha tutta la sua connotazione di finzione – l’oggetto verbale e grafico “fiore”, tra le regole sintattiche del gioco linguistico particolare nel quale questo oggetto ha la sua legittimità relazionale (è legato ad altri segnali verbali e grafici), e il fiore putativo si apre ormai una voragine che è, in senso stretto, infinita. La verità della parola diventa l’assenza del mondo.
Non basta dirsi come fa Kristian, che c’è amore, non basta inventarsi la narrativa realista alla Mozzi per cancellare la presenza di questa assenza o cancellazione nella lingua, sebbene queste sono forme di una ribellione alla scoperta di una assenza; perchè queste dichiarazioni sono petizioni soggettive rispetto a una penetrazione della lingua al posto del mondo.
E’ il mondo che viene cancellato e sostituito con un significante.
Potremmo anche dirlo in termini politici, guardando alla diminuizione delle cattedre di filologia rispetto a quelle di linguistica che proliferano in maniera tumorale.
p.s e non ti seccare se non ho scritto due righe, che per me equivale almeno a 20. Ma se sono riuscito a spiegarmi, allora capirai anche le ragioni di questo rito.
weilà Lu, grazie!
dammi tempo per assimilare!
Bueno
saludos
Lumina menti
m’illumini di mmensi
cosa aggiungere a quanto hai detto
commento da stampare
incorniciare e mettere davanti al letto(e lo scritto)
come una preghiera laica
effeffe
Lumi scusa non facevi prima a parlare di formalismo e nominalismo come costrutti irreali e astratti?
cmq ottima esposizione quasi da logico.
@Luminamenti:
Magnifica lettura di Rimbaud. Sono ammirativa.
io di solito sono incazzativo nero.
@Lumina,
volevo dirti che
sei stato chiaro, anche se ho dovuro leggere e rileggere, per capire…
ne ho tratto questo:
‘La verità della parola diventa l’assenza del mondo,
vi subentra un significante’
e io cosa avevo detto?
però voi riuscite a essere lucidi con questo clima vacanziero e di festività?
io preferisco essere mondana, nel senso di “mondana”
Sì, in quest’ultimo commento sei stato molto chiaro, Lumina, e questo è un pregio.
Del resto le cose che hai detto sopra per me sono chiare.
Mi chiedo però (questo è un OT) a chi ti rivolgi.
Se ti rivolgi solo a quelli che sanno o hanno pratica delle stesse cose che dici, come è capitato a me nel caso del tuo ultimo commento, NI non è la sede giusta, per ragioni banalmente statistiche.
Se però vuoi allargare il numero dei tuoi interlocutori, come credo tu voglia fare in quanto locutore umano, dovresti lavorare nel senso della chiarezza, e perciò anche della lingua, che a volte pecca di aridità specialistica e di sottintesi, ed è un peccato.
Cara Alcor, io non mi pongo nessun obiettivo (personale). Scrivo come scrivo, parlo come parlo, vivo come vivo. E dato che mi parli di peccato, Pecco come pecco. Ma se proprio poi, ipoteticamente e per assurdo mi dovessi porre un obiettivo, mi basterebbe, sarei abbastanza soddisfato e felice se ci fosse un solo essere umano che capisse quanto scrivo. Ciò non sarebbe per me né un merito né demerito, ma un caso. In quanto ad interlocutori ne ho anche troppi e a me piace fondamentalmente stare (mentalmente e fisicamente) molto solo (ci sto così bene), per cui faccio fatica a sopportare l’interlocuzione, le telefonate, gli incontri, le email (c’è solo una persona al mondo che dopo 10′ di contatto vis a vis non mi annoia)
Ho altre idee comq sulla funzione di sforzo cognitivo della corteccia prefrontale e sul fatto che ci sia e stia lì; ma non disprezzo le pedagogie, gli educatori, i comunicatori, i divulgatori (che lavorano su altre parti del cranio). Ma non posso esserlo (a parte quando insegno medicina cinese, ayurvedica, fitoterapia, biochimica, fisiologia muscolare, biologia molecolare che per ragioni inesplicabili, mi dicono, dette da me, diventano semplici semplici). E sono vecchio per cambiare alcunché qualunque direzione si tratta. Sono un persona soddisfatta e serena.
@lumina
“c’è solo una persona al mondo che dopo 10′ di contatto vis a vis non mi annoia”.
ma questa persona li regge dieci minuti con te?
Sei di buon umore Tash, mi fa piacere.
ecco cos’era il divario cognitivo- emotivo.
Molti mi rimproverano di perdere tempo nella vita normale con persone che non sono alla mia altezza, e che ‘non si regala l’intelligenza e la compagnia’(fossati). Questo delineerebbe un’umanita’ ghettizzata secondo capacita’ e abilita’ cognitive, e impedirebbe lo scambio esperienziale tanto importante per l’evoluzione e per le modificazioni degli schemi comportamentali, delle dinamiche emotionali, in una parola impedirebbe la conoscenza attraverso i sentimenti.
IL sapiente non ha piu’ dignita ontologica del discente, cosi’ come non ce l’ha il saccente rispetto all’ignorante.
Sarebbe curioso che la mia vita fosse piu’ preziosa di quella di un aborigeno australiano, di un contadino umbro, di un bandito sardo, di un ottuso capo di governo americano(…) solo perche’ io so piu’ cose.
La consapevolezza della conoscenza che e’ necessarimente un percorso frustrante perche’ mai esaustivo, paga se stessa, e serve solo a chi l-agisce per illudersi di godere di diversi gradi di autocosicenza.
Poi si puo’ morire tranquilli, in pace con se stessi, coerentemente con il percorso dannato che l’inquietudine impone.
modi di dire come: ‘essere all’altezza’, ‘essere allo stesso livello” sono piuttosto ridicoli.
Se la conoscenza conduce a complessi di superiorita’, estraniazione, isolamento, incapacita’ comunicativa a 360 gradi, sofferenza nell’empatia, semplicemente impedisce la vita, cosi’ come la parola (autoreferenziale)e’ la morte del mondo.
Non mi sembra che le nostre strutture psicofisiche siano state predisposte a questo.
Per me Chavez ha fatto bene a chiudere nel cassonetto la TV spazzatura
effeffe
hasta la victoria siempre, effeffe.
el pueblo unido, ecc.
credo che chavez resterà ancora poco.
in vita.
Cara Magda, la conoscenza attraverso i sentimenti è l’unica che a mio parere valga, l’unica che coltivo con interesse superiore.
Invece, la volontà di sapere, questa volontà sfrenata, lubrica, non porta al fine: fermarsi in questa corsa scomposta, approdare a un saputo.
L’attacamento al sapere, e ai suoi frutti deve dunque approdare non allo scialbo lenitivo che la filosofia universitaria si trascina comodamente nelle sue stesse viscere. Chi ha capito questo non è fuori dal sapere, ma l’ha veramente raggiunto, e perciò non ha più nulla da volere. Mentre la brama di sapere, l’inseguimento di un sapere dopo l’altro non è mosso dal retto desidero, di sapere una volta per tutte, finalmente appagato avendo raggiunto la vera quiete conoscitiva. Perchè qui, infine, è il punto. E’ qui che deve pervenire il sapere. A questo acquietamento dal profondo, che è poi ciò che chiamiamo, con molto più baccano, verità.
Ecco appunto in questo condivido la scelta non accademica di Renato Curcio, per esempio, ancor più che gli epiloghi suoi o del suo diretto collega Alberoni, hanno tracciato distanze esistenziali abissali, molto eloquenti, quasi fossero portate entrambe agli estremi paradossali: l’inutilità e la stupidità del professore del mulino bianco e l’eversione inutilmente eroica del capro espiatorio.
Per questo io ritenevo inutile possedere una laurea, contrariamente a chi invece nei risultati ufficiali ritrova motivo di riconoscimento, ed è ridicolo che ora io sia più rispettata.
Personalmente ho sperimentato che l’intelligenza, se di questo possiamo parlare, risulta molto più vivace lontana dall’accademismo, come direbbe anche Catalano.
però vorrei fare un esperimento relazionale, ossia domande aperte su tutto ad una persona che può sostenere qualsiasi tipo di argomento senza preavviso o preparazione.
Quello che i filosofi medioevali chiamavano quodlibet.
Luminamenti mi sembreresti indicato, ma non so se hai anche il dono dell’improvvisazione e della teatralità.
Questo che proponi ormai lo si fa solo in certe conventicole ispirate a una struttura maieutica, nei kibbutz (קיבוץ), in certe pochissime scuole di antropologia e in luoghi sperduti nel mondo quasi divenuti inaccessibili. La nostra cultura invece è ormai morta! prendi invece cosa può essere una esperienza tra gli Akaramas o i Jivaro o tra i buriati, appartenenti al ceppo mongolo.
@ Lumina
Beh, mi fa piacere (che tu sia una persona serena e soddisfatta).
Ci puoi dare qualche sito, o blog o almeno e-mail di Akaramas o di Jivaro o di buriati doc (= appartenenti al ceppo mongolo)? E in ogni caso: nei kibbutz come dicono quodlibet?
Thak you, mad am!
Se vuoi, puoi venire con me insieme ad altri, nei viaggi che organizzo.
Se t’interessa lasciami email.
Rabelais il a raté son coup (tradurlo con “Rabelais ha fallito” è di raro piattume) è un testo ipernoto, pubblicato per la prima volta nel ’59 come introduzione ad una riedizione di Rabelais presso “Le meilleur livre du mois” che era un club per lettori un po’ tipo quello di Mondadori. E’ stato poi costantemente ripubblicato (vedi Jean-Pierre Dauphin et Pascal Fouché, Bibliographie des écrits de L.-F. Céline, BLFC, Paris, 1985), anche perché Céline vi ripete cose arcinote, un po’ da sussidiario delle medie, però lo fa a suo modo, bello e divertente, ma totalmente stroncato dalla presente traduzione (“perché” con l’accento acuto, “un po’” con l’apostrofo, tanto per rimanere al livello delle medie, anzi, delle elementari).
Emma!!!
Sei quella emma? Del tempo in cui commentavamo (cioè, io, magari tu hai continuato) i testi poetici? Se sei tu un saluto molto affettuoso.
@Lumina
anch’io sono interessata
lalucedialcor@katamail.com
Però no, forse non sei tu, quella Emma non era una cacciatrice di refusi, anche a me capita di scrivere perchè, l’accento grave è quello che sulla tastiera mi si presenta prima, per l’acuto devo premere il tasto della maiuscola, e a volte corro, non dsono mica una dattilografa.
L’altro giorno ho scritto qual’è. Ora, l’ho scritto, questo è un fatto, e visto che era un commento non ho potuto correggerlo, la cosa non fa però di me un’analfabeta, solo una che che ha le dita più rapide della mente.
ti seguo…
Vous voulez que je vous parle de Rabelais ? d’accord, j’ai fouillé ce matin encore l’Encyclopédie, alors maintenant je sais. Y a tout là-dedans, la Grande Encyclopédie. On fait des carrières formidables avec ça. Justement, j’ai cherché au mot “Rabelais”.
Voyez-vous, avec Rabelais, on parle toujours de ce qu’il faut pas. On dit, on répète partout : “C’est le père des lettres françaises”. Et puis il y a de l’enthousiasme, des éloges, ça va de Victor Hugo à Balzac, à Malherbe. Le père des lettres françaises, ha là là ! c’est pas si simple. En vérité Rabelais, il a raté son coup. Oui, il a raté son coup. Il a pas réussi.
Ce qu’il voulait faire, c’était un langage pour tout le monde, un vrai. Il voulait démocratiser la langue, une vraie bataille. La Sorbonne, il était contre, les docteurs et tout ça. Tout ce qui était reçu et établi, le roi, l’Église, le style. il était contre.
Non. c’est pas lui qui a gagné. C’est Amyot, le traducteur de Plutarque : il a eu, dans les siècles qui suivirent, beaucoup plus de succès que Rabelais. C’est sur lui, sur sa langue, qu’on vit encore aujourd’hui. Rabelais avait voulu faire passer la langue parlée dans la langue écrite : un échec. Tandis qu’Amyot, les gens maintenant veulent toujours et encore de l’Amyot, du style académique. Ça c’est écrire de la m… : du langage figé. Les colonnes d’un grand quotidien du matin, qui se flatte d’avoir des rédacteurs qui écrivent bien, en est plein. Ça donne un cloaque à verbe bien filé, à phrases bien conduites, avec, à la fin de l’article, une petite astuce innocente. Pas dangereuse, pas trop forte, pour ne pas effrayer le public. C’est ça l’échec de Rabelais, c’est ça l’héritage d’Amyot. De la vraie m…., je continue.
Rabelais a vraiment voulu une langue extraordinaire et riche. Mais les autres, tous, ils l’ont émasculée, cette langue, jusqu’à la rendre toute plate. Ainsi aujourd’hui écrire bien, c’est écrire comme Amyot, mais ça, c’est jamais qu’une “langue de traduction”.
Une de nos contemporaines presque célèbre a dit une fois en lisant un livre : “Ah ! que c’est beau à lire, on dirait une traduction ! ” voilà qui donne le ton.
C’est ça la rage moderne du français : faire et lire des traductions, parler comme dans les traductions. Moi, y a des gens qui sont venus me demander si je n’avais pas pris tel ou tel passage de mes livres dans Joyce. Oui, on me l’a demandé ! c’est logique, parce que l’anglais. c’est à la mode. Moi je parle l’anglais parfaitement. comme le français. Aller prendre quelque chose dans Joyce ! Non, comme Rabelais, j’ai tout trouvé dans le français même.
Lanson dit : “Le français n’est pas très artiste”. Pas de poésie en France ; tout est trop cartésien. Il a raison, évidemment, Amyot, voilà un pré-cartésien, et c’est ainsi que tout a été gâché. Mais c’était pas le cas de Rabelais : un artiste.
Rabelais, oui, il a échoué. et Amyot a gagné. La postérité d’Amyot, c’est tous ces petits romans émasculés qui paraissent de nos jours dans les meilleures maisons d’édition. Des milliers par an. Mais, des romans comme ça, moi j’en fais un à l’heure.
Or, on ne publie que cela, où est la postérité de Rabelais, la vraie littérature ? disparue. La raison en est claire. Il faudrait comprendre une fois pour toutes (assez de pudibonderie !) que le français est une langue vulgaire, depuis toujours, depuis sa naissance au traité de Verdun. Seulement ça, on ne veut pas l’accepter et on continue de mépriser Rabelais. “Ah ! c’est rabelaisien ! ” dit-on parfois. Ça veut dire : attention, c’est pas délicat, ce truc-là, ça manque de correction. Et le nom d’un de nos plus grands écrivains a ainsi servi à façonner un adjectif diffamatoire. Monstrueux. Car c’était un type très fort, Rabelais, écrivain, médecin, juriste… Il a eu des embêtements, le pauvre, même de son vivant : il passait son temps à essayer de ne pas être brûlé.
Non, la France peut plus comprendre Rabelais : elle est devenue précieuse. Ce qui est terrible à penser, c’est que ça aurait pu être le contraire, la langue de Rabelais aurait pu devenir la langue française.
Mais il n’y a plus que des larbins, qui sentent le maître et veulent parler comme lui. Vive l’anglais, la retenue plate !
Rabelais, me direz-vous, ça sent bien un peu le système : oui quoi, ce type, il a été traqué par la persécution catholique, il battait en brèche les puissants. Oui, ça sentait le fagot, ce qu’il faisait.
Voilà l’essentiel de ce que je voulais dire. Le reste (imagination, pouvoir de création, comique, etc.) ça ne m’intéresse pas. La langue, rien que la langue. Voilà l’important. Tout ce qu’on peut dire d’autre, ça traîne partout. Dans les manuels de littérature, et puis lisez l’Encyclopédie. Si vous en voulez plus, allez demander à tous ces grands écrivains qui, eux, ont “des idées sur Rabelais”.
Ah ! que j’en connais qui se prendraient la tête entre les mains et vous diraient avec sérieux : “Rabelais, quel prodigieux inventeur de mots ! ” Ce ne sont que des bavards.
La raison ! Faut être fou. On peut rien faire comme ça, tout émasculé. Ils me font rire. Regardez ce qui les contrarie : on n’a jamais réussi à faire “raisonnablement” un enfant. Rien à faire. Il faut un moment de délire pour la création.
Mais non, en littérature, faut rester propre. Alors on met aujourd’hui des lignes de points de suspension quand il se passe quelque chose et puis ça continue bien tranquillement : “le lendemain ils étaient tous deux invités à la réception de la duchesse”. Oh ! je ne recommande pas l’érotologie, ça me dégoûte, mais ce qui est terrible c’est ce langage trop poli.
Ce qu’il y a en effet de bien chez Rabelais, c’est qu’il mettait sa peau sur la table, il risquait. La mort le guettait, et ça inspire la mort ! c’est même la seule chose qui inspire, je le sais, quand elle est là, juste derrière. Quand la mort est en colère.
Il était pas bon vivant, Rabelais, on dit ça, c’est faux. Il travaillait. Et, comme tous ceux qui travaillent, c’était un galérien. On aurait bien voulu l’avoir, le condamner. Autres galères, celles du pape, ça a existé, c’est vrai. Et là, les gars, il fallait qu’ils rament, qu’ils ramassent, comme dirait M. Duhamel.
Bardamu aussi, mon héros dans le Voyage, il dirait ça. Ah ! les imparfaits du subjonctif… J’ai eu dans ma vie le même vice que Rabelais. J’ai passé moi aussi mon temps à me mettre dans des situations désespérées. Comme lui, je n’ai rien à attendre des autres, comme lui, je ne regrette rien.
che viaggi organizzi?
a me piace molto il quodlibetale, solo che non possa mai ne praticarlo ne osservarlo.
io cmq da quando ascolto mia figlia, o qualsiasi altro bambino, non conosco la noia.
In ogni caso avrei in mente una forma di esposizione sostitutiva della conferenza che veramente è cosa noiosissima.
Intanto è da notare come nella comunicazione alcuni rapporti siano asimmetrici: paziente-medico, confessore-confessoto, sapiente-discente, relatore-platea, insegnate-alunno, televisioe-spettatore,
nella conferenza questo assume tonalità estreme.
Quindi penserei di ribaltare questo rapporto in modo più interattivo e simmetrico.
solo una segnalazione:
esiste una traduzione in italiano di questo pezzo in un numero monografico dedicato a Céline de Il verri. Magari potrebbe servirti per la tua nuova traduzione.
Purtroppo non posso essere più preciso. Credo sia un numero dei primi anni 70
@ Emma
ti è fprse sfuggito qualcosa, all’inizio del post:
“Per Nazione Indiana farò una traduzione proponendone subito una versione che editerò da me – perchè esiste anche l’autoediting e non è meno severo- nelle ore a seguire. Post post.”
primo.
Secondo, come dice Alcor, anche a me il pensiero corre più veloce delle dita, le tue, il dito indice in particolare, puntato a caso te lo puoi mettere alla tempia e fare- respirando forte- poum!!!
Che tu sia una grande lettrice, lo sapevamo già ma trasferire questa tua qualità al resto del mondo mi sembra un PO’ gonflé.
Quando scrivi :
Rabelais il a raté son coup (tradurlo con “Rabelais ha fallito” è di raro piattume) è un testo ipernoto,
mi spiace contraddirti ma molti amici (magari anche comuni) non lo conoscevano affatto.
Tanto per restare in tema, potrebbe servirti codesto:
L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed esser appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere) cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica, e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo, scientificamente e coerentemente elaborata, il “sapere”; non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporto di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (cosí detto centralismo organico).
A. Gramsci, Passaggio dal sapere al comprendere, al sentire e viceversa, dal sentire al comprendere, al sapere (Q. XVIII) – in: A. Gramsci, Il materialismo storico, Editori Riuniti, Roma, 1971, pagg. 135-136
Emma. una bella bevuta rabelesiana, alla tua e (altrui) salute
effeffe
ps
Un’alternativa per il titolo?
un argot lombardo?
Rabelais ha cannato!
:)
Sì, ha cannato, Rabelais, gli è andata male, gli è andata buca, ha fatto cilecca, ha bucato, ha topato, ecc. (se Rabelais è soggetto, va alla fine, se è complemento di termine, si raddoppia con il pronome, lingua parlata oblige).
A Rabelais gli è andata storta
Rabelais ha pisciato
Rabelais:bersaglio mancato!
Rabelais:riprova sarai più fortunato
Emma ha toPPato! olè
top|pà|re
v.intr. e tr. (io tòppo)
1 v.intr. (avere) CO colloq., commettere un grossolano errore; sbagliare, fallire | fare una brutta figura
2 v.intr. (avere) OB giocare a toppa
3 v.tr. BU gerg., bloccare, fermare qcn.; nel gergo della malavita, arrestare
4 v.tr. OB rattoppare [quadro 48]
effeffe
urca, che toppata! no, comunque segnalo che “Rabelais il a raté son coup “è stato tradotto “Rabelais ha fatto fiasco” e pubblicato su “Leggere”
n.68 del marzo 1995, a cura di Elio Nasuelli. ciao!
Rabelais ha fatto fiasco
fa acqua (non vino), Emma, se ci pensi
effeffe